Più difficile parlare di disabilità che fotografarla?

«Sembra proprio che con le emozioni – scrive Antonio Giuseppe Malafarina, riflettendo su un’iniziativa che ha visto alcuni giovani fotografi cercare di raccontare la disabilità attraverso i loro occhi – questa gioventù riesca a parlare meglio che con le parole. Ma credo anche che ai giovani non arrivino le regole di base del parlato sull’argomento disabilità. Diamo loro gli insegnamenti giusti e saranno bravi a conversare compiutamente almeno quanto fotografano»

"Ratzo" (Davide Ratti) e Antonio Giuseppe Malafarina

L’artista “Ratzo” (Davide Ratti) e Antonio Giuseppe Malafarina nell’Officina Artkademy di Milano, in una delle foto che fanno parte dell’iniziativa “La quotidianità che non ti aspetti, scorci di vita di persone con disabilità”, promossa da Micaela Zuliani

Pensare al linguaggio, per uno che fa il giornalista di mestiere e scrive versi a tempo perso, al primo colpo è pensare alle parole. Ma i giovani, col loro pensiero fulmineo e il loro modo di comunicare smart, mi ricordano che il linguaggio è qualcosa di più immediato.
Un canale in voga di questi tempi è quello dell’immagine, al di là dello scontato selfie. Molti ragazzi frequentano corsi di fotografia, proprio perché qui trovano una libertà espressiva capace di mettere immediatamente in luce le loro competenze e la loro sensibilità.
Prestarmi all’idea di Micaela Zuliani, affermata professionista dello scatto, che ha proposto ad alcuni ragazzi di immortalare la disabilità, mi è pertanto venuto spontaneo, per esplorare i giovani mediante questa loro modalità linguistica.

L’idea si chiama La quotidianità che non ti aspetti, scorci di vita di persone con disabilità e Zuliani non è nuova a lasciarsi contaminare dalla disabilità. Sua, ad esempio, è l’iniziativa di inglobare nel proprio brand Portrait de femme il suo progetto Boudoir Disability, lavoro in cui ha avuto l’intuito d’avanguardia di mettere davanti all’obiettivo alcune donne con disabilità, per riprenderle nella loro piena sensualità, come fossero – perché in realtà sono – donne prima che con disabilità. Ci vogliono testa, cuore e preparazione per riuscire a fare questo.

La genesi della Quotidianità che non ti aspetti è semplice e la spiega la stessa Zuliani nella pagina dedicata al progetto: chiedere ad alcuni adolescenti di raccontare «attraverso la fotografia e i loro occhi la disabilità in una maniera più quotidiana». Scelte alcune persone con disabilità, fra le quali il sottoscritto, si trattava di raccontarne alcuni momenti della giornata, quasi come fosse un reportage. Impresa tutt’altro che abbordabile, poiché la disabilità è differenza. È un’alterità fatta di particolari che se raccontati male, prevalgono sulla persona sino a distruggerla.
Fotografare me nella mia normalità di persona diversa è più difficile di quello che sembri. Non ci sono gesti da cogliere. Non c’è una postura che cambia in continuazione. Non c’è un corpo che possa essere presentato da dietro. C’è un insieme uomo-macchina, carrozzina o letto che sia, che compone la persona che ne risulta. Fotografare me è praticamente sempre fotografare anche un ausilio. E fotografare un ausilio senza cadere nella retorica e cercando di uscire dal puro atto meccanico è complicato. A fotografare me cogliendo la mia essenza ci hanno provato in tanti. Ci sono riusciti in pochi.

Quel giorno di qualche settimana fa ho parlato poco ai ragazzi. Di certo non gli ho detto come fotografarmi. Non era il mio mestiere. Gli ho parlato velocemente di disabilità assieme a Ratzo (Davide Ratti), artista che fra l’altro ha problemi di udito. E quando Micaela ha detto loro che potevano iniziare a scattare, lo hanno fatto con la timidezza del giovane che si accosta all’adulto affermato, oppure, nel caso di Ratzo, con la curiosità cui ci si avvicina a un artista di strada che è un po’ più grande di te, ma non è poi così lontano dal tuo mondo.
Scattavano mentre io e Ratzo ci muovevamo negli spazi dell’Officina ArtKademy e parlavamo di idee e lui mi mostrava le sue opere. Non sapevamo cosa ne sarebbe risultato, ma io vedevo che c’era molta attenzione, fiducia, in quello che gli stessi ragazzi facevano.
Quando ho visto gli scatti sono rimasto ammirato. Per quel che mi riguarda, qui ragazzi ci hanno saputo fare. Hanno trovato una loro cifra espressiva in grado di narrare con oggettività e senza sbavature una verità difficile. Come navigati embedded nel terreno di guerra della disabilità.

Purtroppo è quando si passa dallo scattato al parlato che la convergenza di dialogo sulla disabilità si disperde. Il progetto ha coinvolto più persone con disabilità, come detto, ed è ancora in corso. Forse non avrà mai fine, perché Micaela Zuliani è una curiosa e continua a fotografare con i suoi ragazzi persone con disabilità. Ma in questo fruire, leggo, sul sito del progetto, che c’è fra i giovani fotografi chi non capisce cosa ci sia da dire sulla disabilità perché è qualcosa che fa parte della persona e quindi si comunica da sé. Tuttavia c’è anche chi, con tutte le buone intenzioni di questo mondo, propone concetti plausibili con parole sbagliate, come «infermità» e «costretto in sedia a rotelle».
Questo significa che con le emozioni questa gioventù riesce a parlare meglio che con le parole. Ma anche che ai giovani non arrivano le regole di base del parlato sull’argomento. Diamo loro gli insegnamenti giusti e saranno bravi a conversare compiutamente almeno quanto fotografano.

Riflessioni già apparse in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», nel testo intitolato “I giovani fra linguaggio dell’immagine e parlato”, e qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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