Università e disabilità intellettiva: altre riflessioni

Dopo avere avviato il dibattito su queste stesse pagine, ponendo il delicato quesito se «sia utile per i ragazzi con disabilità intellettiva la frequenza dell’Università, ai fini di una loro crescita umana, intellettuale e sociale», Salvatore Nocera replica all’intervento con cui Evelina Chiocca gli aveva risposto, sottolineando che «certe sfide, se non superate positivamente, possono produrre depressione e non rafforzamento dell’io»

Giovane australiano con disabilità intellettiva in un laboratorio universitario

Un giovane australiano con disabilità intellettiva in un laboratorio universitario

Rispetto al quesito che avevo posto su queste stesse pagine, con buona dose di provocazione («È utile per i nostri ragazzi con disabilità intellettiva la frequenza dell’Università per una loro crescita umana, intellettuale e sociale?»), ha replicato in questi giorni un intervento di Evelina Chiocca, ricordando tra l’altro il principio contenuto nella Legge Quadro 104/92, ovvero il diritto per gli studenti con disabilità «all’educazione e all’istruzione nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie» (articolo 12).
Ebbene, se partiamo dal diritto astratto all’università, indicato nella citata Legge Quadro, esso è subordinato, come per tutti, al possesso del diploma di scuola superiore; lo stesso era stato del resto per il diritto alla frequenza delle scuole superiori e infatti, su questo, era intervenuto il Ministero, che con l’articolo 11, comma 12 dell’Ordinanza 90/01, aveva consentito l’accesso alle scuole superiori anche agli alunni con disabilità in possesso del solo attestato.
Se si vuole, si faccia pure una norma che consenta l’accesso anche all’università con il semplice attestato, ma continuo a chiedermi: «Serve l’università, con il suo stile di astrattezza, ai nostri ragazzi con disabilità intellettiva, a farli crescere?».

Nel mio intervento precedente, mi ero permesso di assimilare quest’ultima eventualità all’ipotesi che un sordo venisse inserito in un gruppo coreutico [“di danza”, N.d.R.] o che un cieco volesse partecipare a un campionato di tiro al piattello. Erano assimilazioni volutamente provocatorie, perché continuo a ritenere che ci siano delle limitazioni naturali che non possono essere superate sul piano pratico del vantaggio per i nostri ragazzi.
Sarò vecchio e all’antica, ma – da minorato della vista – non mi sono mai sognato di voler partecipare a una gara di precisione in cui si richieda la vista. Sono infatti convinto che certe sfide, se non superate positivamente, producano depressione e non rafforzamento dell’io.

Presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) della quale è stato vicepresidente nazionale.

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