Il referendum e le persone con disabilità

«Sia che al prossimo referendum costituzionale dovessero avere la meglio i sostenitori del Sì – scrive Gianluca Rapisarda – sia che dovessero prevalere i fautori del No, da cittadino con disabilità permeato da un forte senso dello Stato ed estremamente fiducioso nelle nostre Istituzioni, ho la convinzione che il referendum costituirà comunque per tutte le nostre forze politiche l’occasione giusta per fare uno sforzo di analisi puntuale e di riflessione profonda sullo stato dell’arte del “sistema dell’inclusione” in Italia e delle sue varie e difformi articolazioni e declinazioni territoriali»

Particolare di volto di uomo anziano, con espressione pensierosa e mani sulla boccaA pochi giorni dal voto referendario, il quesito più ricorrente che “arrovella” anche noi cittadini italiani con disabilità è se la riforma istituzionale voluta dal Governo Renzi e – non dimentichiamolo – pure dalle nostre due Camere, sia qualcosa di estraneo rispetto alla nostra “quotidianità” e ai nostri diritti, oppure, al contrario, rappresenti il tentativo di riorganizzare il “sistema” e la qualità della vita di tutti gli italiani in termini più organici e coerenti con le sfide della modernità e della nuova società globale.
Volendo improvvisarmi nel fare un po’ di storia del sistema istituzionale italiano, potrei affermare che le profonde innovazioni che hanno investito il nostro Paese a partire dagli Anni Duemila, si siano sviluppate, a mio modesto avviso, attorno a un evento normativo “periodizzante”: la Legge Costituzionale 3 del 2001, che ha profondamente riformato il Titolo V della nostra Costituzione. Quella norma, infatti, dà inizio a un processo di “decentramento” e “federalismo”, per il quale compiti e funzioni del Governo passano alle Regioni e agli Enti territoriali (Comuni, Province e Città Metropolitane).
Come ogni provvedimento normativo, anche la riforma del Titolo V della nostra Carta Costituzionale, al momento della sua emanazione porta a compimento un processo evolutivo già in atto da tempo nella società italiana; date infatti la complessità e l’“alta velocità” dei cambiamenti del sistema sociale, risulta difficile governare dal centro in modo unitario il Paese, per cui si opera la scelta di avvicinare al territorio il “luogo delle decisioni”, nella convinzione che più vicine esse sono ai cittadini, più risultano efficaci. In altre parole, il Legislatore ritiene che, portando il luogo delle decisioni a livello locale, il “sistema Italia” possa prestare più attenzione alle esigenze dell’utenza e che una maggiore libertà e autonomia di azione delle Regioni possa innalzare la qualità e il livello dei servizi da erogare ai cittadini. Dal canto suo, lo Stato, poi, con la legislazione nazionale e i vincoli di risorse e organizzativi avrebbe garantito il rispetto dell’unità del sistema e dei cosiddetti LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) in àmbito nazionale.
Le due parole chiave – autonomia e decentramento – rintracciano tuttavia già nella Costituzione del 1948 una cogente e propulsiva indicazione, allorquando all’articolo 5 di essa si legge: «La Repubblica, […] promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».
Il principio ispiratore della Legge 3 del 2001 è senz’altro quello della cosiddetta “sussidiarietà verticale” per cui «i compiti e le funzioni amministrative devono essere affidati agli Enti territorialmente e funzionalmente più vicini ai destinatari dei servizi».

Un’ulteriore e determinante novità della Legge 3/01 è stabilita dal riformato articolo 117 della Costituzione, che fissa la potestà legislativa, distribuendola tra Stato e Regioni. Lo Stato ha la potestà esclusiva nelle materie di sua pertinenza, mentre la “legislazione concorrente” è divisa tra Stato e Regioni, e dove queste ultime hanno la potestà esclusiva, lo Stato si limita a intervenire determinando i prìncipi generali.
In materia di istruzione – problematica tanto cara a chi scrive e alle nostre Associazioni di e per persone con disabilità -, lo Stato ha la potestà esclusiva sulle norme generali e sulla determinazione dei «livelli essenziali delle prestazioni» relativi ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale (tra i quali è pertanto incluso pure il diritto all’istruzione). Le Regioni hanno invece la potestà esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale, nella programmazione della rete scolastica e nella determinazione del calendario scolastico. I compiti amministrativi, infine, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, vengono affidati alle Province e ai Comuni, tenendo conto dei criteri dell’attribuzione delle scuole di secondo grado alle Province e di quelle di primo grado ai Comuni e del conferimento ai Comuni stessi delle competenze più significative (tra le quali: iniziative di educazione degli adulti, di continuità e di orientamento scolastico e professionale e di integrazione degli alunni con disabilità e stranieri, come da articolo 139 del Decreto Legislativo 112/98).
Nel 2014, con la cosiddetta “Legge Del Rio” [Legge 56/14, N.d.R.] e la definitiva soppressione delle Province, sostituite con le Città Metropolitane, si assiste a un “provvisorio” vuoto di poteri e competenze, finalmente sanato dall’articolo 1, comma 947 della Legge 208/15 [Legge di Stabilità per il 2016, N.d.R.], che sancisce il passaggio alle Regioni delle funzioni e dei servizi fino ad allora forniti dalle ormai “ex” Province.
Infine, la Legge 3/01, con il “novellato” articolo 118, ci dice che gli Enti territoriali periferici, sempre nel rispetto del principio della sussidiarietà verticale, devono pure adoperarsi per un’organizzazione e tutela “orizzontale” degli interessi, favorendo l’iniziativa e la collaborazione diretta degli stessi cittadini, specie se organizzati socialmente. Accanto al principio di sussidiarietà verticale, la costruzione di un rapporto più impegnativo con la società richiede, pertanto, pure la pratica della “sussidiarietà orizzontale”.

Dunque, superando la tradizionale impostazione del diritto pubblico che vedeva nei cittadini dei soggetti solo da “assistere ed amministrare” e che invece non venivano chiamati alla partecipazione attiva e a forme di “partenariato sociale”, finalmente anche noi cittadini con disabilità venivamo considerati come “soggetti di diritto” e attori protagonisti della cosa pubblica.
Però, come sovente avviene nel nostro Bel Paese, pur potendo contare su ottime Leggi “sulla carta”, troppo spesso non si riesce poi ad applicare le norme in maniera davvero compiuta. E in tal senso ritengo che le “eterne incompiute” del sistema normativo italiano si siano intensificate nell’ultimo quindicennio, perché una grande percentuale delle nostre Leggi più recenti – e ovviamente anche la riforma del Titolo V del 2001 non fa eccezione – è nata in un clima di contrapposizione politica esasperata e preconcetta.
In particolare, proprio la Legge 3/01 è diventata ben presto il luogo e la “bandiera” dello scontro tra i diversi partiti, indipendentemente dal valore della riforma in sé. Infatti, prima alcune Regioni amministrate dal centrosinistra e poi altre governate dal centrodestra hanno a turno presentato, nel corso degli ultimi anni, ricorsi alla Corte Costituzionale, per lesione da parte dello Stato delle competenze loro attribuite dall’articolo 117. E tutto ciò a solo detrimento e nocumento dei cittadini più deboli e naturalmente di noi disabili – che siamo “i più deboli tra i deboli” -, facendo sì che ancora nel 2016 (nonostante le belle parole e le “onorevoli” enunciazioni di principio contenute nella riforma del Titolo V del 2001, in quella tentata nel giugno del 2006 e infine nell’imminente referendum istituzionale del 4 dicembre), in realtà non ci sia per noi una vera “inclusione”, con conseguenti difficoltà da parte dei nostri bambini, ragazzi e anziani, a raggiungere apprezzabili livelli di qualità della vita.
Troppo facilmente e “desolatamente” è successo che, dal 2001 in poi, ai reali interessi della gente, ai superiori princìpi della sussidiarietà verticale e orizzontale, e al diritto di pari cittadinanza, le varie Regioni italiane di qualsiasi colore politico abbiano invece anteposto logiche di parte, clientelari e consociative negli àmbiti di pertinenza, loro attribuiti dalla Legge 3/01. Questo loro grave modus agendi non ha fatto altro che aumentare gli sprechi e incrementare esclusivamente la difformità di trattamento a livello territoriale nell’erogazione dei servizi di trasporto e socio-sanitari, nella formazione professionale e nell’assistenza specialistica alle persone con disabilità.
A ciò si aggiunga che l’organismo che avrebbe dovuto evitare tali “squilibri” e scompensi territoriali nella fornitura dei servizi, e cioè la Conferenza Stato-Regioni, a mio parere, poco è servito finora a garantire un adeguato coordinamento tra il potere centrale e gli Enti periferici, non riuscendo ad assicurare una reale visione d’insieme che potesse definire e omogeneizzare le potenzialità delle singole realtà regionali in un unico e condiviso sistema nazionale unitario dei servizi.

Tornando alla questione del prossimo referendum del 4 dicembre, ormai dall’inizio della scorsa estate non facciamo altro che sentir parlare di riforma istituzionale ed elettorale. Ma i dibattiti e i faccia a faccia televisivi sono “egemonizzati” soltanto dai facili personalismi e dalle sterili polemiche tra le opposte fazioni, piuttosto che dal buon senso e dalla voglia di far capire, ad esempio a noi persone con disabilità, se e come cambierà realmente la nostra vita e il mare magnum del sociale, in caso di vittoria del Sì.
Sappiamo per certo che dovrebbe cessare il “tira e molla” e il ping-pong del sistema bicamerale, che troppe volte ha ritardato o addirittura “bloccato” l’approvazione di alcune significative Leggi a nostra tutela, che dovrebbe essere eliminato il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e infine che dovrebbe mutare radicalmente il (fino ad oggi) “controverso” e “frazionato” rapporto tra lo Stato e gli Enti Locali, con la nascita del famoso “Senato delle Regioni o delle Autonomie”.
E proprio quest’ultimo tema mi sta particolarmente a cuore e credo che certamente sarà uno degli argomenti all’ordine del giorno nell’agenda politica e nell’attività delle Associazioni di e per persone con disabilità disabili dei prossimi anni. Infatti, indipendentemente dall’esito del voto referendario, sono fortemente persuaso che tutti i nostri partiti di oggi e di domani non possano e non potranno prescindere dalla consapevolezza – che deve diventare sempre più diffusa all’interno del mondo politico – che la qualità del servizio offerto agli utenti con disabilità dev’essere il più possibile omogenea a livello territoriale.
In effetti, oggi, anche a causa dell’uso distorto e a volte “di bottega” che tutte le Regioni italiane hanno fatto delle competenze loro concesse dalla Legge 3/01, è abbastanza chiaro che esistono forti disparità territoriali. Una disomogeneità di trattamento che è spesso molto evidente, con zone dove, grazie soprattutto alla solidarietà locale, si riesce a far decollare strutture nuove e accoglienti e altre Regioni del Paese dove invece i servizi sono decisamente “di fortuna”. E si badi bene che le discrepanze non sono basate sulla classica divisione italiana tra Nord e Sud. Il fenomeno, infatti, si presenta “a macchia di leopardo”, con alternativamente zone del Meridione e del Settentrione servite bene oppure lasciate in condizioni preoccupanti.
Ebbene, io penso invece che – qualsiasi sarà l’assetto istituzionale della nostra Repubblica dal 5 dicembre in poi – non potranno più esserci Province dove le cose funzionano bene e altre dove invece i nostri utenti non ricevono le prestazioni adeguate. In questo senso, sia che dovessero avere la meglio i sostenitori del Sì, sia che dovessero prevalere i fautori del No, da cittadino con disabilità permeato da un forte senso dello Stato ed estremamente fiducioso nelle nostre Istituzioni, ho la convinzione che il referendum del 4 dicembre costituirà comunque per tutte le nostre forze politiche l’occasione giusta per fare uno sforzo di analisi puntuale e di riflessione profonda sullo stato dell’arte del “sistema dell’inclusione” in Italia e delle sue varie e difformi articolazioni e declinazioni territoriali.
A tal proposito, sarà nostro impellente compito e nostra indifferibile responsabilità – grazie al traino delle Federazioni FAND e FISH [rispettivamente Federazione tra le Associazioni delle Persone con Disabilità e Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, N.d.R.] – sfruttare il referendum e qualsiasi suo risultato, come una sfida da cogliere per abbandonare le gelosie e le “invidiucce” del passato e per “fare squadra”, creando tra di noi una rete coesa e compatta, capace di “guidare” e orientare la politica nell’organizzazione di un sistema nazionale unitario e omogeneo dei servizi, che possa garantire finalmente a tutte le persone con disabilità del nostro Paese autentiche condizioni di pari opportunità e le stesse chance di crescita formativa e di assistenza.

Direttore scientifico dell’IRIFOR (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione) dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).

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