Ambasciatori aziendali della disabilità

«Spesso – scrive Simone Fanti – è il non sapersi rapportare e la paura di sbagliare a rendere difficile il dialogo tra le persone. Aprendo quindi uno spiraglio in questo senso – ciò di cui si è parlato durante un recente corso formativo a Firenze, con la partecipazione di veri e propri “ambasciatori della disabilità in azienda” -, si possono abbattere le barriere e iniziare un dialogo aperto e schietto. Penso infatti che per avviare un vero processo di inclusione nel lavoro, il cambiamento debba avvenire dal basso, direttamente dai colleghi del lavoratore con disabilità»

Persona con disabilità in carrozzina al lavoro al computerSecondo una stima della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, la disoccupazione tra le persone con disabilità supera l’80%. Di fatto, quindi, solo un disabile (ma abile e avviabile al lavoro) su cinque trova un’occupazione. Sembra un gioco di parole, ma è la fotografia di una situazione drammatica.
Secondo «Condicio.it», il sito di dati e cifre sulla disabilità promosso dalla FISH, dei 700.000 iscritti con disabilità alle liste di collocamento provinciali (dati del 2013, gli ultimi disponibili), solo il 6,1% ha trovato un posto nelle aziende, pubbliche o private, soggette alla Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili).
Non è solo una questione di crisi economica (che è sicuramente una concausa) o di norme: il Decreto Attuativo 151/15 del cosiddetto Jobs Act, ad esempio, ha introdotto novità rispetto agli incentivi alle aziende con un fondo di 20 milioni. Il problema, però, è culturale, e più precisamente di cultura aziendale. Da un punto di vista manageriale, infatti, troppo spesso l’assunzione di una persona con disabilità è un obbligo di legge, assolto il quale non è necessario trasformare l’assunto in una risorsa produttiva. Per i colleghi, invece, la persona con disabilità diventa un “peso”, perché spesso, essendo collocata in un ruolo inadatto alle sue competenze, non riesce a svolgere correttamente la propria mansione.

A scardinare questo meccanismo e ad avviare un processo costruttivo dovrebbe pensarci il Disability Manager, ruolo importantissimo, anzi centrale, per l’inserimento dei lavoratori con disabilità in azienda, come è emerso chiaramente anche a Milano, nel corso del recente Primo Convegno Nazionale sul Disability Management [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.]. Ma, a mio avviso, non basta: per avviare infatti un vero processo inclusivo, il cambiamento deve avvenire dal basso, direttamente dai colleghi del lavoratore con disabilità. E me ne sono reso conto qualche settimana fa, partecipando a Firenze a un corso di formazione organizzato da Jobmetoo – la nota agenzia per il lavoro delle persone con disabilità, ideata e fondata da Daniele Regolo – presso la sede della GE Oil & Gas – Nuovo Pignone. In questa multinazionale, infatti, è stata attivata una rete di volontari, chiamata People with Disability Network, che fra le varie attività include anche i cosiddetti Disability Ambassadors (letteralmente “ambasciatori della disabilità”), presenti nei vari dipartimenti aziendali in modo piuttosto capillare, che si rendono disponibili ad ascoltare i colleghi con esperienza di disabilità diretta o indiretta, recependo le loro necessità e segnalandole nelle sedi opportune, e più in generale chiunque abbia proposte di iniziative o di miglioramenti a supporto delle persone che vivono esperienze con la disabilità.
È un impegno, quello dei volontari in GE Oil & Gas, che è fortemente radicato nella cultura dell’azienda e che abbraccia i vari tipi di diversità in ottica di piena inclusione: dalle diversità di genere, con la valorizzazione delle professionalità al femminile attraverso il Women’s Network, a quelle legate all’orientamento sessuale, con la fondazione e la partecipazione attiva a un gruppo a sostegno dei diritti delle persone LGBT [lesbiche, gay, bisessuali e trans gender, N.d.R.].
Va anche detto che di organismi di controllo di questo tipo se n’era parlato molto anche alla Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità, tenutasi anch’essa a Firenze, nel mese di settembre dello scorso anno.

Ebbene, in occasione del corso, mi sono trovato di fronte – ma è meglio dire in mezzo, visto che il tutto si è trasformato in una bellissima tavola rotonda – a una trentina di persone con ruoli molto differenti tra di loro all’interno dell’azienda, dal manager all’addetto alla produzione, spinte da curiosità e interesse umano. Metà di loro avevano già avuto un’esperienza personale o vissuto una disabilità, un’altra parte si era “imbattuta” temporaneamente o era venuta a contatto con questa condizione. Altri, invece, non ne avevano mai preso coscienza. Una ragazza di 30 anni ha infatti dichiarato: «Un giorno, quasi per caso, mi sono resa conto di non avere colleghi con disabilità… Poi ho indagato meglio e ho capito che la mia era solo una sensazione e che le persone con una disabilità sono molte e molto vicine a noi…».
Già, perché attorno alla disabilità esiste ancora una scarsa consapevolezza. Il non sapere come interfacciarsi con un disabile, spesso interpretato come indifferenza o egoismo, è invece legato al timore. Il non sapersi rapportare e la paura di sbagliare allontanano, rendono difficile il dialogo tra persone. E quindi, durante quel corso, è bastato aprire uno spiraglio in questo senso, per abbattere le barriere e iniziare un dialogo aperto e schietto. Sicuramente gli interlocutori erano persone interessate all’argomento, ma resto convinto che è attraverso di loro che passi il cambiamento, grazie a parole e gesti di valore da affiancare al lavoro più delicato del disability manager.

Riflessioni già apparse in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Gli ambasciatori aziendali della disabilità,il braccio operativo del disability manager”). Vengono qui riprese, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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