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Una società nuova, dove ognuno possa vivere i propri desideri

Oriella Orazi, "Nell'amore n. 1" (particolare)

Oriella Orazi, “Nell’amore n. 1” (particolare)

Chi si trova nel mondo della disabilità ultimamente sente parlare spesso delle evoluzioni (o degenerazioni) delle leggi in questo àmbito, come quella sul “Dopo di Noi” [Legge 112/16, N.d.R.] o altre ancora, in relazione, ad esempio, all’inclusione scolastica e sociale. Si sente parlare “persino” del diritto a una vita indipendente o anche della possibilità di abbattere le barriere architettoniche o addirittura quelle culturali. Niente meno, è stata istituita la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità del 3 dicembre. Quello che occorre, però, è ancora un successivo passaggio di cui non si parla e che è necessario affrontare, ovvero la “consapevolezza di una vita disabile” e la “consapevolezza di essere disabile”.
Prima di addentrarci in questo groviglio di concetti, serve una premessa: non è solo il disabile a non essere accettato dalla società, ma è proprio egli stesso che non accetta la sua disabilità e, così facendo, fa nascere il proprio “essere handicappato”.
Come già nei miei precedenti interventi su queste pagine [se ne vedano i titoli nella colonnina a destra del testo, N.d.R.], non intendo solo affrontare la questione della disabilità, perché sarebbe riduttivo. Piuttosto, partendo da una situazione di “deficit”, vorrei tentare di analizzare tutta la cultura sociologica all’interno della quale ognuno vive la propria disabilità, il corpo, i propri innamoramenti, le proprie delusioni e altre frustrazioni. Pur non essendo disabile.

Essere disabile vuol dire, fra le altre cose, non avere la possibilità di essere autonomo, di decidere, di muoversi, di alzarsi, di vivere la propria volontà fisica e conseguentemente i propri innamoramenti, le pulsioni sessuali, anche solo primarie, di toccarsi le parti genitali.
Quando un bambino ha voglia di correre, va in un parco pubblico con i genitori e corre, sale sull’altalena o sui giochi dove ci si arrampica; un bambino con disabilità no, non può, deve aspettare o, meglio, chiedere ai propri genitori: «Mi metti sull’altalena?». Ma che cos’è quell’altalena? Essa rappresenta tutta la voglia di libertà che non può vivere. Ma il genitore, se non è così accorto, non lo intuisce.
Vivere la disabilità vuol dire “attesa”. Attesa di cosa? Attesa della volontà e della disponibilità dell’altro, del “non-io”, che abbiamo già incontrato in altri miei precedenti articoli. È quel “non-io” che diventa il “manipolatore” di quel corpo disabile. Il bambino su quell’altalena deve aspettare, deve attendere che il genitore finisca di chiacchierare con il conoscente incontrato al parco pubblico per poter scendere dall’altalena stessa.
In un contributo che ho scritto per il libro di Gianfranco Zavalloni La pedagogia della lumaca [EMI, 2013, N.d.R.] – dove analizzavo proprio i temi del tempo e dello spazio – trattavo la questione dell’attesa che il disabile deve vivere per affrontare la propria disabilità in questo tempo e spazio che per lui non ha una dimensione, perché nelle domande che egli pone («posso?”», «vengo anch’io?», «facciamo?», «mi porteresti a…?») il più delle volte la risposta è «non ho tempo», ciò che racchiude in sé il significato di «ora tu non ci sei», non ci puoi essere, perché rallenti tutto il mio ritmo di vita; tempo e spazio, un tempo e uno spazio che la disabilità rallenta, il tempo frenetico di questa società.
Questo si può analizzare benissimo in una classe di scuola, dove c’è un alunno con disabilità e l’insegnante “non ha tempo” di interrogarlo perché deve andare avanti con il suo programma didattico, e tanto meno c’è spazio per quella sua disabilità, che sta diventando il peso di una condizione sociale.

Proviamo a cambiare prospettiva. Un disabile, nella vita quotidiana, da quante mani passa? Dalle mani della mamma, del papà, se va bene, dell’educatore o dell’assistente OSS (Operatore Socio Sanitario) o ASA (Ausiliario Socio Assistenziale). E se quel disabile è adulto? Come viene lavato, guardato, accolto quel corpo? Un corpo che è pronto all’eccitamento, un corpo che è pronto a vivere la prima esperienza sessuale, affettiva, come viene visto? Come viene vissuto? Se il disabile è un maschio, la cosa può essere manifesta… ma se quel corpo è femmina? Non si vede oggettivamente che qualcosa muta nel suo corpo, ma sicuramente sappiamo che qualcosa cambia in lei, nella sua psicologia, nel suo essere donna. E tuttavia nessuno dei due può o deve esprimere i propri desideri, entrambi li devono omettere, perché manca la cultura, manca la volontà di far vivere quella sessualità.
Certi tipi di disabilità hanno già in sé l’impedimento a vivere la sessualità, sia dal punto di vista erotico, che, soprattutto, affettivo. Questo perché la persona “normale” ha paura ad approcciarsi al disabile e ha ancora più paura ad esprimergli la propria tenerezza, il proprio affetto, pensando (e convincendosi in modo tranquillizzante) che egli non abbia bisogno di avere una vita sessuale completa.
Come sostiene Giancarlo Dall’Ara nelle pagine del suo libro Asessuati come gli angeli? [Il Ponte Vecchio, 2006, N.d.R.], al quale anche chi scrive ha collaborato, un certo numero di persone è abituato ad avvicinarsi al sesso in modo prettamente fortuito. Proviamo a pensare ad una di quelle serate passate con spensieratezza, dove la maggior parte delle persone non si prende la briga di conoscere a fondo un’altra  persona prima di andarci a letto. Ma se quel loro incontro fosse stato con un disabile, sarebbe stato la stesso? Ci si dimentica che la sessualità implica anche una relazione, un impegno, un sentimento. Ci si dimentica di questo con un partner normale, figurarsi con uno che ha una disabilità…
Ma siamo onesti con noi stessi e chiediamoci: chi si prenderebbe la briga di volere approfondire la conoscenza con una persona su una carrozzina? E chi deciderebbe di volerlo conoscere per farci solo del sesso? Tutto ciò richiederebbe troppa fatica, troppo impegno, troppo tempo e troppo investimento emotivo; che il più delle volte ci spaventa.

Soffermiamoci ancora un istante su quel corpo “lavato e asciugato”: parlo di corpo, e non solo di corporeità, come avevo scritto in un precedente articolo, sempre su queste pagine. La corporeità è annullata, quando il corpo disabile viene lavato con una spugna e mai con le mani. Quella spugna e quei guanti in lattice simboleggiano il distacco tra l’assistente e l’assistito. Non c’è coinvolgimento, non c’è contatto, non solo per un rispetto igienico o professionale, ma per un motivo che fa dire, pensare: «Non voglio toccare un corpo disabile, perché non voglio che il mio corpo diventi disabile». Questo concetto esprime benissimo in sé un aspetto di sterilità non solo organica, dal punto di vista batterico, ma anche psicologica, come se l’assistente avesse paura di essere “contagiato da un morbo” che lo fa diventare a sua volta disabile.
Ora guardiamo la questione anche sotto l’aspetto sociologico, perché se continuiamo a parlare solo di disabili, rischiamo di non uscire più dalla mentalità “disabilizzante”.
Come ho già detto, io non mi ritengo prettamente un disabile, anche se vivo su una carrozzina. La carrozzina mi permette di vivere una disabilità dignitosa e non di più, però se il disabile continua a sentirsi tale, diventa “handicappato”. Quindi, come si può osservare bene, qui la teoria della spugna vale anche nel mondo sociale dei “normodotati”. Quante spugne poniamo, tra noi e gli altri, solo per paura di essere coinvolti in loro? Oppure, quando si avverte o si prova una sorta d’innamoramento, anche qui si crea il pretesto di lontananza, perché si ha paura del coinvolgimento affettivo. Tutti noi sappiamo cosa fa una spugna: assorbe. I liquidi, in questo caso, sono rappresentati dalle emozioni dell’altro; a questo punto la spugna si comporta da schermo, assorbendo solo le sofferenze o le gioie dell’altro, sperando che tutto ciò non passi attraverso di noi. E tutto rimane in quella stessa spugna, proteggendoci dai mali altrui, ma anche dalle felicità, e trasformando l’essere umano in un personaggio sentimentalmente asettico.

Cosa vuol dire allora essere consapevole di essere disabile? Vuol dire innanzitutto non aspettarsi sempre che siano gli altri a modificare il proprio atteggiamento, ma che è la stessa persona con disabilità a dover cambiare e accettare l’altro. Perché al disabile, come ho già avuto modo di scrivere, nulla è dovuto, tranne che di vivere le relazioni. In altre parole, il disabile dovrebbe saper intravvedere i rapporti che riesce a vivere sotto due riflettori: quello della relazione, e quello della complicità.
“Intravvedere” i rapporti vuol dire per la persona con disabilità riuscire a non autocommiserarsi nelle proprie impossibilità, ma cercare di accettarsi con i propri limiti, rendendosi conto che essi possono essere superati grazie a una relazione autentica, dove la persona “normale” che sta vicino al disabile riesce a rendere la sua esistenza una Vera Esistenza; e chiaramente, per fare questo, la persona con disabilità deve impegnarsi ad uscire dal proprio stato di vittimismo e cercare di credere nelle proprie possibilità.
Tornando a quanto accennavo prima, ovvero al “riflettore della relazione”, con questo si intende una relazione a trecentosessanta gradi che parta alla pari, perché solo una relazione di questo tipo può annullare in buona parte il sentirsi diverso, disabile; altra cosa importante nella relazione è non guardare sempre la persona che si incontra solo come un’“antagonista di se stesso”, ma come qualcuno con cui si possa costruire una nuova società. Ed è anche da qui che deve nascere quella che io chiamo una nuova pedagogia della disabilità.
Il secondo “riflettore”, poi, quello della “complicità”, sarà utilizzato in questo frangente soltanto per due eccezioni: per favorire a… e per andare verso…. È solo tramite queste due azioni, infatti, che la persona con disabilità riuscirà a raggiungere quella sua tanto auspicata libertà.
Un “favorire a…” che significa permettere al disabile di vivere tutto ciò che egli da solo non può vivere, partendo proprio dai gesti più quotidiani, come alzarsi dal letto, lavarsi come egli vuole, e non sempre o solo con quella spugna (ma chiediamoci anche in quanti usano la spugna, quando si fanno la doccia o il bagno?) e non più con i tempi dell’assistente o con quelli del parente, ma con i propri tempi. Per poi passare così ai momenti più consueti della giornata; andare al lavoro, a scuola, o anche stare in casa, ma sempre con quella sana relazione e consapevolezza di essere prima di tutto persona, con una propria dignità e solo conseguentemente disabile. Sarà in questa relazione che egli potrà trovare facilità a vivere ogni suo desiderio e pensiero, perché chi gli starà accanto non lo vivrà più come un “peso”, ma semplicemente come una persona con la quale relazionarsi e scambiare esperienze e pensieri, creando insieme quella sana complicità attraverso la quale poter vivere le proprie fantasie ed emozioni, laddove i genitori non si sentano pronti ad affrontare l’aspetto genitale e sessuale della corporeità del figlio, mentre l’amico o l’amica potranno agevolare quel suo atto. Un atto che rientra in quella pedagogia dell’essere disabile, un atto lecito e comprensibile all’intera umanità. E quella complicità potrà favorire anche una vita affettiva, piena di coccole e di tenerezza, che sa “andare verso…”, e oltre quel sogno desiderato.
Qualcuno lo chiama amore, altri immaginazione, qui non importa la terminologia, importa solo voler costruire e pensare una società nuova dove ogni persona possa vivere le proprie aspettative e i propri desideri.
In poche parole, è il pensiero di una nuova pedagogia, che ho già proposto nei miei precedenti articoli, per dire NO a chi oggi, ancora una volta, rivendica il diritto all’affettività e alla sessualità, tramite figure come quelle dell’“assistente sessuale”. Noi non lo rivendichiamo come diritto, perché il diritto ha un fine solo legislativo. Quello che vogliamo non lo chiediamo per legge, ma per un’inter-relazione che nasce con naturalezza, tramite l’incontro tra le persone.
Vogliamo insomma illuderci a credere in quella sana complicità che chiunque può vivere, senza nasconderci dietro a un dito, scandalizzandoci: la persona con disabilità è un essere umano e come tale desidera come chiunque accoccolarsi, essere amato e provare dei sentimenti. Chi di voi, pur avendo un rapporto di sola amicizia, non si è mai trovato in una situazione di tenerezza, come può essere una coccola, o non sia arrivato persino ad avere un rapporto genitale? Perché non possiamo immaginare, pensare questo quadro anche per una persona con disabilità? È giunta l’ora che il disabile dica: «Voglio vivere l’affettività e la sessualità come tutti», in quella sana complicità dell’essere umano.

Così argomenta Francesca Tripodi, sessuologa clinica ed esponente dell’ISC (Istituto di Sessuologia Clinica di Roma), soffermandosi sulla figura dell’“assistente sessuale” per le persone con disabilità: “Sono critica, preferirei promuovere un lavoro di consapevolezza sulla sessualità e la disabilità a tutti i livelli e gradi. È giusto fare educazione sessuale nei centri che si occupano di disabilità, per aiutare chi ha un handicap ad esplorare la propria sessualità, informando anche i genitori su tutte le novità in materia. Trovo meno utile la figura di un assistente sessuale, in quanto non credo che alla lunga aiuti queste persone a sviluppare una propria competenza sessuale». E a questo pensiero noi vogliamo aggiungere che si può prostituire tutto, ma non i sentimenti, o gli affetti, e tanto meno la dignità di essere una persona con disabilità.

Persona con disabilità esperta di disabilità e diversità.

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