A proposito di sostegno: “bazza a chi tocca”

Ovvero “fortuna (o disgrazia) a chi tocca”, secondo un detto antico, ormai caduto in disuso, evocato da Giancarlo Onger per parlare di scuola, di alunni con disabilità e di dirtti che dovrebbero essere consolidati, cosicché, scrive, «i destinatari non dovrebbero invocare la fortuna affinché vengano erogati per rendere migliore la loro qualità della vita». E invece…

Jan Steen, "La scuola del villaggio", 1670

Jan Steen, “La scuola del villaggio”, 1670

Quello del titolo (“bazza a chi tocca”) è un modo di dire caduto in disuso. In breve significa fortuna, o disgrazia, a chi tocca. L’ho voluto evocare in quanto mi accingo a parlare di diritti consolidati. In quanto tali, i destinatari non dovrebbero invocare la fortuna affinché vengano erogati per rendere migliore la loro qualità della vita. Nella fattispecie per gli/le alunni/e con disabilità non ci sono dubbi, da alcuni decenni, sul loro diritto a frequentare la scuola di tutti.
L’ articolo 34 della Costituzione è molto chiaro e non ha bisogno di costituzionalisti per essere interpretato: «La scuola è aperta a tutti», dove tutti ha un inequivocabile significato universale. Dal 1948 in poi lo Stato aveva una sola cosa da fare: organizzare la scuola in modo tale che potesse accogliere tutti i/le bambini/e, i/le ragazzi/e. Sappiamo come si è sviluppata la storia della scuola dal dopoguerra in poi. Sono passati quasi trent’anni perché la Legge 517/77 aprisse i cancelli e le porte di tutti gli edifici scolastici. O quasi. Infatti, ci vorranno altri dieci anni perché cadano le ultime trincee: quelle della secondaria di secondo grado. A ciò ha pensato la Sentenza n. 215 del 3 giugno 1987 della Corte Costituzionale.

Ma non dobbiamo dimenticare il Documento della Commissione Senatoriale presieduta da Franca Falcucci, che ha gettato le basi della nuova stagione della scuola aperta a tutti. Siamo nel 1975 e la politica, che pensa, scrive importanti pagine sull’integrazione scolastica. Pagine che risultano ancora utili al dibattito odierno, sviluppatosi intorno ai Decreti Delegati della Legge 107/15. Da anni ritengo il testo della Commissione una lettura indispensabile per tutti i docenti. E non solo.
A cominciare da: «Il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di concepire e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo personale… Lo stesso criterio di valutazione dell’esito scolastico, deve perciò fare riferimento al grado di maturazione raggiunto dall’alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti realizzati, superando il concetto rigido del voto o della pagella»…
Per non parlare del «convincimento che anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita». E della «possibilità di realizzazione di un nuovo modo di essere della scuola legata alla preparazione e all’aggiornamento permanente degli insegnanti». Inoltre, che «Condizione essenziale è che tutti gli operatori, docenti e specialisti, lavorino in équipe per l’attuazione dei finì indicati…». E infine: «Si ritiene che ciò potrà essere particolarmente favorito da una maggiore flessibilità di orari, di programmi e di formazione delle classi».

Quelle che erano le intenzioni trovano spazio, sotto il solleone agostano, nella citata Legge 4 agosto 1977 (517/77). Viene licenziata in piena estate. È la legge che abolisce le classi differenziali e che consente a tutti gli alunni con disabilità di frequentare la scuola elementare e la scuola media inferiore. Ne riporto l’articolo 2, che riguarda la scuola elementare e i cui concetti vengono ripresi dall’articolo 7 dedicato alla scuola media: «Ferma restando l’unità di ciascuna classe, al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni». «Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati…». «Devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psicopedagogico e forme particolari di sostegno [non insegnanti di sostegno, N.d.A.) secondo le rispettive, competenze dello Stato e degli enti locali preposti…».

Se analizziamo con distacco emotivo il periodo storico che ho trascritto, citando fonti precise, ci rendiamo conto che c’erano tutti gli argomenti di cui stiamo parlando in questi giorni frenetici: alunni protagonisti, docenti formati e responsabilizzati, flessibilità didattica e organizzativa con il superamento del concetto rigido del voto (di grande attualità) o della pagella, lavoro di équipe di tutti gli operatori coinvolti, collaborazione interistituzionale ecc.
A questo periodo voglio aggiungere la stagione della scuola dell’autonomia. Dall’aprile 1999 ogni Legge dello Stato, ogni Direttiva, Nota e Circolare del MIUR [Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, N.d.R.], riguardante gli istituti scolastici, nell’incipit riporta sempre il richiamo all’autonomia degli stessi. Non solo. Il comma 3 dell’articolo 1 della Legge 107/15, precisa: «3. La piena realizzazione del curricolo della scuola e il raggiungimento degli obiettivi di cui ai commi da 5 a 26, la valorizzazione delle potenzialità e degli stili di apprendimento nonché della comunità professionale scolastica con lo sviluppo del metodo cooperativo, nel rispetto della libertà di insegnamento, la collaborazione e la progettazione, l’interazione con le famiglie e il territorio sono perseguiti mediante le forme di flessibilità dell’autonomia didattica e organizzativa previste dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275».
Leggendo con occhio critico i diciotto anni di scuola dell’autonomia, alcune domande ce le dobbiamo fare e, soprattutto, è necessario prendere atto che abbiamo perso molte occasioni per migliorare l’offerta formativa delle nostre scuole. Nello stesso tempo, laddove si è creduto ai contenuti della normativa, vasta e contraddittoria, sono state fatte esperienze importanti. Vedi soprattutto alcuni istituti di istruzione secondaria di secondo grado.

Non dimentichiamo poi che esiste il contratto professionale degli insegnanti di ogni ordine e grado che all’articolo 27 traccia il profilo del docente: «1. Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica. I contenuti della prestazione professionale del personale docente si definiscono nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione e nel rispetto degli indirizzi delineati nel piano dell’offerta formativa della scuola».
Più chiaro di così non poteva essere scritto.

Oso mettere insieme tutto quello che sta nel mezzo delle due fasi, citando la Legge 104/92 come simbolo di un momento storico che ha messo in campo notevoli risorse professionali ed economiche.

Riassumendo, dunque, mi sembra che il quadro normativo sia molto chiaro in ordine:
° al fatto che gli alunni con disabilità/difficoltà sono una parte della scuola, non una scuola a parte (con relativo “esercito della salvezza”, formato da insegnanti di sostegno e assistenti per l’autonomia);
° al dovere/obbligo di tutte le Istituzioni, coinvolte nel processo educativo e formativo di tutti gli/e alunni/e e di tutti gli/le studenti/esse, di interagire e collaborare per garantire il diritto allo studio di tutti/e;
° alla responsabilità di tutti i docenti nei confronti di tutti gli alunni/studenti nella programmazione e nella pratica didattica quotidiana.

E allora di che cosa abbiamo bisogno in questa ennesima fase frenetica della scuola italiana? Mi permetto di suggerire alcuni spunti di riflessione, senza entrare nel merito dei Decreti attuativi della Legge 107/15, perché hanno già scritto molti altri in questo contesto. E, francamente, mi interessa di più parlare del retroterra culturale che esprime certe proposte. A mio avviso è lì che dobbiamo lavorare. Ma andiamo con ordine.
1. Ritengo necessario liberarci dall’ansia da prestazione che ha creato un corto circuito che è bene disinnescare. Se l’alunno ha una difficoltà, scatta subito la task force il cui lavoro deve concludersi, necessariamente, con una certificazione o con un PDP [Piano Didattico Personalizzato, N.d.R.].
2. Con questa logica abbiamo prodotto una marea di certificazioni che con i criteri della 104/92 non hanno nulla a che fare. Sostengo da molto tempo, e non sono mai stato smentito, che un 30% degli alunni certificati non risponda ai criteri della Legge di cui sopra (basta andare a vedere la percentuale degli alunni stranieri certificati). Sono alunni che hanno bisogno di aiuto, ma non dell’insegnante di sostegno. Questo non significa taglio di posti, ma la diversificazione delle risorse da mettere a disposizione, attraverso l’organico del potenziamento, ora che esiste, assegnandogli spessore qualitativo e quantitativo. Per esempio con docenti di matematica piuttosto che di lingua che supportino il lavoro della classe consentendo interventi con gruppi più ristretti.
3. Abbiamo coniato un linguaggio che rappresenta gli/le alunni/e e gli/le studenti/esse con gli acronimi. Una modalità che mette in primo piano ciò che non funziona. La classe è presentata in modo tale da essere una comunità “disturbo-centrica” (2 DSA, 1 FIL, 2 BES ecc.) [DSA, FIL e BES stanno rispettivamente per Disturbi Specifici di Apprendimento, Funzionamento Intellettivo Limite e Bisogni Educativi Speciali, N.d.R.], piuttosto che antropocentrica (Giuseppe, Maria, Alfonso, ecc.). Gli acronimi finiscono per essere un’intollerabile reductio ad unum non in linea con l’approccio olistico alla persona che ci ha insegnato l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
4. Questa deriva ha spostato l’asse sull’aspetto medicale piuttosto che su quello pedagogico, con la conseguenza che si sta andando verso gli specialismi che sono, inevitabilmente, la strada verso le scuole speciali. Proprio quando i risultati nel campo delle neuroscienze – vedi alla voce “neuroni specchio” – ci hanno dimostrato l’importanza, per una persona in difficoltà, di vivere in contesti inclusivi e non “esclusivi”.
5. La scuola inclusiva non poteva certo mancare. C’è ancora qualcuno che la confonde come la scuola che riguarda gli/le alunni/e con disabilità. La scuola inclusiva, a mio avviso, e spero non solo mio, è quella che accoglie tutti gli alunni in quanto persone e non perché appartenenti a determinate categorie.
6. Infine, ma molte cose ci sarebbero ancora da dire, ci siamo convinti che il perno della continuità educativa e didattica sia l’insegnante di sostegno invece che i sostegni diffusi. In questo modo l’insegnante di sostegno svolge soprattutto una funzione di custode. E non aggiungo altro.

In cauda venenum
Non basta celebrare a parole l’autonomia scolastica se poi questa rimane solo sulla carta. Da tempo propongo un processo di “deMIURalizzazione”, che non significa sminuire il ruolo del Ministero, ma significa dare ad esso il ruolo che la Legge gli assegna. Credo che, nel merito, le Indicazioni Nazionali del 2012 rappresentino un documento molto importante di riferimento per la scuola italiana perché hanno tracciato le linee fondamentali che le scuole devono seguire. Ma come seguirle tocca alla scuola intesa anche come comunità allargata ai genitori, all’Ente Locale ecc.
Nello stesso tempo ritengo che il processo di “deMIURalizzazione” tolga gli alibi a chi, nella scuola, è sempre alla ricerca di alibi perché non vuole assumersi responsabilità. E di fronte a persone che stanno diventando grandi, è molto importante che i grandi si assumano responsabilità.

Dulcis in fundo
Non posso lasciare gli eventuali Lettori con l’amaro in bocca. Per questo ho pensato di terminare con una riflessione musicale.
Non sarebbe male se tutti gli insegnanti si autodichiarassero “docenti di sostegno”. Finirebbero tutte le filippiche sul loro ruolo e su quello dei docenti curriculari. Non sarebbe male se ci ispirassimo, nello svolgimento del nostro dovere, alla canzone di Battiato La cura, intesa come prendersi cura, e non curare, dei nostri/e alunni/e, studenti/esse. Potrebbe diventare la musa ispiratrice dell’insegnare oggi. A tutti e a tutte:
«Ti proteggerò dalle paure, delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti…
Supererò le correnti gravitazionali lo spazio e la luce…
…perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te».

Maestro di sostegno, dialetticamente in quiescenza.

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