Il mio corpo, la mia scelta

Karin Willison è una donna statunitense con paralisi cerebrale, che ama viaggiare e che da alcuni anni cura un blog nel quale racconta le sue esperienze attraverso l’America e le riflessioni collegate sia ai viaggi intrapresi che alla sua vita di persona con disabilità. Il suo spirito indomito e la sua acuta capacità di raccontare le esperienze quotidiane restituiscono nei suoi scritti una forza e una lucidità che ci hanno spinto a presentare ai Lettori la traduzione del suo ultimo testo, nel quale affronta il tema dell’autodeterminazione e della libertà di scelta delle donne con disabilità

Karin Willison fotografata da dietro

«Fare le cose che riteniamo siano giuste per il nostro corpo e le nostre vite – scrive Karin Willison – è un diritto che tutti e tutte dovremmo avere e che io continuo a difendere con i miei lunghi capelli, così come ogni altra scelta che compio ogni giorno che vivo su questa terra con la mia disabilità»

Quando ero una bambina che cresceva con una paralisi cerebrale, avevo lunghi capelli meravigliosi che arrivavano fino ai fianchi. Ma a circa 7 anni mia mamma disse che avrei dovuto tagliarli, perché sarebbe stato «più semplice prendersene cura per me e per le altre persone che mi aiutavano».
Ero furiosa, amavo i miei lunghi capelli ed ero arrabbiata con lei per ragioni che riuscivo a malapena a capire. Alla fine sono riuscita a convincerla a farmi tenere i capelli lunghi almeno fino alle spalle. Durante l’infanzia, poi, rimandavo il taglio dei capelli il più a lungo possibile e quando sono andata al college ho ricominciato nuovamente a farli crescere. Da allora li ho sempre portati piuttosto lunghi.

Durante gli anni ho pensato molto ai miei capelli. Mi sono chiesta perché la richiesta di mia madre mi avesse fatto così arrabbiare, perché mi ferisse così tanto anche dopo anni. E allora ho realizzato, come persona con disabilità, che i miei capelli sono molto più di una scelta estetica. Simboleggiano qualcosa di molto più significativo: il diritto di scegliere sul mio corpo.
Le persone con disabilità sono spesso trattate come se i loro corpi non gli appartenessero. Inizia molto presto, per quelli di noi che nascono con una disabilità congenita, costretti a passare attraverso procedure mediche alle quali non possiamo consentire e che non comprendiamo pienamente. Ci viene detto che altri sanno cosa sia meglio per i nostri corpi, e abbiamo una scelta minima su chi sia a toccarci e come.
Sebbene le decisioni sui nostri corpi siano normalmente prese nel nostro interesse (o quello che altri pensano lo sia), questa perdita di autodeterminazione sul proprio corpo può avere un effetto a lungo termine sull’autostima e le relazioni interpersonali.
Lungo le nostre vite dobbiamo ricevere l’aiuto di sconosciuti con i compiti più personali possibili. Una volta ho provato a contare tutte le assistenti personali che ho avuto nel corso degli anni. Mi sono fermata, una volta raggiunto il numero 100! Per essere una che non lavora come spogliarellista, un terribile numero di persone mi ha visto nuda. Questo va contro la mia personalità: infatti, sebbene non mi consideri timida, sarei piuttosto riservata riguardo il mio corpo, se solo potessi. Ma non ho scelta in materia.

Per fortuna molte delle persone che mi hanno aiutato negli anni sono state gentili e premurose. Alcune indifferenti. Poche abusanti. Sfortunatamente le persone con disabilità tendono ad essere bersaglio di abusi da parte di persone con cattive intenzioni. L’ho sperimentato parecchie volte nella mia vita, inclusa una relazione sentimentale. Ho imparato per esperienza personale che i maltrattamenti tendono ad iniziare con piccole violazioni del consenso. Queste azioni possono essere piuttosto sottili, come dimenticarsi intenzionalmente di seguire indicazioni semplici, ma specifiche, su come desidera essere vestita o aiutata una persona senza rischi, causandole invece sofferenza o imbarazzo come conseguenza.
Chi abusa in genere adduce la “convenienza” o il “troppo lavoro” come ragione del rifiuto di rispettare le scelte e i bisogni altrui, e può anche fare commenti negativi sul corpo della persona. In alcuni casi, poi, queste azioni possono nascere non tanto da cattive intenzioni, ma da una genuina mancanza di comprensione. Alcune persone che vengono formate come assistenti professionisti possono farsi l’idea che i metodi che hanno imparato nei corsi per prendersi cura delle persone siano validi per tutti. Ho dovuto imparare ad impormi per me stessa e dire «no, questo non va bene per me; questo è il modo di cui ho bisogno per fare le cose». Il più delle volte le persone rispettano la mia autodeterminazione, ma è quando non la rispettano che sorgono i problemi.
Che la causa sia l’abuso intenzionale o la formazione carente, la mancanza di autodeterminazione sul proprio corpo può lentamente sgretolare l’autostima di una persona con disabilità. Può farci sentire colpevoli di avere bisogno di aiuto, finanche di esistere.
Conosco il mio corpo, so di cosa ha bisogno e ho insegnato a decine e decine di persone con età, livelli di forza e corporature differenti come aiutarmi. Mi sconcerta che qualsiasi persona possa venire da me e dirmi come loro hanno intenzione di fare le cose. Eppure succede.

Karin Willison e il suo cane Aria

Karin Willison con la sua grande amica Aria

Durante un mio recente viaggio con un’assistente rivelatasi aggressiva, lei ha mostrato da subito segnali preoccupanti di rifiuto di aiutarmi nei modi di cui avevo bisogno, malgrado le avessi detto che così facendo mi causava dolore e fatica. Man mano che entrambe diventavamo sempre più esauste e frustrate, ha iniziato a scatenarsi emotivamente con parole e azioni che denotano quello che io credo appartenga alla mente di coloro che aggrediscono le persone con disabilità: una particolare e insidiosa forma di “abilismo”.
Mi scuso per la quantità di informazioni di natura imbarazzante legate all’episodio che sto per raccontare, ma voglio essere sicura che le persone capiscano la realtà della mia vita.
Durante quel viaggio, dunque, l’assistente mi stava aiutando in bagno e mi era appena venuto il ciclo, ma avevo con me il necessario. Quando ha visto, ha osservato schifata. «Non ho mai aiutato nessuno durante il ciclo», si è lamentata, aggiungendo che «molte persone come te fanno qualcosa a riguardo».
Le persone come me? Ero completamente scioccata dalle sue parole. Per essere sicura di non avere frainteso, le ho chiesto di chiarire cosa intendesse dire. Ha detto: «Beh, molte persone con disabilità prendono delle pillole o iniezioni o qualcosa di simile, così da non averlo più».
In quel momento ero letteralmente annichilita, tanto da non riuscire ad esprimere cosa realmente volessi dire. Mi sono affrettata a dire qualcosa sul fatto che avevo provato varie cose che non avevano funzionato e che mi avevano causato anche problemi, sperando che lasciasse perdere. Ma non lo ha fatto. Ha risposto rabbiosamente che avrei dovuto «provare altre soluzioni» e «provare ancora di più».
Ero inorridita. Quale tipo di donna umilia un’altra donna perché ha il ciclo? Sembrava stesse dicendo che in quanto donna con disabilità ci si sarebbe aspettati che io modificassi il mio corpo solo per farlo diventare più “comodo” per le persone che si prendevano cura di me. La sua preoccupazione non era il mio benessere, non avevo a che fare con crampi e sindrome premestruale, e ha insistito con le sue parole anche dopo che le avevo detto che il mio corpo reagisce negativamente alle pillole contraccettive.
Non era nuova al lavoro di assistente, mi ha detto infatti di essersi già presa cura di diverse altre persone, sebbene la maggior parte di loro fosse più anziana di me. E sì, diceva di essere a favore dell’aborto, come aveva scritto anche nella sua pagina Facebook. Sembrava però che il suo rispetto per il corpo e le scelte delle donne non si estendesse anche a quelle con disabilità.

Ho incontrato molte persone impegnate nel campo dell’assistenza, profondamente “abiliste”, le quali pensano che le persone con disabilità dovrebbero limitare le loro vite perché la loro esistenza è “scomoda”. Ci fanno vergognare dei nostri corpi, e si aspettano che permettiamo agli altri di scegliere come e quando soddisfare i nostri bisogni basilari. Ci si aspetta che rispondiamo con gratitudine servile per qualsiasi aiuto ci venga dato, anche quando veniamo trattati irrispettosamente.
Questo atteggiamento è profondamente radicato nel sistema di assistenza alle persone con disabilità. Per esempio, sebbene io abbia sempre cercato di non rivolgermi ad agenzie di fornitura di assistenti, sono stata costretta a farlo alcune volte in cui ero a corto di aiuto o avevo un’emergenza. Mi sono trovata ad esempio in quella situazione, dopo essermi liberata dell’assistente di cui ho parlato prima; doveva venire un’altra persona che però non si è presentata. E così ho chiamato un’agenzia e ho chiesto un’assistente donna, una persona forte abbastanza da aiutarmi per i trasferimenti, con la patente, e alla quale piacessero i cani. Quando ho detto questo all’impiegata al telefono, ha reagito come se stessi chiedendo qualcosa di straordinario. Alla fine ha trovato una persona per me – ed era una persona grandiosa – ma a quanto pare, per trovarla, ha dovuto fare molte chiamate.
Quando le necessità base della mia vita vengono considerate straordinarie, credo ci sia un problema reale con l’“abilismo” nel nostro sistema di assistenza personale. Credo infatti che la maggior parte delle persone tra i 18-50 anni possa ricoprire i requisiti che ho richiesto, se formata a dovere su come effettuare i trasferimenti dalla carrozzina. Non mi meraviglia, per altro, che la donna orribile con la quale ho viaggiato abbia potuto lavorare per molti anni come assistente, visti i così bassi standard di reclutamento delle agenzie di assistenza. E, ovviamente, a lavoratrici e lavoratori poco formati non viene insegnato a rispettare i loro clienti con disabilità ed è più probabile che tendano a perpetrare abusi.

Karin Willison e Aria a San Diego in California

Ancora Karin insieme ad Aria, fotografate a San Diego in California

Chi lavora in ambienti di assistenza ed è orientato verso un approccio prettamente medico, spesso non sa come comportarsi con una persona come me.
Vivo la mia vita come preferisco. Se voglio fare una cosa, trovo il modo di farla, e non permetto alla mia disabilità di trattenermi. Onestamente non mi interessa che le persone ritengano alcuni aspetti della mia disabilità fastidiosi – io stessa lo penso -, ma non intendo accettare meno dalla vita a causa di questo. Mi sforzo di essere gentile e di trattare le persone che mi aiutano con rispetto, ma non reagisco con gratitudine servile ogniqualvolta che qualcuna si presenta e svolge il suo lavoro. Mi aspetto che le persone lavorino sodo e si comportino responsabilmente anche mentre si divertono e, soprattutto, che rispettino il mio corpo e le mie scelte.

Spero che i movimenti che supportano i diritti delle donne possano riconoscere che per le donne (e gli uomini) con disabilità il fatto di essere pro-choice [espressione equivalente a “favorevole all’aborto”, N.d.R.] vada oltre il diritto all’aborto. “Il mio corpo, la mia scelta” significa il diritto di essere considerata una donna completa anche se con una disabilità.
“Il mio corpo, la mia scelta” significa che le donne con disabilità meritano parità di accesso alle cure ginecologiche, e non devono essere costrette o forzate a sopprimere le loro funzioni corporee o essere sterilizzate, come centinaia o migliaia di noi sono state costrette a fare, durante il picco più alto del movimento per l’eugenetica.
“Il mio corpo, la mia scelta” significa il diritto di avere dei figli, se desideriamo averne, e il rispetto della nostra espressione del genere e della sessualità, se siamo etero, pansessuali, o lesbiche.
“Il mio corpo, la mia scelta” significa che l’alto tasso di violenza domestica, di abusi sessuali e di abusi da parte di chi assiste le persone con disabilità deve essere conosciuto e combattuto con lo stesso impegno di quello che riguarda la violenza contro donne senza disabilità.
Essere a favore della scelta sul proprio corpo significa il diritto di effettuare delle scelte su ogni aspetto del proprio corpo, dai capelli fino alle dita dei piedi. Spesso, infatti, vedo donne con disabilità che indossano abiti trasandati, di taglie sbagliate o sporchi e, ovviamente, con i capelli corti. È vero, a chi non è capitato di uscire di corsa per andare in un negozio un po’ trasandata… Però mi chiedo spesso se sia proprio così che queste donne intendono apparire ogni giorno. È stata data loro una scelta e un aiuto per comprare abiti alla moda, truccarsi se ne avessero voglia e avere l’acconciatura più gradita? Diritti basilari che molte donne danno per scontati, a noi spesso sono negati. Bisogna che tutto questo cambi.

Una mia amica ed ex assistente ha un tatuaggio davvero bello, una treccia di capelli, a forma di cuore. Al centro le parole «capelli lunghi, non mi importa». Il tatuaggio simboleggia il fare le cose che riteniamo siano giuste per il nostro corpo e per le nostre vite, anche se gli altri possono disapprovare o giudicarti per questo. È un diritto che tutti e tutte dovremmo avere e che io continuo a difendere con i miei lunghi capelli, così come ogni altra scelta che compio ogni giorno che vivo su questa terra con la mia disabilità.
Spero che Tu – che stai leggendo – difenda il nostro diritto a vivere come desideriamo. E anche quando dici che sei in favore della scelta sul proprio corpo, da parte delle donne, assicurati che quel tuo rispetto si estenda anche alle donne disabilità.

Traduzione dall’originale curata da Francesca Arcadu, per il sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel quale il presente testo è già apparso con il titolo “Cosa significa ‘il mio corpo, la mia scelta’, per me come donna con disabilità”. Viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contesto – per gentile concessione.

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