Lunga vita a quegli innamorati (oltre ogni pregiudizio)

«Se aprissimo gli occhi – scrive Tonino Urgesi in questa sua nuova riflessione, ove ancora una volta rivendica una “nuova pedagogia della disabilità” – e guardassimo oltre i nostri schemi mentali, tutto sarebbe molto più semplice; e non occorrerebbe “educare” con una Proposta di Legge le persone con disabilità a una vita relazionale, affettiva e sessuale. Ma se le persone con disabilità non vengono frequentate, se i sentimenti non vengono vissuti, se la nostra società fa disinnamorare anche quella coppia di innamorati dipinta da Émile Friant, l’innamoramento non arriverà mai»

Émile Friant, "Les Amoureux" ("Gli innamorati"), 1888

Émile Friant, “Les Amoureux” (“Gli innamorati”), 1888

Come sappiamo, nel corso della storia si ripresentano ciclicamente delle questioni che riguardano l’uomo e il suo valore – sociologico, emotivo e relazionale – che spesso seguono solamente i risvolti culturali del momento (le cosiddette “mode”), senza voler mai cercare di comprendere realmente il nucleo del problema, la genesis, ovvero l’entità intrinseca di questi modelli, e del perché essi esistano.
Ma quando la smetteremo di trovare sempre un espediente per delegare, per mettere nelle mani solo dei dotti, degli esperti e dei politici le risposte a tali questione?
Mi riferisco, nella fattispecie, a quella Proposta di Legge presentata lo scorso anno dalla deputata Elvira Savino, con la quale si intende istituire la «figura dell’educatore al benessere sessuale per le persone disabili». Vorrei quindi avere la possibilità di porre all’onorevole Savino alcune domande: educare il disabile per educarlo a cosa? A chi? E perché? E in che modo? E poi, se lei ci vede come “persone da educare”, ci vede e ci pensa già disabili, o meglio, “sub-normali” e quindi handicappati. Diversi sì, ma da cosa? Diversi da chi?

Vorrei fare un passo indietro nella storia e spiegare, a chi fosse sfuggito, il significato etimologico della parola pedagogia. Essa deriva dal greco e significa letteralmente “condurre bambini” (paidos: bambino; ago: conduco), nell’accezione di guidare, accompagnare. Nell’antica Grecia, infatti, il pedagogista era colui che accompagnava il bambino a scuola o in palestra, ma, al tempo stesso, colui che sapeva tirare fuori dal fanciullo le sue capacità, in una concezione di maieutica socratica [nell’ambiente socratico-platonico, la maieutica era il criterio di ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in se stesso e a trarla fuori dalla propria anima, N.d.R.].
E la paideia fisica era quella disciplina che comprendeva la cura e il rafforzamento sia del corpo che della psiche, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella comunità (polis), ossia verso l’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’identità (ethos) del popolo. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata in quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che – più che di processo educativo o di socializzazione – si poteva parlare di processo uniformante all’ethos politico.
Io invece credo che sia più importante rifarsi oggi alla paidos, per creare un tessuto sociale dove possa realmente nascere una cultura che accolga la “nuova pedagogia” di cui mi è capitato più volte di parlare su queste stesse pagine. Allo stesso modo auspico che avvenga lo stesso processo con chiunque ci relazioniamo, e in particolar modo riconoscendo in ogni disabilità le abilità della persona attraverso la maièutica.
In realtà noi ci dobbiamo aspettare che la società ci educhi, che il modo di pensare degli altri cambi o che sia anche – per le persone con disabilità – il pensiero politico e sociologico a cambiare, in modo tale che esse non siano sempre viste come “diversi”, come “creature da modellare”. Ma se non inizia proprio la stessa persona con disabilità a cambiare il proprio pensiero e a non percepirsi più come tale, nulla cambierà mai.

Continuiamo dunque il nostro viaggio all’interno della pedagogia e della sociologia e dei loro luoghi comuni (un percorso che mi piacerebbe facesse anche l’onorevole Savino), tentando qui di sviscerare un’importante questione, quella dell’innamoramento.
Pensando a questa parola, mi torna alla mente quanto dice il filosofo Diego Fusaro, commentando Les Amoureux, il ritratto qui a fianco proposto di Émile Friant, nel quale i protagonisti si guardano a vicenda, scrutando il proprio amore l’uno nello sguardo dell’altro. Ed è proprio partendo da tale dipinto, che vorrei analizzare la parola innamorarsi, ovviamente restando fedele alla nostra problematica della disabilità.

Quanti articoli abbiamo letto, o a quanti seminari si è partecipato, nei quali si è sentito dire che «il/la disabile viene rifiutato/a dal/dalla partner»? I perché li possiamo immaginare tutti quanti: la cultura, la mentalità, gli stereotipi ecc. ecc. Ma queste, a mio avviso, sono solo pseudo-ragioni, perché il rischio di provare una delusione c’è in tutti quelli che ambiscono a vivere un loro innamoramento, e ciò va ben oltre la disabilità.
Vorrei tuttavia invitare i Lettori, come di consueto, a ribaltare la questione, rivalutandola e guardandola da un’altra prospettiva: se non fosse il disabile a innamorarsi della ragazza, ma se fosse proprio la ragazza “normodotata” a innamorarsi di lui? O se fosse un ragazzo “normodotato” a innamorarsi della ragazza disabile? Cosa penseremmo noi?

Come si diceva sopra, siamo soliti pensare unicamente al disabile che vive la delusione, la frustrazione, la negazione dell’innamoramento. Ma in questo contesto, egli riesce realmente a comprendere il perché di quel “No” detto dalla ragazza? Potrebbe semplicemente significare: «No, non sei il mio tipo», frase che lei potrebbe dire ai suoi centomila corteggiatori. Ma se nello sguardo della ragazza innamorata (chiamiamolo “sguardo friantiano”) ci fosse solo un attimo di perplessità, noi analizzeremmo allo stesso modo quella sua perplessità?
Ci fermiamo sempre ad analizzare soltanto le frustrazioni della persona con disabilità, senza mai curarci di quella ragazza, che potrebbe avere la testa piena di mille punti interrogativi, fatti di molteplici paure lecite, di cui il disabile non può tenere conto, perché egli pensa di partire sempre e solo dalla propria situazione di svantaggio.
Nella proposta di quel ragazzo con disabilità, noi non dobbiamo solo percepire un semplice «ti metteresti con me?» o ancor più, «condivideresti il mio innamoramento», «usciresti una sera con me?», o anche «faresti l’amore con me?». In quelle sue richieste, invece, dobbiamo sapere andare a fondo e intravvedere molto di più. Lei, la ragazza, non può solo considerarlo un semplice corteggiamento. La persona con disabilità, infatti, le sta inconsapevolmente chiedendo un ulteriore sforzo, quello di andare oltre, di andare contro tutto uno schema sociale, quello che impone a ciascuno di noi di ricercare un modello vincente: bello, “figo”, ricco, laureato. Lei deve dimostrare al suo gruppo, agli amici, ai genitori, a tutti che il suo lui è un disabile.

Un esempio concreto di questo lo troviamo nella testimonianza di una giovane donna, che scrive: «Sono una ragazza di ventisette anni. Vivo una relazione […] parzialmente segreta ai miei con un ragazzo malato di fibrosi cistica. Dopo tre anni, in cui ci vediamo da lui, o viene dove studio, lui vorrebbe conoscere i miei. I miei non vogliono, nonostante non mi hanno impedito di vederlo, non vogliono che venga a conoscerli. Devo mentire a lui e trovare sempre scuse per rimandare, non voglio sia triste e pensare che per questo problema le persone non vogliano conoscerlo. Devo nascondermi quando parlo con lui al tel. I miei hanno scoperto della malattia su un diario che avevo, dovevo trovare il modo per dirlo, non mi hanno rispettata. Usano parole come handicappato, devi dimenticarlo, […]. Basta. Io voglio bene a loro, ma lo amo. A volte vorrei fuggire di casa, mandarli a quel paese, ribellarmi. Nessuno mi capisce».
Quanta confusione si sta creando in quella ragazza, e in quel suo travaglio emotivo, psicologico? Chi l’aiuterà? Il partner non potrà, ovviamente, perché, come detto, è troppo coinvolto emotivamente; inoltre, non esiste a tutt’oggi la cultura di una “nuova pedagogia”, che aiuti anche questa ragazza, la quale, essendo attratta e innamorata di una persona con disabilità, vorrebbe condividere quel sentimento, ma si ritrova sola in una giungla di pregiudizi che la portano ad esprimere quel suo “No!”.
Lei rimane sopraffatta dai suoi pensieri, spaurita, immersa nelle sue mille difficoltà (handicap = ostacolo), tutti superabili se ci fosse qualcuno, o meglio quella nostra “nuova pedagogia della disabilità”, che l’aiutasse a “fermarsi”, come direbbe Émile Friant ai suoi  due innamorati.
La ragazza è assalita da sensazioni quali l’angoscia, la paura, cui si aggiunge il pensiero: «Come faccio ad uscire con lui? Come faccio ad andare al cinema, in discoteca, ad un semplice concerto, o a mangiare una pizza?».
Tutti questi suoi interrogativi, per noi leciti, le sembrano tante montagne insormontabili, senza una risposta. E tuttavia, se confessasse ai genitori quello che sta iniziando a provare – come abbiamo letto nella testimonianza sopra riportata – diventerebbe ancora più difficile, perché ciò frantumerebbe il “progetto” di una madre e di un padre per la loro.
Si badi bene, questo tipo di incontro-scontro tra genitori e figli non riguarda (solo) la disabilità, e nessuno di noi può negarlo. Quanti infatti possono affermare di avere sposato, amato, scelto qualcuno che fosse esattamente ciò che i genitori desideravano per lui/lei? Credo quasi nessuno. E questo perché le persone non ci appartengono, i figli non ci appartengono, e ciascuno è diverso, ciascuno ama, desidera, sceglie secondo propri criteri, che sono sentimentali e logici, ma che non combaciano quasi mai con gli ideali dei propri genitori.
In una relazione matura, anche i genitori vengono “educati”, imparando ad accettare che i propri figli siano adulti e facciano la loro vita; in una relazione meno matura, continuerà ad essere un sottile ricatto morale perpetrato a danno dei figli, i quali continueranno a vivere con enormi sensi di colpa.

Ma ritorniamo a noi. Come dicevamo, siamo abituati a considerare solo la sofferenza vissuta dal disabile o dalla disabile che vengono rifiutati dalla persona “normodotata”, mentre assai di rado si pensa a una situazione in cui sia la persona “normale” a soffrire, perché ostacolata da ideali sociali ed estetici, frenata e inibita dai giudizi di chi la circonda.
Per quanto il ragazzo la ami, lei non riesce a vivere l’innamoramento con serenità, perché ha la mente annebbiata da ridicoli standard e costumi, oltreché da una serie di sensi di colpa. Ma per tutte quelle volte che lei si sentirà costretta a tacere il proprio sentimento, la persona con disabilità continuerà il suo non-vivere la possibilità di quella sua relazione amorosa. Queste condizioni, insomma, rappresentano un impedimento nel vivere o nell’esprimere i propri desideri o emozioni, al di là della storia con la persona disabile, soffocando e contaminando la nostra natura, e impedendoci di essere sinceri con noi stessi e con gli altri; così agendo, violentiamo il nostro mondo interiore, facendo come la ragazza che tace il suo innamoramento ai genitori, per mantenere una situazione di quieto vivere. E quando si tace un sentimento per la vergogna di mostrarsi realmente per quello che si prova, si pregiudica in modo grave e profondo il sé della persona rifiutata, impedendole di stare al mondo come una persona che ha il diritto di essere ascoltata e amata.
Ancora una volta, dunque, abbiamo spostato la nostra lente d’ingrandimento, facendo vedere che chiunque può vivere la negazione. E nel caso della persona con disabilità, a volte può succedere di vivere la delusione non perché non si è amati, ma perché chi ama non riesce, non è aiutato, non è educato, a superare il proprio ostacolo psicologico o emotivo.

Ritornando alla nostra ragazza innamorata di un disabile e alla sua testimonianza, dico che mi piace pensarla come una sorta di “eroina” in questa società piena di stereotipi e svuotata di emotività (oltreché diseducata all’emotività), e quindi come “esponente ideale” di quella nostra “nuova pedagogia”. Lei, infatti, ha saputo vedere e ascoltare i suoi sentimenti, come gli innamorati di Friant, ha saputo andare oltre, per vedere la persona con disabilità con gli occhi di un amore.
Allora possiamo affermare tranquillamente che la letteratura e l’arte servono per educare i nostri sentimenti, che non abbiamo ricevuto in dono come doti naturali, ma che sono anche eventi culturali. Come ha scritto il filosofo Umberto Galimberti, «tutti i popoli hanno imparato i sentimenti attraverso narrazioni mitiche. Se guardiamo l’Olimpo degli antichi Greci, vediamo che gli dèi altro non sono che la descrizione delle passioni e dei sentimenti umani: Zeus il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite la sessualità, Ares l’aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia…».

Arriviamo quindi non alla seconda, ma alla “terza faccia della medaglia”, ovvero al cambiamento antropologico e sociale: possiamo dire che non è né la ragazza che rifiuta il disabile, né il disabile che è incapace di provare sentimenti, come sovente si pensa; come sempre abbiamo detto, invece, manca proprio quella “nuova pedagogia della disabilità” che ha il compito di facilitare l’incontro. Ed è in questa facilitazione che può nascere l’innamoramento, anche per quella ragazza che non è appoggiata né dalla famiglia né dalla società a vivere la sua storia con un ragazzo disabile.
Se aprissimo gli occhi e guardassimo oltre i nostri schemi mentali, tutto sarebbe molto più semplice; e non occorrerebbe “educare” con una Proposta di Legge le persone con disabilità a una vita relazionale, affettiva e sessuale. Ma se le persone con disabilità non vengono frequentate, se i sentimenti non vengono vissuti, se nostra la società fa disinnamorare anche la “coppia di Friant”, senza cioè una “nuova pedagogia della disabilità”, l’innamoramento non arriverà mai.

Persona con disabilità, esperta di disabilità e diversità.

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