Creature vive, piene di cose non dette

«Le persone deprivate della parola per le più diverse cause patologiche – scrive Simonetta Morelli – non sono monumenti al silenzio. Sono invece creature vive, piene di cose non dette, che attendono di essere rappresentate da noi con amore e rispetto. E bisognerebbe che anche sui giornali si perdesse un po’ di tempo nella scelta delle parole, nella costruzione di un contesto ben pensato in cui comporle con attenzione, perché ci vuole disciplina, per non ridurre la disabilità cognitiva e relazionale ad argomento da social, divisivo e foriero di polemiche»

Oriella Orazi, "Aneliti di libertà", 1997 (particolare)

Oriella Orazi, “Aneliti di libertà”, 1997 (particolare)

La nascita a sorpresa del mio ultimo nipote il 1° aprile, alla vigilia della Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, mi ha portato ad ondate di emozioni di diversa origine, senza considerare quanto fossero simili, nel mio sentire, i bambini appena nati e i ragazzi autistici.
La purezza li accomuna; e la fatica di vivere. Parti diverse e inconsapevolmente prossime di un’umanità implume che non può fare uso di parola: gli uni perché non sanno ancora, gli altri perché non sanno più. I genitori navigano a vista – più confusi quelli dei neonati, più esperti quelli dei ragazzi autistici – accomunati da un’esperienza estrema che cambia passo man mano che i figli crescono lungo i propri percorsi. E che a volte, insieme ai figli, include le persone più mature della famiglia, quando fa capolino la fragilità di un’età fatta di cristallo. Talvolta figli dei loro figli, anch’essi sono indifesi e senza parola, parte di un’umanità che pur sotto il segno della sofferenza, non cede. Ed esiste.

Solo la passione ci conduce lungo il filo sottile dell’altrui esistenza, guidati dal bisogno e dalla speranza di ricevere una risposta da tradurre a chi non può porre domande, annegare nel pianto, chiedere sostegno, esprimere desideri, aprirsi in canto.
La passione, per chi assiste una persona con disabilità, è una dimensione dell’esistenza, sì, ma è anche una chiave di lettura, l’unica che rivela che gli ostacoli sono sfide da affrontare, non limiti insormontabili; e che ci fa rinascere dopo la regressione massiva che subiamo quando una diagnosi colpisce i nostri cari e la paura di non farcela ha il sopravvento.

Tante volte, da madre, ho cercato le parole per chi, come mio figlio, non ne ha. Tante volte, da blogger, ho avvertito l’esigenza di trovare delle formule che dicessero il male senza ferire; o la bellezza, senza cadere in banalizzazioni buoniste.
In maniera insperata mi è capitata sotto gli occhi, pubblicata nel «Corriere della Sera», la recensione di Paolo Di Stefano di Alzheimer d’amore, un’antologia di poesie scritte dai figli di persone con questa patologia e commentata da Franca Grisoni.
«La poesia ispirata al dolore della demenza di un familiare trova parole giuste, sorprendenti, quando sembra che non ci siano più parole – scrive Di Stefano -, in fondo rivelando molto di sé oltre che della malattia e dell’insufficienza della scienza».
È vero. La verità non è spoetizzante, tutt’altro. E noi ne abbiamo bisogno per andare oltre la paura del dolore. Lo dimostra la grande quantità di pubblicazioni prodotte da persone con disabilità o dai loro familiari. Una produzione utile sia agli Autori che ai Lettori, che vengono a conoscere i colori del percorso dentro la disabilità senza il filtro dei professionisti e degli esperti. Un percorso che più che di malattia e tragedia è fatto di piccole sapienze acquisite con pazienza, di cammini lenti ma inesorabili, di coraggio che nessuno ci regala, di speranza tessuta filo per filo sull’ordito dei giorni.

Una questione difficile, quella della comunicazione del male e del dolore, perché è violenza sui Lettori edulcorare la realtà, almeno quanto lo è esporla senza il filtro della propria responsabilità, rischiando di scadere nel puro sensazionalismo.
«Leggendo questo bel libro, contro i falchi del cinismo, si capisce perché è utile (utile) aver fiducia nella poesia: ci accompagna nel territorio ignoto dove nessun altro linguaggio può sperare di arrivare», scrive ancora Di Stefano, con forza.
Oltre che nel segreto dei fogli privati, bisognerebbe che anche sui giornali si perdesse un po’ di tempo nella scelta delle parole, nella costruzione di un contesto ben pensato in cui comporle con attenzione, perché rendano attraverso un ritratto scritto le mille sfumature di una persona che non è in grado di rappresentare se stessa. Ci vuole disciplina per non ridurre la disabilità cognitiva e relazionale ad argomento da social, divisivo e foriero di polemiche.

La poesia, ha ragione Paolo Di Stefano, è un veicolo comunicativo straordinario in grado di contrastare il cinismo imperante, pur rendendo verità scomode e dolorose.
«Poesia è ascolto», ha scritto l’amico e collega Antonio Giuseppe Malafarina, fresco di pubblicazione del suo Poesia, edito da Rayuela.
Le persone deprivate della parola per le più diverse cause patologiche non sono monumenti al silenzio. Sono invece creature vive, piene di cose non dette, che attendono di essere rappresentate da noi con amore e rispetto.

Riadattamento di un testo già apparso in InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “‘Poesia è ascolto’. Alla ricerca di un linguaggio possibile per la disabilità”. Per gentile concessione.

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