Il Piano Educativo Individualizzato: alcune riflessioni

«Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) dello studente con disabilità – scrive Giovanni Maffullo – lungi dall’essere un mero adempimento procedurale volto alla sottoscrizione da parte di più Istituzioni (Scuola, Sanità, Famiglia) e lungi dall’essere solo programmazione e valutazione didattico-disciplinare che i docenti devono adempiere, dovrebbe rappresentare la possibilità da parte di tutti gli attori e del vero protagonista – lo studente – di cominciare ad essere più consapevole su cosa gli piacerebbe diventare e su ciò che è disposto a fare nel concreto»

Alunni in classeLa realtà in cui opero ed espleto la mia attività professionale mi dice che il Piano Educativo Individualizzato (d’ora in poi PEI) difficilmente viene elevato al rango di documento stilato congiuntamente fra le tre Istituzioni deputate a farlo: Famiglia, Sanità e Scuola. Non desidero per altro dimenticare che – per renderlo realmente efficace secondo una prospettiva olistica e in un’ottica sistemica – sarebbe prezioso anche il contributo del territorio. Grazie alla presenza di associazioni artigianali, industriali e sportive, Servizi Sociali del Comune e organizzazioni di volontariato che operano sul territorio, per ciascuno dei nostri studenti con disabilità frequentanti le scuole superiori, si potrebbe mettere a punto un PEI inserendolo nella progettazione di un percorso vita (d’ora in poi indicato spesso come PdV) ai sensi dell’articolo14 della Legge 328/00. Ma ciò avviene?

Prima di fornire una risposta a tale quesito, desidero effettuare una breve dissertazione su come stanno pragmaticamente le cose, in modo particolare nella scuola secondaria di secondo grado. In tale ordine e grado di scuola, il nostro studente – alias persona con disabilità – affronta un percorso formativo che dovrebbe concorrere alla crescita delle sue competenze personali, che lo dovrebbero portare ad espletare “in vivo” il suo status di cittadino: esplicitare cioè la sua cittadinanza attiva e diventare contribuente, concorrendo così alla crescita del suo Paese. A mio parere, infatti, solo allorquando si diventa contribuenti, cioè si pagano le tasse, si può parlare di percorso di inclusione sociale conclusosi con successo.
Per i suoi studenti – ivi inclusi coloro che appartengono alla categoria degli alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali) – la scuola garantisce in ogni caso e sostiene un itinerario formativo che in un certo qual modo è “ovattato” rispetto al contesto socio-economico e dinamico-relazionale presente nei contesti naturali di vita. Infatti, nei contesti sociali la società cosiddetta civile è spesso poco comprensiva nei confronti di chi ha Bisogni Speciali, complice anche la tipologia di vita stressogena che si conduce nel nostro mondo occidentale (nei luoghi ove la vituperata società civile opera in vivo, essa fa pochi “sconti” ai suoi cittadini e spesso pretende l’adattamento alle sue condizioni). Ecco perché è indispensabile preparare a questo vivere sociale i nostri studenti e a maggior ragione occorre fornire qualche strumento di “protezione” in più a coloro che presentano delle fragilità, ovvero occorre accompagnarne il più possibile da vicino il loro percorso formativo.
È proprio per questo che la scuola deve essere “palestra di vita”, ossia allenare il nostro studente adolescente ad assumere, post-diploma di maturità, un ruolo sociale in cui il suo protagonismo possa esprimersi appieno. Come può un giovane con disabilità contribuire alla crescita della propria Nazione? Lavorando! In altri termini, occorre esporre il giovane disabile sia a sollecitazioni relazionali  realistiche, sia ad opportunità volte ad acquisire quelle competenze specifiche mediate da iniziative quali gli stage, l’alternanza scuola-lavoro, le borse lavoro, tutte occasioni formative che possono preparare ogni ragazzo-ragazza – a maggior ragione se in situazione di disabilità – al salto di qualità: sperimentare cioè il mondo lavorativo in vista di una conquista della qualifica di lavoratore. Ovviamente le suindicate esperienze vanno inserite in un percorso di orientamento esistenziale che valorizzi sia le attitudini presenti nel giovane, sia soprattutto i suoi interessi; tali esperienze rientrano nell’àmbito degli apprendimenti non formali e quindi a pieno titolo sia nel PEI sia nel PdV. Eccomi dunque tornato al PEI.

Ma come si può pensare di parlare di PEI stilato in chiave ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], se si parla solo di didattica? Come è visto il docente che lavora sulle competenze non didattiche? Come è vissuto quel Consiglio di Classe a cui è demandata la valutazione delle potenzialità dello studente con disabilità in termini di comunicazione, socializzazione, relazione, autonomia e non solo delle potenzialità dell’apprendimento?
La mia esperienza in vivo mi fa dire che talvolta le famiglie vogliono che ad esempio l’insegnante specializzato valuti le potenzialità dei loro figlioli con disabilità solo in termini cognitivo-apprendimentali. Questi genitori desiderano – e lo sottolineano con forza in sede di GLHO (Gruppo di Lavoro Handicap Operativo) -, che la scuola si occupi solo di programmazione didattica e di insegnamento delle varie materie… In altri termini, solo della componente cognitiva del loro figlio. In tal caso va precisato che la scuola ha come mission sicuramente l’acquisizione degli apprendimenti formali e la certificazione degli stessi, ma, in teoria, a scuola si realizza il segmento più importante del PEI: in chiave sistemica, infatti, e secondo una prospettiva ICF, come posso pensare che ciò che si fa a scuola sia sganciato da ciò che si realizza nell’extrascuola? Come possono le famiglie considerare un’ingerenza nella loro vita sociale il fatto che un docente raccolga informazioni sul funzionamento del loro figlio? Come si può pensare che la scuola certifichi le competenze formali, non formali e informali, se si impedisce ai docenti di conoscere cosa fa il ragazzo con disabilità che hanno in carico, non solo in termini di studente iscritto e frequentante la scuola, ma in termini di persona da prendere in carico in toto? Non è forse opportuno che tutte le conoscenze connesse con il concreto funzionamento nelle realtà frequentate convergano verso la scuola, specialmente allorquando all’Esame di Maturità all’alunno con disabilità la Commissione deve certificare le competenze acquisite? Come può la famiglia pensare che gli insegnanti – che concorrono alla crescita di uno studente come persona e futuro cittadino -, allorquando raccolgono notizie connesse con le attività integranti realizzate dallo studente con disabilità presso altri organismi che perseguono scopi educativi e formativi come volontariato, privato sociale… abbiano a viverlo come un’ingerenza, se non addirittura come una violazione della privacy e della vita sociale? E infine, come si fa, in queste condizioni, a chiedere solo agli operatori della scuola un radicale cambiamento, se intorno alla scuola e alle attività promosse da essa – e sono tante – anziché allearsi e unirsi, si cerca spesso di attaccarla e scardinarla?

Da questo breve excursus emerge, ancora una volta, la grossa istanza di dover concorrere sia alla formazione dei genitori (si legga a tal proposito un’altra mia riflessione su queste stesse pagine di «Superando.it»), sia alla formazione degli altri operatori di Enti Locali e ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali), che troppo spesso lasciano la scuola da sola, ovvero non supportano adeguatamente le azioni formative poste in essere dai docenti in primis.
Ritorno quindi a porre l’accento su quella che spesso viene definita come la “deriva dell’integrazione scolastica”, ovvero lasciare che lo studente con disabilità delle scuole superiori stia con il “suo” insegnante specializzato nelle cosiddette “aule di sostegno”.
Ben vengano talune ore di percorso specializzato ad personam, in modo particolare se si tratta di attività specifiche volte a sostenere un percorso formativo globale. Ho realizzato e visto realizzare nelle cosiddette “aule di sostegno” percorsi aventi una ricaduta nel contesto classe incredibilmente efficaci in termini di sostegno all’autonomia personale, in termini di attività pro-sociali, in chiave di supporto al protagonismo che poi veniva giocato nel contesto aula.
Non credo sia questo il punto. Va qui sottolineato infatti che è utile e prezioso, con talune specifiche disabilità cosiddette psichiche (ad esempio spettro dell’autismo con basso funzionamento cognitivo, ritardo cognitivo grave), che in seno al documento programmatico del PEI vengano inserite delle ore di supporto individualizzato anche realizzate all’esterno dell’aula (non mi dilungo nel precisare che un semplice fare delle fotocopie prevede il porre in essere di una serie di abilità e competenze che richiedono in taluni casi decine di ore di lavoro, ma diventa una competenza conquistata sul campo e… spendibile).
Ritorno pertanto a porre alcuni quesiti ai Lettori: come si può pensare di elaborare un PEI a più mani, se nella pratica quotidiana provvede di fatto l’insegnante specializzato a stilarlo e successivamente a condividerlo con colleghi e famiglia? Cosa vogliono le famiglie? Didattica o preparazione alla realtà lavorativa e al mondo? In una prospettiva ICF, come possiamo confrontarci con Famiglia e Sanità se i docenti non solo non vengono formati, ma neppure vengono posti nelle condizioni di avere un profilo di funzionamento elaborato in base alle indicazioni dell’ICF? E un profilo non stilato in chiave ICF, che si discosta da quello immaginato o non accettato dalla famiglia, quale impatto ha sull’elaborazione del documento PEI?

Il PEI ha bisogno sicuramente di indicare cosa si fa a scuola e come lo si fa, affinché il modus operandi in orario antimeridiano, nei banchi di classe, possa trovare un prosieguo anche nel contesto domestico dove si fanno i compiti, ma al contempo non ci si può limitare ai contenuti delle materie. La vita e l’esperienza a supporto dell’esistenza di ciascuno si costruisce non solo con gli apprendimenti formali a scuola, ma anche mediante apprendimenti non formali e informali. Questi come rientrano nel PEI? Come vengono valorizzati in termini di Progetto di Vita?
Penso proprio che necessiti non solo una forte formazione specifica a carico di ogni “attore” co-protagonista dell’inclusione (genitori, operatori delle istituzioni, sanità e scuola in primis), ma anche la condivisione di una visione culturale ad ampio raggio e secondo una prospettiva progettuale lungimirante, volta a valorizzare l’orientamento esistenziale di cui l’unico che debba avvantaggiarsene sia il ragazzo con disabilità. Quest’ultimo è il protagonista di tutto il processo di inclusione scolastica e sociale, ma talvolta va sullo sfondo, specialmente quando anziché valorizzarne le potenzialità residue, se ne sottolineano i limiti o addirittura si stigmatizza la possibilità di riuscita a scuola, ovvero la possibilità che possa essere conseguito il titolo di studio: l’agognata Maturità. In realtà sarebbe più opportuno parlare di successo formativo che con ogni studente è possibile conquistare: non è facile, ma va perseguito valorizzando il “cosa sa fare lo studente”. Man mano che cresce, anche il ragazzo con disabilità – così come i suoi pari – va coinvolto, sentito, supportato e stimolato ad esprimere un parere su di sé; in altri termini è necessario che si assuma le sue responsabilità. In adolescenza il ragazzo-studente va accompagnato verso l’adultità, introducendo una componente meta-cognitiva preziosa: iniziare a pensare cosa fare da… grande.
Prendere in mano come si dice la propria vita non è un’operazione facile, specialmente per coloro che hanno dei Bisogni Educativi Speciali, ma in ogni caso va fatto. Dove si mettono le basi di ciò? Nel PEI! Il fantomatico PEI, lungi dall’essere un mero adempimento procedurale volto alla sottoscrizione da parte di più Istituzioni (Scuola, Sanità, Famiglia), lungi dall’essere solo programmazione e valutazione didattico-disciplinare che i docenti devono adempiere, dovrebbe rappresentare la possibilità da parte di tutti gli attori e del vero protagonista – lo studente – di cominciare ad essere più consapevole su cosa gli piacerebbe diventare e su ciò che è disposto a fare nel concreto, ovvero come canalizzare le proprie energie.
Investire in modo proficuo le proprie energie, in vista del soggettivo Progetto di Vita, non è facile, ma è un’operazione che va avviata negli anni della scuola superiore, affinché si possa pensare di porre in essere un percorso formativo percorribile e fattibile. Come si può pensare di elaborare e realizzare in termini di fattibilità adattiva un itinerario lungo il quale il ragazzo si muova, consapevole che sta percorrendo uno step del cammino che lo porterà a realizzare il suo PdV? Come si può accompagnare lungo un itinerario di crescita il cittadino con disabilità, se talvolta nei confronti della scuola – Consiglio di Classe in primis – si nutre una sfiducia?
È vero, la scuola può anche concorrere a fare dei “danni”, in modo particolare allorquando standardizza i suoi insegnamenti e non personalizza il tratto, ma, a mio parere, la scuola è in ogni caso un buon contenitore in cui molti docenti e personale ATA [Ausiliario Tecnico Amministrativo, N.d.R.] operano secondo scienza e coscienza. Non basta la buona volontà e la disponibilità personale, occorre una concreta e pragmatica collaborazione interistituzionale, tenendo al centro del sistema l’alunno con disabilità.

Se non vengono posti in essere tavoli di lavoro intorno ai quali condividere linguaggio e prospettive, ognuno degli “attori” concorrerà a fare il proprio “pezzetto”, ossia a elaborare la propria tessera del mosaico. Ma chi si occuperà di assemblare la varie tessere? Il puzzle è in mano alle sole famiglie che vanno anch’esse supportate. Chi prende in carico il tutto? Chi si occupa della persona con disabilità iscritta e frequentante la scuola superiore?
La mia esperienza mi fa affermare che se l’insegnante specializzato non si muove e non opera sistematicamente secondo una visione olistica, difficilmente qualche altro professionista seguirà tutte le fasi di formazione, accompagnando in un percorso di crescita il ragazzo con disabilità. Certo, è compito degli educatori (genitori e docenti in primis) tirar fuori il meglio dallo studente-ragazzo, ma sarebbe necessario avere tutta una rete intorno che garantisse gli indispensabili “ammortizzatori” e supporti organizzativi. In altre parole, è utile riconquistare quel rapporto di fiducia che in passato – in base all’autorità che alla scuola veniva riconosciuta sic et simpliciter – , caratterizzava il rapporto famiglia-scuola.
Anche il ragazzo, negli ultimi anni di frequenza delle superiori, può fornire il suo contributo nell’indicare cosa gli piacerebbe fare da grande, ovvero dare delle dritte agli altri attori su come sviluppare il suo PEI. Al contempo appare prezioso valorizzare le esperienze e i risultati ottenuti sul campo dallo studente in una prospettiva di Progetto di Vita. Incentivare, insomma, e sostenere la possibilità che lo studente pensi per sé e che non deleghi ad altri che pensino e operino secondo una loro visione (ho visto studenti con disabilità sensoriale visiva e uditiva che a un certo punto della loro vita, a 19 anni, in barba alle proposte-indicazioni provenienti dagli esperti, decidevano cosa fare in prima persona). Ed è proprio per ciò che appare utile che del suo PEI diventi consapevole anche lo studente il quale, insieme alla sua famiglia, partirà dal suo “bagno di realtà”, per conquistare il mondo e realizzare se stesso.

Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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