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Riflessioni sulla bruttezza, la disabilità e altro

Hieronymus Bosch, particolare di "Salita al Calvario" (o "Cristo portacroce")

Hieronymus Bosch, particolare di “Salita al Calvario” (o “Cristo portacroce”)

Mi piace seguire la musica. Guardo i video come gli anziani i monopattini. Ci trovo anche accenni alla disabilità. Lady Gaga in carrozzina in Paparazzi o il sottotitolato L’esercito del selfie, tormentone estivo 2017.
Recentemente guardavo Thunder degli Imagine Dragons e mi è venuto un pensiero: io di tanti alieni del video avrei paura poiché brutti, quindi perché delle persone con disabilità, ancora oggi additate come “brutte”, non se ne dovrebbe avere?

La cultura non nasce in un giorno. Per alcuni non nasce mai. Quella collettiva si forma dalla stratificazione del passato. In Occidente uno degli strati più sedimentati è quello della cultura ellenica, dove vigeva il principio di kalòs kai agathòs, cioè “bello è anche buono”. Principio che, per ciò che riguarda la disabilità, ne ha segnato profondamente il percorso storico. Infatti, se ciò che era bello era anche buono, ciò che era brutto non poteva che essere cattivo. Il nascituro con disabilità per una qualsiasi malformazione era considerato un brutto, oltre che un debole, dunque cattivo, inadatto, perciò da accantonare. Lo stesso per tutte quelle forme di disabilità che comportavano l’ingenerarsi di un’idea di brutto, di lontano dal canone della perfezione suprema.
D’altra parte è innato che rifiutiamo le cose cattive, che il nostro corpo tende a identificare come nocive. È una forma ancestrale di sopravvivenza. Un frutto amaro con buona probabilità sarà nocivo e uno buono sarà salutare.

Passano gli anni, i vari strati di storia si depositano creando sostrati dove risiede l’idea di disabilità in quanto cosa brutta: entità popolata da persone brutte. Vade retro a chi non sa esprimersi, a chi è sbilenco – perché ancora non ci sono protesi o tutori – e a chi soffre di disturbi mentali, perciò è violento, dunque dotato di terribili tratti identificativi tipici della sua violenza.
Questo pensa la società più o meno sino all’Ottocento. E la persona disabile diventa sempre più brutta nell’immaginario comune.

Ai giorni nostri le cose iniziano a cambiare, ma non abbastanza. Bebe Vio si vede di frequente in televisione e Viktoria Modesta esibisce la sua protesi come puro outfit [l’outfit è l’insieme degli abiti e degli accessori indossati da una persona, N.d.R.].
Le Paralimpiadi hanno assurto al ruolo di competizione da guardare per il piacere di assistere a una gara e non a una pietistica parata di “sfigati in cerca di riscatto”, anche se qualcuno ancora la pensa così. Stiamo iniziando a capire che ci sono persone belle anche fra quelle disabili.
La disabilità è sempre meno sgradevole, ma non del tutto gradita. L’equazione persona disabile uguale brutto persiste e il brutto continua a suscitare repulsione, anche se il suo significato è in tumultuosa evoluzione. Quando ero piccolo i tatuaggi destavano riprovazione. Da ragazzo l’orecchino per gli uomini era un vezzo poco per bene. Agli inizi degli Anni Duemila il piercing era roba da “giovani farabutti”. Prototipi di vario rifiuto con l’etichetta di brutto, nel loro frenetico contesto storico. Oggi li abbiamo sdoganati e alcuni sono riferimenti di bellezza.

Il brutto, nella sua concezione estetica, repelle ed è innato che sia così. Non ho paura a dire che molti alieni del citato video Thunder degli Imagine Dragons mi fanno ribrezzo alla prima impressione. Quando arriveranno gli extraterrestri – se saranno così e se arriveranno – proverò un fremito di disgusto. Poi, nell’ipotesi che non mi abbiano disintegrato prima, tenterò di conoscerli. Varcherò il livello esteriore per affrontare quello della conoscenza, condotto dalla relazione. Lo farò perché da quella creatura potrei acquisire qualcosa di positivo.
Perché la modernità sta nella conoscenza. Ciò che è brutto è brutto. Ma ciò che è brutto non sempre è ciò che lo era un attimo prima. Mi sono spiegato, no?

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Estive digressioni di varia bruttezza”. Viene qui ripreso, con alcuni minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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