La sindrome di Asperger e quel vagone carico di pregiudizi

«Ancora una volta – scrive Laura Angeloni – sulla pagina di una testata nazionale è stato spazzato via il vero significato della sindrome di Asperger, perdendo il treno della corretta divulgazione scientifica e sociale e salendo su un vagone carico di pregiudizio, stigmi, luoghi comuni, disinformazione e pressappochismo. Come di consueto, infatti, l’accento è caduto sull’autistico “sfortunato e malato” e non sull’ambiente sociale e fisico circostante che lo esclude dalle attività sociali, lo fa sentire inadeguato, lo confina ai margini della società, lo rende disabile»

Ragazzo con sindrome di Asperger

Un ragazzo con la sindrome di Asperger

Vedere la parola Asperger scritta a caratteri cubitali sulla pagina di una testata nazionale non capita spesso. Guardando il calendario mi accorgo dunque che è il 18 febbraio, Giornata Mondiale della Sindrome di Asperger, data in cui ricorre la nascita di Hans Asperger, il pediatra austriaco che descrisse dettagliatamente la sindrome nei primi decenni del secolo scorso.
Sorrido con un po’ di amarezza: se ne parla molto poco, ma mi accontento di un “giorno da leoni”, sono ottimista e vado avanti nella lettura.
Il titolo mi fa tenere con i piedi saldi a terra: si parlerà dei “grandi”, di quelli con affascinanti storie di vita e straordinaria genialità, ma non mi avvilisco, credo che dai grandi esempi ci si possa calare nelle ordinarie difficoltà delle storie dei piccoli.
Il mio sorriso, però, si incrina del tutto, quando nell’articolo incalzano frasi e parole come «malattia», «personaggi affetti dalla sindrome», «deviazioni comportamentali», «colpito da Asperger», «i malati», i pazienti e mi accorgo che il motto «purché se ne parli» ha ancora una volta spazzato via il vero significato dell’essere Asperger.

Succede infatti che ancora una volta chi fa informazione abbia perso il treno della corretta divulgazione scientifica e sociale, e che paradossalmente sia salito su un vagone carico di pregiudizio, stigmi, luoghi comuni, disinformazione e pressappochismo.
Ancora una volta l’accento cade sull’autistico «sfortunato e malato» e non sull’ambiente sociale e fisico circostante che lo esclude dalle attività sociali, lo fa sentire inadeguato, lo confina ai margini della società, lo rende disabile. Sono le stesse persone autistiche a pretendere l’uso di un linguaggio adeguato per descrivere la loro condizione, non per un capriccio formale, ma per favorire la conoscenza della diversità (in questo caso neurodiversità), per fare rispettare il proprio punto di vista, per ricordare che non esiste una normalità da cui si può deviare, se non nel termine puramente statistico, e per invalidare l’idea comune che le persone “tipiche” rappresentino la migliore condizione possibile.

La sindrome di Asperger è la condizione che, nello spettro autistico (caratterizzato da difficoltà qualitative nello sviluppo comunicativo, sociale, dei comportamenti e degli interessi), mantiene un linguaggio orale fluente senza compromissioni intellettive. I professionisti parlano di “autismi”, perché esistono delle caratteristiche comuni nelle aree socio comunicative e degli interessi, ma si riconosce all’interno di questo spettro una grande eterogeneità di persone.
Oggi abbiamo una letteratura e una conoscenza scientifica sull’autismo che non ci consente più di ignorare: sappiamo che gli Asperger hanno una diversa modalità di comunicazione cognitiva ed emotiva, sono assorbiti da interessi insoliti e ristretti, hanno difficoltà nelle interazioni sociali, un diverso profilo di apprendimento e spesso sono sottoposti a sovraccarichi sensoriali, un insieme di caratteristiche che possono condizionare la capacità di interagire con gli altri.
Pur avendo bisogno di supporto, di interventi psicoeducativi e di adattamento dell’ambiente e del mondo “tipico” al loro punto di vista, la sindrome di Asperger non è una malattia, non è la deviazione da un presunta normalità; le persone autistiche, infatti, non si sentono malate, né colpite da questa condizione e non hanno l’esigenza di «essere guarite da loro stesse».
Perfino la parola “diagnosi” non rappresenta un etichetta patologica, ma il punto di partenza per dare la consapevolezza della condizione e mettere in atto strategie e procedure per una migliore qualità di vita della persona autistica. Molto spesso, infatti, non presentano dei “sintomi clinicamente significativi”: vedono semplicemente il mondo in un modo diverso dal nostro, cioè da quello della maggioranza.
In questi casi, dunque, gli ostacoli maggiori derivano dal pregiudizio, dall’essere ritenuti a priori persone non capaci e dal non riconoscimento delle loro abilità.

Torno al pensiero dei “grandi Asperger” e con disincanto penso a quelli che – senza picchi di genialità – rimangono ai margini… bollati come “strani”, “maleducati”, “egoisti”, “pigri”, “anormali” e “malati”. Invisibili tra gli invisibili. “Male equipaggiati” in una società di neurotipici.

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