Il mio primo canto libero

«Le luci mi accecano completamente – racconta Rosa Mauro, persona con disabilità motoria e visiva, al suo esordio da cantante su un palco -, rubandomi quel poco di vista che mi rimane. Il microfono tra le mani, prezioso e anche unico strumento davvero tangibile tra me, l’aria e il respiro delle persone. Il mio legame con la musica, colui che trasformerà il mio corpo in qualcos’altro, un ibrido tra materia e vibrazione. Un infinito momento di sospensione tra il tempo e lo spazio. Prima di cominciare a volare»

MicrofonoVoglio scegliere questo momento: quello in cui stai per entrare in scena, di fatto, per la prima volta.
Cantare non è come parlare in pubblico, presentare un libro o dare un esame: non puoi appoggiarti a nulla fuori di te. Per un esame fai conto sulla tua preparazione, per un libro hai l’oggetto materiale e le letture che ti aiutano, per parlare, di solito, hai un soggetto e le domande su di esso.
Quando canti hai la musica, d’accordo. Ma la voce può uscire solo da te. Solo tu puoi rendere quella musica qualcosa di unico, legandola direttamente a te, al tuo vissuto, al tuo corpo.
Cantare è essere strumento ed essere colui che suona lo strumento: una condizione unica che ti toglie ogni alibi.

Mentre aspetto, la mia abitudine da scrittrice di esaminare sensazioni ed emozioni mi fa sentire quasi spaccata in due: ci sono io che guardo me stessa che, per la prima volta, prova ad essere una cantante.
C’è un’unica consolazione, se così si può dire: la concentrazione ti impedisce di fare supposizioni su cosa la gente penserà di te e della tua sedia. Perché ovviamente la noterà e, sapete, quando per esempio si tratta di parlare in pubblico, hai sempre un momento in cui cerchi di entrare negli altri e capire cosa gli passa per la mente in quel momento. Se ti vede come vorresti essere vista. Una scrittrice, un oratore, una persona come loro impegnata a comunicare, oppure se dimora in alcuni di loro, magari non in tutti, quella condiscendenza che crea un muro invisibile tra te e loro.
Ma non posso soffermarmi sul pubblico ora: dovrò necessariamente farlo durante la performance. Perché il canto è così; o crei quella magia sottile che in tre minuti porta via con te il tuo pubblico o vedi scivolare tra le dita l’attenzione di esso.

Ho già cantato in pubblico, però questa è la prima volta che lo faccio sul palco, come gli altri.
Sono al Crossroads Music Club di Roma e i proprietari hanno aperto per me lo scivolo sul retro, permettendomi di accedere sul palco: credetemi, è difficile concentrarsi uscendo fuori nel gelo di una notte di dicembre.
Il “lusso” di accedere dal palco dalla sala purtroppo non ce l’ho, ma il freddo si scioglie rapidamente, grazie all’emozione di sentire il mio nome pronunciato dal presentatore della serata.
Le luci su di me mi accecano completamente, rubandomi quel poco di vista che mi rimane. Sono avvolta in un bianco che nemmeno gli occhiali con il filtro riescono ad annullare. So che la mia insegnante è poco sotto il palco, mio marito un po’ di tavoli più in là, ma io non posso fare affidamento su nessuno di loro.
Il microfono tra le mani, prezioso e anche unico strumento davvero tangibile tra me, l’aria e il respiro delle persone. Il mio legame con la musica, colui che trasformerà il mio corpo in qualcos’altro, un ibrido tra materia e vibrazione. Un infinito momento di sospensione tra il tempo e lo spazio. Prima di cominciare a volare.

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