Ma è inclusione oppure esclusione scolastica?

Persistenza di barriere architettoniche e senso-percettive, una rivoluzione informatica che ben poco “si sposa” con la disabilità, inadeguata e scarsa preparazione degli insegnanti di sostegno, continuità didattica ben lungi dall’essere garantita: «Da un’attenta analisi dei dati proposti dal Rapporto ISTAT riguardante l’inclusione scolastica degli alunni e studenti con disabilità nell’anno 2017-2018 – scrive Gianluca Rapisarda -, vien da dire “anno nuovo, ma problemi vecchi!”, visto il persistere delle tradizionali e ataviche criticità del nostro sistema inclusivo»

Bimbo con disabilità entra a scuolaNei giorni scorsi, com’è consuetudine all’inizio di ogni nuovo anno, l’ISTAT ha pubblicato il proprio consueto rapporto sull’inclusione scolastica, relativo all’anno scolastico precedente, in questo caso, dunque, il 2017-2018.
Secondo tale documento, dunque, che ha esteso la propria osservazione a tutto il nostro sistema di istruzione e formazione, dalle scuole dell’infanzia alle secondarie di secondo grado, interessando complessivamente 56.690 scuole, nell’anno 2017-2018 gli alunni con disabilità e con sostegno frequentanti gli istituti italiani di ogni ordine e grado erano esattamente 272.167, vale a dire il 3,1% del totale degli iscritti.
Nelle scuole primarie e secondarie di primo grado erano poco più di 165.000 e i maschi più del doppio delle femmine. L’incremento degli alunni con sostegno si osservava per ogni tipologia di difficoltà. Infine, le problematiche più frequenti risultavano essere quelle di tipo cognitivo (46%), seguite dai disturbi dello sviluppo (25%) e da quelli del linguaggio (20%).

Ebbene, da un’attenta analisi dei dati ISTAT, verrebbe da dire “anno nuovo ma problemi vecchi!”. Va rilevato, infatti, il persistere delle tradizionali ed ataviche criticità del nostro sistema inclusivo.
Innanzitutto, mi riferisco alle barriere architettoniche, se è vero che nonostante i proclami dei Governi susseguitisi durante l’anno scolastico 2017-2018, soltanto il 32% delle scuole risultava accessibile e la percentuale scendeva al 26% nelle scuole del Sud Italia.
Per non parlare poi delle barriere senso-percettive, che impediscono gli spostamenti degli allievi con disabilità sensoriali (sordi e ciechi): qui la percentuale di scuole accessibili si riduceva al 18% e anche stavolta, guarda caso, la quota più bassa si registrava nelle Regioni del Mezzogiorno.
Infine, a completare tale quadro sconfortante, l’ISTAT ci informa che soltanto il 19% degli istituti italiani di ogni ordine e grado ha risposto al quesito sull’accessibilità e sulle barriere architettoniche…

Per quanto poi concerne la “rivoluzione informatica” che sta attualmente caratterizzando la scuola italiana, grazie all’introduzione del cosiddetto “Piano Nazionale della Scuola Digitale” (PNSD), a quanto sembra, ben poco essa si “sposa” con la disabilità. Infatti, per il 9% degli alunni che si avvalgono del sostegno, gli ausili didattici utilizzati risultavano poco adeguati alle loro esigenze. Inoltre, la collocazione delle postazioni informatiche in classe – ad esempio PC con sintesi vocale per non vedenti – appariva sporadica e presente in meno di metà delle scuole.
Ciò spiega perché, in base al report dell’ISTAT, una scuola su quattro risultasse carente di postazioni informatiche dedicate ai bisogni “speciali” degli alunni con disabilità e con sostegno.

Passando poi al sostegno e malgrado il tentativo di riformarne l’assetto tramite il Decreto Legislativo 66/17, attuativo della Legge sulla cosiddetta Buona Scuola, in merito all’inclusione scolastica dei nostri ragazzi e alla formazione specifica degli insegnanti specializzati, possiamo parlare, senza timore di essere smentiti, di una Pessima Scuola.
In Italia, dunque, nell’anno scolastico 2017-2018 i docenti per il sostegno risultavano essere circa 156.000, con un rapporto di 1,5 alunni per ogni insegnante. La maggiore assegnazione si aveva nelle Regioni meridionali (1,3 alunni per insegnante), ma quel che più conta è che il 36% degli insegnanti per il sostegno veniva selezionato dalle graduatorie d’istituto con docenti “in deroga” e a volte neanche abilitati, poiché quelle degli insegnanti specializzati non risultavano sufficienti a soddisfare la domanda. Un fenomeno, questo, più frequente nelle Regioni del Nord (49%), meno di metà al Sud (21%).
E ancora, come se non bastasse, i dati dell’ISTAT evidenziano altresì l’inadeguata e scarsa preparazione degli insegnanti di sostegno: nell’anno scolastico 2017/2018, nel 13% delle scuole italiane nessun insegnante di sostegno aveva frequentato un corso specifico sulle tecnologie educative, nel 61% delle scuole soltanto alcuni, mentre nei restanti casi (26%) tutti gli insegnanti avevano frequentato almeno un corso. Solo nella metà delle scuole italiane tutti gli insegnanti apparivano in grado di utilizzare la tecnologia a supporto della didattica inclusiva.

La diretta e quasi naturale conseguenza dell’eccessivo ricorso a docenti “in deroga” e “ballerini” è che, nel nostro Paese, non solo un’altissima percentuale di docenti per il sostegno è priva di una formazione specifica e adeguata al ruolo, ma soprattutto che se a questi si aggiungono i docenti con specializzazione, assunti anch’essi come supplenti annuali, appare chiaro che in moltissimi casi non è possibile assicurare in alcun modo, agli alunni con disabilità e con sostegno, l’invocata continuità didattica. Dai dati, infatti, emerge che se nell’anno scolastico 2017-18 il 33% dell’intera popolazione scolastica si sono trovati con almeno un insegnante nuovo in classe, è andata ancora peggio agli alunni che fruivano del sostegno, perché almeno 130.000 di loro (il 41%, ovvero 4 su 10) hanno cambiato il docente di sostegno rispetto al precedente anno scolastico e il 12% lo ha dovuto cambiare nel corso dell’anno.
Tale grave fenomeno tutto italiano – che definerei della “discontinuità didattica del sostegno” , ha finito per costringere spesso e volentieri le famiglie a ricorrere ai Giudici per il riconoscimento dei loro diritti: esattamente il 5% ha presentato un ricorso al proprio TAR di riferimento (Tribunale Amministrativo Regionale), per ottenere l’aumento delle ore di sostegno, con una percentuale di ricorsi doppia nel Mezzogiorno rispetto a quella del Nord (6% e 3%).

Da leggere con attenzione, infine, anche i dati relativi alle ore di sostegno e a quelle destinate agli assistenti all’autonomia e alla comunicazione. Nel 2017-2018, dunque, venivano assegnate in media, nel nostro Paese, 14 ore di sostegno settimanali, con un incremento del 14%, rispetto all’anno precedente, pari a 1,7 ore in più a settimana. Riguardo poi alla presenza in classe degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, qui si parla mediamente di 3 ore di supporto settimanali.
L’incremento del numero medio di ore di sostegno settimanali dovrebbe indurci a credere che il sistema inclusivo del nostro Paese stia migliorando e diventando più efficace ed efficiente. In realtà le cose non stanno propriamente così, come ci dimostra ancora una volta il rapporto dell’ISTAT, sulla cui scorta rileviamo che gli alunni con difficoltà di autonomia passano la maggior parte del loro tempo all’interno della classe (in media 27,4 ore settimanali per la scuola primaria e 25,3 per quella secondaria). Essi, invece, svolgono attività didattica al di fuori della classe solo per un numero residuale di ore, in media 3 ore settimanali nella scuola primaria e 4 nella scuola secondaria di primo grado. Il numero di ore svolte al di fuori della classe è maggiore nelle scuole del Nord e più basso nel Mezzogiorno, per entrambi gli ordini scolastici.
Come dire che, nonostante il tanto decantato Decreto 66/17 varato dal Governo Gentiloni e l’imminente riforma del sostegno già preannunciata dall’attuale Governo, la strada da fare in Italia è ancora molto lunga, per garantire agli alunni con disabilità e con difficoltà un autentico e proficuo processo di inclusione.

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