La povertà non è la stessa per tutti

«Il rispetto del principio elementare dell’equità – scrive Carlo Hanau – vorrebbe che il reddito di cittadinanza considerasse la differente condizione delle persone. Gli indici di povertà come l’ISEE familiare, infatti, non colgono in modo adeguato l’effettivo tenore di vita delle famiglie con una o più persone con disabilità e sottostimano il loro reale disagio economico, aggravato dalle difficoltà di accesso al mondo del lavoro, dalla necessità di disporre di un caregiver e dai costi sociosanitari privati per supplire alle carenze dei servizi pubblici di assistenza sociale e sanitaria»

Foto in bianco e nero di uomo in carrozzina che incrocia altre persone non disabiliLa povertà in Italia si misura con un Indicatore di Situazione Economica Equivalente, l’ISEE. A parità di ISEE, però, i poveri del Nord sono più poveri perché devono sostenere un costo della vita più elevato, affitti e generi alimentari più cari, spese di riscaldamento maggiori, a cui si aggiungono minori aiuti di familiari e di vicini.
L’ISEE viene costruito sulla base dei redditi e dei patrimoni mobiliari denunciati e degli immobili posseduti e censiti al catasto: in alcune regioni del Sud molte abitazioni non sono accatastate e quindi non aumentano l’Indicatore. Così come i redditi da lavoro nero, che è sicuramente più diffuso al Sud. Il reddito di cittadinanza può essere quindi un’ulteriore spinta per aumentare il lavoro nero, perché sia i lavoratori sommersi che i loro datori sono interessati a nascondere il rapporto di lavoro. A tal proposito non sono certo credibili le minacce di punizioni esemplari per i “furbetti” proferite dai vicepresidenti del Consiglio Di Maio e Salvini. È difficile, infatti, pensare che nelle Regioni dove non si riesce a fare rispettare l’obbligo del catasto delle case (visibilissime dalle foto satellitari) si riuscirà a verificare e punire il lavoro nero. Il lavoro nero è diffuso anche al Centro-Nord, dove però funzionano meglio il servizio ispettivo e il ricorso alla Magistratura del Lavoro.
Nel definire il reddito di cittadinanza, sarebbe perciò giusto tenere conto delle differenze del costo della vita, sia per determinare con maggiore equità il numero dei poveri, sia per quantificare il corretto importo mensile dell’assegno di ciascun richiedente, poiché con gli stessi 780 euro in alcune zone si comprano più beni e servizi che in altre.

Il costo della vita, inoltre, si differenzia da Regione a Regione, ma anche all’interno di una stessa Regione: ad esempio è più elevato nelle grandi città rispetto al resto del territorio.
L’ISTAT offre in tal senso un calcolatore della soglia della povertà, al quale risulta che nel 2017 una famiglia composta di due adulti e un figlio in età compresa fra i 4 e i 10 anni, residente in una città del Nord che supera i 250.000 abitanti, è povera se dispone di meno di 1.390 euro al mese, mentre se risiede al Sud è povera se ha meno di 1.087 euro: 303 euro di differenza.
E ancora, per il nucleo familiare con eguali dimensioni che risiede in una città con meno di 50.000 abitanti nel Nord la soglia si abbassa a 1.275, ancor più al Sud, dove è pari a 1.013 euro al mese: 262 euro di differenza.
La definizione degli aventi diritto all’assegno di cittadinanza e quella dell’ammontare dell’assegno dovrebbero quindi rispettare le differenze del potere di acquisto e non indicare una soglia unica per tutti. E l’INPS potrebbe facilmente tenerne conto.

Oltre alle differenze del costo della vita, il rispetto del principio elementare dell’equità vorrebbe che si considerasse la differente condizione delle persone: per quelle con disabilità dovrebbero essere introdotti criteri diversi da quelli approvati dal Governo con il Decreto Legge 4/19 del 17 gennaio scorso, come ben si può leggere in HandyLex.org.
Gli indici di povertà come l’ISEE familiare, infatti, non riescono a cogliere in modo adeguato l’effettivo tenore di vita delle famiglie con una o più persone con disabilità e sottostimano il loro reale disagio economico, aggravato dalle difficoltà di accesso al mondo del lavoro, dalla necessità di disporre di un caregiver e dai costi sociosanitari privati per supplire alle carenze dei servizi pubblici di assistenza sociale e sanitaria.
L’insoddisfazione dei nuclei familiari con persone con disabilità sul Decreto del 17 gennaio è stata espressa dai Presidenti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e dell’ANMIC (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili) [se ne legga sulle nostre pagine rispettivamente a questo e a questo link, N.d.R.], che hanno rilevato come i nuclei in cui sono presenti persone con disabilità, titolari di pensione di invalidità civile (considerata come reddito), verranno inequivocabilmente trattati meno favorevolmente delle altre famiglie, proprio perché le stesse pensioni di invalidità vengono considerate alla stregua di un reddito.
La permanenza della persona con disabilità all’interno del nucleo familiare, dovuta spesso alla mancanza di adeguati servizi residenziali, diventa dunque un enorme ostacolo all’ottenimento del reddito di cittadinanza, che si basa sull’ISEE familiare anziché su quello personale.
Queste ed altre criticità presenti nel decreto potrebbero essere corrette accogliendo i suggerimenti proposti dalla FISH e ribaditi in un incontro con il ministro per la Famiglia e le Disabilità Lorenzo Fontana.

Sono dunque diversi i fattori individuali di cui si deve tener conto nell’assegnazione reddito di cittadinanza e nella determinazione dell’assegno. Per questo, l’ottica migliore per valutare la povertà e gli interventi per superarla è quella dei Comuni. A loro, infatti, dovrebbe essere delegato il compito di distribuire anche i sussidi monetari legati al reddito di cittadinanza, che dovrebbero far parte del “budget globale di spesa”, consentendo, a parità di risorse, di offrire alla persona la scelta del miglior progetto individuale di vita, secondo l’articolo 14 della Legge 328/00.
Già ora i Comuni si assumono il compito di fare perequazioni individuali rispetto all’indennità di accompagnamento erogata dal Governo centrale e hanno operatori dedicati allo scopo, costretti a diventare “agenti del fisco” per la scarsità delle risorse di cui dispongono. Si dovrebbe perciò evitare di costruire un sistema parallelo, che costituirebbe solo uno spreco delle risorse destinate ai poveri, soprattutto viste le difficoltà del Paese e delle finanze pubbliche. E sarebbe anche fondamentale finanziare tirocini lavorativi studiati appositamente per le persone con disabilità, che esigono un accompagnamento ben diverso da quello che possono offrire improvvisati “navigator”.

Già docente di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sociali e Sanitari, oltreché di Statistica Sanitaria all’Università di Modena e Reggio Emilia e già docente di Economia Sanitaria e Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sanitari all’Università di Bologna (hanau.carlo@gmail.com). Il presente testo è già apparso nella testata «lavoce.info», con il titolo “Non esiste una sola povertà” e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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