La generazione degli invisibili presenti

Riflette, il docente Marco Condidorio, partendo dalle discriminazioni e dai maltrattamenti di cui, negli ultimi tempi, sono stati vittime soprattutto i bimbi più piccoli, e scrive: «La violenza deve essere eliminata da ogni percorso di istruzione, educazione e formazione. Vanno ristabilite la fiducia, l’affettività, il rispetto verso le figure educanti. Consentiamo ai discenti, che poi non sono altro che i nostri figli, i nostri nipoti, di sentirsi importanti, di sentirsi il centro delle nostre relazioni, non il “margine” o il “terzo incomodo”, perché troppo concentrati sui nostri egoismi»

Ombra di una mano di adulto vivina alla mano di un bimboDesidero fare una rivelazione: voglio bene ai miei studenti; amo mio figlio… La loro abilità di conoscere il mondo e di comprenderne i meccanismi, le leggi, dipende anche dalla nostra capacità di amarli, di farli essere al centro dell’amore. Solo così non resteranno invisibili né a noi né a loro stessi, ma saranno il futuro luminoso per tutti noi.

In queste ultime settimane la scuola è nuovamente sul tavolo degli imputati, giusto per non perdere il vizio. Bambini, alunni e studenti sono vittime di discriminazioni e maltrattamenti; sono soprattutto le maestre – oggi secondo una nuova etichetta sociale doverosamente definite col titolo di “insegnanti”, per distinguerle dai docenti – a rivestire il ruolo di imputate. Assieme a loro vi sono le operatrici della scuola dell’infanzia e dell’asilo.
Addio allo scappellotto; alla sculacciatina fugace della maestra, al rimprovero e alla conseguente messa all’angolo col volto verso il muro, imposto dal maestro. Addio al rimprovero del genitore se, una volta tornati a casa, riferivamo di aver ricevuto un richiamo da parte del maestro o dell’insegnante.
Che confusione, sarà perché abbiam persa la dimensione, anche educativa, della scuola in ogni suo grado!
Certo la violenza sui bambini, alunni o studenti deve essere evitata in ogni sua forma; si deve cioè trasmettere tra le abilità proprie di un insegnante o di un docente, quella di saper riconoscere la differenza tra ciò che ha valore educativo e quello che viceversa, se posto in essere, risulta di fatto vera e propria violenza, senza alcun fine pedagogico e/o sociale.
La “caccia alle streghe” ha avuto inizio, prego a chiunque lo desideri di farsi avanti e di iniziare la propria persecuzione. Sì, perché tutti, di fronte ad un qualsiasi fatto di violenza, ci trasformiamo in giudici esperti quando emettiamo le nostre sentenze, categoriche e inappellabili!
Ripetiamolo, a scanso di equivoci: ogni tipo di violenza va stigmatizzata, comunque e sempre; perché in campo pedagogico non può aver legittimità alcun’azione, da parte di chiunque, in particolar modo da parte delle figure educative che sia pura manifestazione di violenza. Ma…

Ma in quale modo può contribuire la scuola – seconda agenzia educativa dopo la famiglia – al processo di crescita che, inevitabilmente, abbraccia anche la sfera emotiva e passionale dei discenti?
Buona parte della nostra letteratura, e non solo, è intrisa di didattica dei sentimenti e delle passioni; la narrativa, le fiabe, il mito stesso parlano di donne e uomini, per questo fanno inevitabilmente riferimento all’amore e alla mancanza, alla gioia e al dolore, al pianto e al riso, alla salute e alla malattia, alla nascita e alla morte. Lo stato di frustrazione afferente gli apprendimenti ci coinvolgeva sin dalle prime righe: gli studi erano anche sofferenza, oltre che conoscenza, e apprensione; quelli del ginnasio prima, del liceo poi, quando ci affezionavamo a un personaggio buono o cattivo ma che era come accanto a noi e con lui vivevamo tutta la storia.
Siamo stati Ulisse, un po’ Virgilio e forse anche Cesare o Napoleone; qualche volta Don Chisciotte; in altre più timidamente Sancho Panza; personalmente non comprendevo Edipo e amavo invece la figura di Antigone, in difesa del fratello perché venisse sepolto dignitosamente entro le mura della città come l’altro…
Insomma, alle emozioni, alle passioni abbiamo dato un nome; le abbiamo concettualizzate affinché potessimo poi spiegarle, trascriverle attraverso la parola scritta.
Ora cosa sta accadendo, perché tutto ciò non continui a restare il patrimonio di questa umanità? Quali sono i valori di questo tempo che, in qualche modo è un po’ anche nostro, di noi persone adulte?
La seconda agenzia educativa, la scuola, probabilmente ha altri “proprietari”, che non son più il pensiero dell’impronta classica. Per carità, ma se il pensiero greco ha avuto una certa capacità di “segnare” la storia successiva, una ragione c’è; e lo stesso dicasi, evidentemente, anche per quello della latinità.

Di fronte a questa confusione lo smarrimento è totale e inevitabile, e dunque desidererei fare un po’ di spazio nella mente e poter così riflettere con la dovuta comprensione. Vediamo allora assieme poche, ma essenziali figure riferite al processo di istruzione e educazione.
La prima è quella dell’educatore, conosciuto come maestro o pedagogo; la seconda quella del pedagogista o teorico della teoria educativa o stile educativo.
Si diventa pedagoghi e pedagogisti con l’esercizio costante e onesto della professione docente, ma non solo: anche il ruolo del genitore è destinato a trasformare lo stesso in pedagogo, maestro di vita e magari in pedagogista, capace cioè di progettare e programmare un percorso educativo o rieducativo, qualora necessario, per alunni e studenti. Ma questi due ruoli sono reali o sono solo sulla carta?
Al di là della loro definizione secondo una normativa che – diciamocelo tra noi e nemmeno poi tanto – continua a disattendere le reali esigenze educative dei nostri discenti, per cui restano sulla carta evidentemente per la scuola, per noi che prepariamo le future generazioni di educatori o pedagogisti, sono la realtà concreta e drammatica di un’università su cui tutti decidono, ma nessuno ha responsabilità.
Tante volte lo abbiamo scritto: non è l’etichetta a fare del professionista “il professionista”, bensì lo stesso esercizio della professione, l’esperienza sul campo, dentro la realtà dell’evento, tra i colori e le fragranze che definiscono sfumature, densità e intensità, sostanza del divenire.
La violenza dev’essere eliminata da ogni percorso di istruzione, educazione e formazione. Vanno ristabilite la fiducia, l’affettività, il rispetto verso le figure educanti. È necessario riporre al centro della relazione didattica il valore della conoscenza, quello degli apprendimenti, il sano principio del ruolo educante del pedagogo, qualsiasi sia il suo volto, il momento in cui ci appare nella realtà o nel sogno.
I bambini siano lasciati al loro ruolo di fanciulli; si evitino inutili e quanto mai dannose emulazioni con età diverse, talvolta lontane e per questo incomprensibili. I bambini, gli alunni e così gli studenti, siano tenuti costantemente per mano, fissati nell’anima e presi col cuore, stringendo loro la mano nella nostra. Siano affidati al loro giudizio, al loro sentire e vedere, oltre che guardare le cose, gli eventi, le storie.
Diamo loro gli strumenti perché costruiscano con creatività; non imbrigliamo con inutili esercizi alla libertà, che altro non sono se non il nostro disimpegno a esercitare il ruolo di insegnanti; docenti e di educatori.
Dobbiamo esercitare il giusto ruolo di pedagoghi, senza avere il timore di condurre per mano il discente il quale qualche volta certo punterà i piedi, ma del quale avrà valore la stretta della sua mano nella nostra piuttosto dell’istante nel quale soffrirà.
Saper sostenere e guidare anche il momento di frustrazione, così come quello di gioia, è un’arte complessa e non di facile opera. Una tecnica pedagogica che consentirebbe di ricondurre al centro del pensiero libero i valori che dell’umanità hanno fatta la nostra civiltà e quelle di tutto il mondo che della storia è il vero protagonista.
Consentiamo ai discenti – che poi non sono altro che i nostri figli, i nostri nipoti – di sentirsi importanti, di sentirsi il centro delle nostre relazioni, non il “margine” o il “terzo incomodo”, perché troppo concentrati sui nostri egoismi.
L’Io ha bisogno del Tu, ne ha bisogno moltissimo. Ed invece noi per primi trasmettiamo uno stato di solipsismo, scambiandolo per libertà o peggio per democrazia. Cerchiamo di dar loro modelli che poi avranno la libertà di scegliere o respingere, sempre che saremo stati competenti nel trasmetter loro gli strumenti del mestiere e il loro uso.
Possiamo e dobbiamo insegnare loro come ci si procura il cibo, dove trovarlo, la loro maturità farà il resto.
Il discente – ma ancor prima il figlio – è parte della nostra famiglia; altro non è se non una piccola società, la comunità da cui tutti impariamo le prime parole, i primi passi e dove iniziamo per gioco a fare la lotta, a piangere e a ridere.
Siamo gelosi per moto ancestrale, liberali per opportunità. Complicati nelle relazioni tra noi adulti, privilegiamo la prestazione all’intelligenza. Ovunque. Lo facciamo nella convinzione che questa sia la sostanza, in un atto di inutilità sociale; siamo spinti impropriamente verso il “darwinismo della materia”, dove ciò che conta è la potenza, mai l’intelligenza e l’affettività, l’individualità, mai l’unità della squadra o del gruppo.

In un brano ho trovato queste considerazioni, le condivido con i Lettori perché le approvo, le applico, sbocciano ogni giorno in me; perché ad ogni alba e tramonto sono il ritmo del pensiero impegnante ed impegnato:
«…L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve lottare per essere accettato e potersi poi accettare. L’individuo deve generarsi da solo, la persona è generata dalle relazioni. Ma gli individui non esistono, esistono figli perché in relazione con genitori; esistono amici perché in relazione con amici; esistono mariti e mogli perché in relazione con il coniuge; esistono discenti perché in relazione con docenti… L’io, grazie alle relazioni sane, è donato al mondo e a se stesso, non deve auto-promuoversi né meritarsi di vivere, è già “abbastanza”: quindi dalla qualità di queste relazioni nel tempo dipende il suo fiorire. Se però esse sono improntate solo al risultato, l’io si sente sempre in-adeguato e in-soddisfatto, perché è voluto (bene) solo se all’altezza; il tu non è accolto così com’è, ma solo così come deve essere, secondo certe aspettative e certi standard. Invece la persona è già all’altezza, e per questo, nel singolo compito, può riuscire o fallire, senza paura che venga meno la sua esistenza e consistenza. La persona non si deve “realizzare”, è già “reale” anche se incompiuta, e la sua incompiutezza non è una colpa, ma una energia interna attivata dalle relazioni, per diventare “più” reali. Grazie all’amore la persona riceve se stessa in “dono” ed è rinnovata nel “per-dono”, il suo essere riposa nell’amore, invece l’individuo deve porre e imporre se stesso, non riposa mai».

Dobbiamo dunque invertire, in famiglia e a scuola, la priorità della prestazione sulla presenza, ristabilendo il primato di quest’ultima.
Vedo genitori, soprattutto mamme, angosciati dall’iscrizione alla prima elementare più di quanto si preoccupino di curare l’armonia tra intelligenza e affettività dei propri bambini. Si punta tutto sulle competenze, dimenticando che la persona è armonia sinfonica delle componenti vitali: spirito, intelligenza, volontà, corpo. Le domande dopo scuola (se non durante, con messaggi invasivi) sono: «Com’è andata?», «Sei stato interrogato?», «Che voto hai preso?», «Che compiti devi fare?».
Nel parlare dei figli, chiedono se sono bravi, non se sono felici, che cosa fanno, non chi sono. Il risultato è tutto. I figli, non riuscendo a sostenere la pressione, implodono o esplodono, o comunque interiorizzano che «essere non è esserci, ma riuscire».
Basterebbe cominciare a sostituire le domande di prima: «Come stai?», «Avete giocato?», «Che cosa avete scoperto di bello?», «Con chi hai fatto amicizia?», «Come sta la maestra?».
Curando la persona, inseriamo i bambini in una miniera di relazioni sane che pian piano faranno il diamante. Il principio personale mette l’io al centro di relazioni che conferiscono identità e si occupa di curarle, mentre quello del risultato spinge a soddisfare gli obiettivi. Gli adolescenti, loro malgrado, finiscono con il mettere in atto proprio l’individualismo a cui sono stati indirizzati; abbiamo detto loro per anni «funziona, concorri, realizzati…», anziché «ti voglio bene così come sei», «vai bene anche quando non funzioni», pensando che dire queste cose fosse pericoloso per la loro “realizzazione” e inadeguato per un mondo in cui merita di vivere solo il più adatto.
Diamo visibilità ad ognuno di loro, sciogliamo la coltre costruita a partire dal nostro egoismo di adulti frettolosi, mai dialoganti e sempre sfuggenti.
I nostri figli sono i discenti di questa scuola, seconda agenzia educativa, figli della prima, la famiglia.
Ripensiamo la scuola sì, facciamolo a partire dalla famiglia, quella nostra anzitutto!

Componente della Direzione Nazionale dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), Associazione nella quale coordina la Commissione Nazionale Istruzione e Formazione. Docente di Tiflologia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione dell’Università del Molise.

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