La decadenza dei tirocini

Tirocini inutili e inadeguati al contesto produttivo, tirocinanti abbandonati a se stessi: nel cercare di individuare le ragioni di questa “deriva”, Marino Bottà scrive tra l’altro: «È venuta meno la ricerca mirata del contesto lavorativo, in quanto è più importante attivare un qualsiasi tirocinio, come previsto dal programma, dal progetto, dalla dote ecc. Andrebbe invece riscoperto il valore stesso del tirocinio, dell’accompagnamento al lavoro e dell’inserimento. E chi opera nel campo dell’inclusione lavorativa dovrebbe sentirsi moralmente e professionalmente impegnato nel proprio compito»

Particolare di persona in carrozzina con un computer sulle gambeMolti anni or sono, in un paese sul Lago di Como, alcuni operai, durante l’orario di lavoro, decisero di fare uno “scherzo” a un collega. Afferrata la pistola di un compressore, lo gonfiarono fino a farlo morire. Lasciò la moglie affetta da nanismo e un figlio con un handicap intellettivo e un impaccio grosso motorio. Il Laboratorio Scuola di Lecco che frequentava lo aveva inserito, per due mezze giornate,in una fabbrica metalmeccanica, dove si impegnava ad apporre il marchio aziendale su attrezzi utilizzati nell’edilizia. Il titolare dell’azienda, sentito l’accaduto, decise di assumerlo. Cercò inoltre un appartamento, lo ristrutturò e lo mise a disposizione della madre e del figlio.

Eravamo nel 1976; allora non era in uso nemmeno il termine “tirocinio” per definire la presenza di un giovane in azienda. Non c’erano regole, assicurazioni o comunicazioni obbligatorie da fare; era sufficiente la disponibilità dell’impresa.
Solo alla metà degli Anni Ottanta una norma della Formazione Professionale consentì la temporanea presenza di uno studente in azienda. Dopo lo sconcerto iniziale di molti e le resistenze sindacali, si diffuse l’esperienza dei tirocini.
Negli Anni Novanta, lo sviluppo dei servizi per l’inserimento lavorativo – nati originariamente all’interno dei CFP (Centri di Formazione Professionale) -, consentirono la diffusione di questa prassi, che si rivelò particolarmente efficace per il collocamento nel mondo del lavoro dei giovani  portatori di handicap.
Poco per volta si affrontò la regolarizzazione dell’esperienza formativa. Si decise di concordare tempi e modi della presenza del tirocinante in azienda attraverso un’apposita convenzione. Dal canto suo, l’INAIL decise di offrire una copertura assicurativa e gli Enti, a tutela del tirocinante e del tutor, sottoscrissero assicurazioni per conto terzi. Il tirocinante inizialmente non beneficiava di alcun regolare contributo economico: era lo stesso titolare che erogava un compenso mensile. Successivamente fu introdotta la Borsa Lavoro, che sollevò da qualsiasi onere economico e fiscale l’azienda.

Da alcuni anni le Regioni hanno normato i tirocini, suddividendoli in curricolari, svolti durante il periodo scolastico, ed extracurricolari per i giovani inoccupati o per gli adulti disoccupati. Solo in un secondo tempo si comprese che il tirocinio per le fasce più deboli del mercato del lavoro non poteva essere equiparato a quello degli altri. Alcune Regioni decisero quindi di definire le procedure per i “tirocini risocializzanti”, “occupazionali” ecc., che consentirono di dare una risposta ai bisogni lavorativi delle persone con disabilità psichica o affette da gravi patologie.

Oggi una pluralità di soggetti è autorizzata a promuovere tirocini: Scuole, Centri di Formazione Professionale, Servizi Sociali e Socio-Sanitari, Comuni, Cooperative Sociali, Agenzie per il Lavoro ecc. A volte essi vengono promossi e seguiti dai SIL (Servizi per l’Inserimento Lavorativo avviati da Comuni, ASL ecc.), servizi dotati di personale qualificato per promuovere e sostenere percorsi individualizzati di accompagnamento al lavoro.
Questi servizi all’inizio si dedicavano al mondo della disabilità, successivamente ai soggetti con svantaggio sociale (tossicodipendenti, alcolisti e ammalati mentali) e poi ai minori e ai detenuti. Ultimamente sono stati costretti dalle loro Amministrazioni a spostare l’attenzione verso nuove fasce deboli: adulti indigenti e profughi.
Purtroppo lo sviluppo delle contraddizioni sociali ha spinto i soggetti pubblici e il privato sociale verso nuove categorie di svantaggio, a scapito delle persone con disabilità complesse.
La carenza di risorse economiche e l’insufficiente disponibilità di posti di lavoro azienda hanno costretto alcuni servizi a chiudere l’attività o a rivolgersi ad altre categorie di bisogno, minando fortemente il loro modo di porsi di fronte al tema tirocini e nel modo di gestirli. È necessario, dunque, rilanciare i servizi che si occupano di accompagnamento al lavoro e riportarli a quella che era la loro missione originale.
Va anche detto che la promozione della cultura inclusiva, il tirocinio e il tirocinante sono sempre meno oggetto di attenzione da parte dell’operatore sociale. Spesso, infatti, il percorso di accompagnamento al lavoro è per il promotore un’occasione di autofinanziamento, e sempre meno un progetto individualizzato di collocamento, di inclusione, di vita. Il contesto di tirocinio viene frequentemente cercato a prescindere dalla persona e dalle sue possibilità di inserimento. Si sta inoltre diffondendo il ricorso alla famiglia nelle attività di scouting [“ricerca del lavoro”, N.d.R.], la quale si deve attivare per trovare il contesto dove inserire il proprio familiare.
L’esito stesso del tirocinio è sempre meno oggetto di attenzione, in quanto ai fini delle rendicontazioni, per gli Enti finanziatori contano le ore impegnate e non la qualità delle stesse e i risultati conseguiti. Ecco quindi che la “fortuna” del disoccupato è spesso non l’assunzione, ma il numero di tirocini svolti.
Anche la cura nel seguire il percorso di inserimento si sta sempre più impoverendo. Quando sono coinvolti i giovani al termine dei percorsi scolastici, la situazione prende una connotazione più drammatica. In questi casi le famiglie spesso si aspettano un inserimento lavorativo coerente con il titolo di studio conseguito e rifiutano proposte alternative. Si prolunga così il periodo di disoccupazione, che in questa fase non è solo assenza di lavoro, ma perdita di ruolo sociale, di identità personale e di rapporti sociali. Questo periodo di “avvitamento” dura di norma dai due ai cinque anni e a volte produce danni psicologici irreparabili.

Del resto gli operatori dichiarano di essere troppo impegnati in riunioni e nella gestione delle burocrazie, di conseguenza non possono seguire il tirocinante in modo adeguato. Sono le stesse Istituzioni (Ministero, Regioni, Province ed Enti Locali) che spingono ad utilizzare il tirocinio per ricevere finanziamenti, trasformando così i servizi in impropri enti profit, necessariamente attenti a tutte le forme di business e di concorrenzialità.
E ancora, la qualità dei servizi è crollata a causa dei rapidi cambiamenti sociali e del mercato del lavoro. Purtroppo gli operatori non riescono a seguire le trasformazioni sociali e operano in continuità con quanto conosciuto, utilizzando strumenti e procedure oramai obsoleti. Non riescono a comprendere le richieste del mercato del lavoro e tanto meno il linguaggio dell’impresa.
I servizi richiedono disponibilità che le aziende non possono concedere, in quanto non ne dispongono più, e presentano tirocinanti inadeguati al contesto produttivo, magari sostenendo che “il disabile è un valore aggiunto per l’azienda”. Delusi si ritirano, lamentandosi della poca disponibilità delle aziende. Ne consegue che viene meno la ricerca mirata del contesto lavorativo, in quanto è più importante attivare un qualsiasi tirocinio, come previsto dal programma, dal progetto, dalla dote ecc. Le persone, pertanto, si trovano impegnate in tirocini inutili, senza prospettive occupazionali, e senza alcun valore formativo e curriculare; a volte anche dannoso, in quanto produce aspettative nella persona e nei familiari e dà un immagine del lavoro non corrispondente alla realtà.

Anche la “formazione in situazione” è diventata una prassi oramai abbandonata, così come l’affiancamento e il monitoraggio costante. Sempre più i tirocinanti vengono presentati all’ azienda, si organizza l’impianto formativo e si abbandonano il tirocinante e l’azienda alla loro quotidianità. Non c’è un “affiancamento  in dissolvenza” con il procedere dell’integrazione, non c’è un monitoraggio puntuale che consenta di rimodulare il tirocinio.
In conclusione, si può affermare che la scelta poche volte è mirata e il tirocinio adeguato. Inoltre, la non presenza sul campo non consente di comprendere le trasformazioni in essere nel mondo del lavoro e quindi il linguaggio dell’impresa. Si perpetuano così le contraddizioni e l’incapacità dei servizi.
In parte si potrebbe supplire a queste carenze con un aggiornamento e una formazione continua, bisogna però trovare il tempo, le risorse economiche e, soprattutto, trovare maestri con esperienza, conoscenza e spirito innovativo.
Va altresì riscoperto il valore stesso del tirocinio, dell’accompagnamento al lavoro e dell’inserimento. Chi opera nel campo dell’inclusione lavorativa condiziona la vita della persona e di chi vive con lui. Questo non va mai dimenticato e deve vedere il passeur (“traghettatore”) moralmente e professionalmente impegnato.

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).

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