È sempre meglio costruire contesti di fiducia

Un ulteriore arricchimento al confronto da noi auspicato sul recente emendamento approvato al Senato, riguardante l’installazione delle videocamere in luoghi che ospitano bambini, anziani e persone con disabilità, arriva da Simona Lancioni, che scrive tra l’altro: «La violenza ha una matrice culturale ed è questo il terreno sul quale dobbiamo lavorare. Non ci sono scorciatoie, qualsiasi Centro Antiviolenza lo può confermare. Credo dunque che la videosorveglianza non sia un deterrente efficace, né serva a prevenire la violenza. Per farlo, invece, è necessario costruire contesti di fiducia»

Puzzle con mani che si uniscono

«La fiducia – scrive Simona Lancioni – va costruita lavorando assieme e valutando di volta in volta le diverse situazioni»

Come è già stato reso noto anche su queste pagine, in sede di esame del cosiddetto Decreto Legge “Sblocca cantieri”, le Commissioni dei Lavori Pubblici e dell’Ambiente del Senato hanno approvato un emendamento (S. 897) che disciplina la videosorveglianza nelle scuole dell’infanzia e nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani e persone con disabilità.
Immagino che questa sia la risposta istituzionale alle numerose notizie di cronaca che hanno portato alla luce tanti episodi di violenza ai danni di bambini, persone anziane e persone con disabilità.
Ora, per quanto nel citato emendamento l’uso della videosorveglianza sia abbastanza circoscritto (non è obbligatorio, riguarda solo le scuole dell’infanzia e non le altre, non consente un controllo quotidiano: si veda, a tal proposito, la rigorosa scheda sulla materia pubblicata dal Servizio HandyLex.org), rimangono in piedi alcune domande di fondo: quali effetti possono produrre questi meccanismi di controllo? Sono utili ed efficaci nella prevenzione e/o nel contrasto alla violenza?
Gli/le insegnanti che lavorano nelle scuole dell’infanzia, e chi svolge ruoli di cura in strutture per anziani e persone con disabilità, vanno controllati? Alla fine, se non hanno niente da nascondere, perché no?

Il 4 giugno scorso il sito del «Corriere della Sera» ha rilanciato questa notizia: Botte a figlia disabile, gli inquirenti: “La chiamavano scimmia, potevano arrivare a ucciderla”. Il fatto è accaduto a Milano, due genitori, entrambi ventinovenni e di origine egiziana, sono stati fermati perché picchiavano e insultavano la figlia disabile di quattro anni. «La chiamavano scimmia, dalle intercettazioni abbiamo temuto che potessero uccidere la bambina», ha raccontato ai media Marco Ciacci, comandante della Polizia Locale, che ha aggiunto: «Siamo di fronte a una situazione di degrado, soprattutto la madre aveva un sentimento di avversione nei confronti della figlia».
Il 6 giugno un’altra notizia terrificante è stata pubblicata dalla testata giornalistica «Fanpage.it»: Ti scanno come una capra”: picchia e minaccia il padre disabile per avere denaro. Siamo a Cisterna, in provincia di Latina, dove un quarantasettenne del luogo ha rivolto botte e minacce al padre, invalido al 100%, per avere i soldi con cui acquistare droga, alcol e sigarette.

Questi sono solo gli ultimi dei tanti episodi che mostrano come le violenze ai danni di bambini, persone anziane e persone con disabilità accadono spesso anche dentro le mura domestiche.
Perché dunque non installiamo telecamere anche nelle case in cui abitano bambini, anziani e persone con disabilità? La violenza domestica è meno grave di quella che si consuma nelle scuole e nelle strutture? Se familiari e caregiver non hanno niente da nascondere, perché no?
No, perché chi scrive è la caregiver familiare di una persona con disabilità e non vuole essere guardata con sospetto per il solo fatto che altri/e caregiver e altri/e familiari hanno agito violenza nei confronti delle persone delle quali avrebbero dovuto prendersi cura.
No, perché non ho niente da nascondere, ma mi sentirei mortificata da questa sorta di sfiducia preventiva.
No, perché quell’occhio che mi guarda non lederebbe solo la mia privacy, ma anche quella della persona con disabilità di cui mi curo e che rispetto.

Immagino che anche chi insegna e svolge lavori di cura provi questi stessi miei sentimenti. Lo ha spiegato in modo abbastanza chiaro, su queste stesse pagine, il pedagogista e formatore Mario Paolini. Installare le telecamere in un luogo è come dire a coloro che vi soggiornano «non mi fido di te!». Se questo tipo di messaggio scaturisse da qualche elemento oggettivo, qualche indizio che fa sospettare situazioni di maltrattamento, abuso e violenza, esso sarebbe giustificato e doveroso, ma in assenza di tutto ciò, ha il solo effetto di minare la possibilità che si instaurino relazioni serene, e che si creino ambienti di lavoro confortevoli. Mi sembra un pessimo modo di interagire. Non che la fiducia vada concessa a buon mercato, intendiamoci, ma neanche che vada negata a priori. La fiducia va costruita lavorando assieme e valutando di volta in volta le diverse situazioni. Ecco, io credo che per prevenire la violenza sia necessario costruire contesti di fiducia.

Il lavoro di cura – sia quello svolto dagli operatori, sia quello svolto dai/dalle caregiver – contiene in sé un’ambiguità e un’ambivalenza.
Può essere il più formidabile strumento di libertà: penso, ad esempio, alle meravigliose e lungimiranti riflessioni sull’assistenza autogestita espresse dalle persone con disabilità che promuovono la filosofia delle Vita Indipendente.
Ma può anche essere il più feroce dei sistemi oppressivi: penso, e lo scrivo con dolore, ad alcune persone che ritengono che il solo fatto di essere genitori li/le autorizzi a controllare qualsiasi aspetto della vita dei propri figli con disabilità, nella convinzione che tra protezione e libertà debba essere sempre la prima ad avere la meglio. Eppure si parla tanto di “Dopo di Noi”, come possiamo immaginare un “dopo” se non siamo disponibili a credere che anche altri/e possano supportare adeguatamente i nostri figli e le nostre figlie? Se sentiamo il bisogno di controllarli, questi operatori e queste operatrici, prima ancora che abbiano fatto qualsiasi cosa?

La videosorveglianza non è un deterrente efficace per la violenza, né la previene (se, come generalmente accade, i filmati non sono visionati in tempo reale, ma in un momento successivo).
I filmati, però, possono rivelarsi utili a documentare i fatti nei casi in cui siano segnalazioni, esposti e denunce di situazioni di maltrattamento, abuso e violenza. Cosa che veniva fatta anche prima che venisse approvato l’emendamento.
Mi occupo di violenza da una decina d’anni, in particolare di quella nei confronti delle donne con disabilità, e ho maturato la convinzione che l’unico modo serio per prevenire la violenza stessa consista nello studiare il fenomeno, e nel realizzare interventi educativi rivolti in via prioritaria alle persone con disabilità e a tutti coloro che, a vario titolo e per i più diversi motivi, hanno a che fare con esse, e in seconda battuta a tutta la popolazione.
La violenza ha una matrice culturale ed è questo il terreno sul quale dobbiamo lavorare. Non ci sono scorciatoie, qualsiasi Centro Antiviolenza lo può confermare. Chi dice il contrario sta perseguendo altri interessi, certo non quelli di chi è a rischio di subire violenza, né di coloro che l’hanno già subita.

Nel 2016 sembrava pensarla così anche la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che nel testo pubblicato da «Superando.it» con il titolo Videosorveglianza: pseudo-soluzione eclatante e demagogica ?, bollava la proposta di videosorveglianza negli asili-nido, nelle scuole d’infanzia e nelle strutture sanitarie e sociosanitarie destinate alle persone anziane o con disabilità come «pseudo-soluzione eclatante e demagogica» e argomentava: «Sono necessarie invece norme operative certe in termini di prevenzione e contrasto agli abusi, dei trattamenti degradanti, delle negligenze, dell’eccesso di sedazione, dell’abuso della contenzione, incidendo sulla formazione del personale, sull’aggiornamento continuo, sullo sviluppo delle competenze, sulla preparazione nella gestione dei cosiddetti “comportamenti problema”, sull’adozione di strumenti e metodi per il benessere degli operatori. Ed ancora, sulla trasparenza delle strutture e sul loro rapporto con il territorio di riferimento e la chiusura delle strutture segreganti. E promuovendo la reale inclusione delle persone con disabilità».
Sennonché nel 2018 il Congresso Nazionale della stessa Federazione ha approvato una mozione (Mozione particolare per la costituzione di una “commissione permanente per la tutela dei diritti delle persone con disabilità intellettiva” nei processi di regolamentazione delle strutture socio sanitarie [disponibile a questo link, N.d.R.]), che impegna la FISH a lavorare per l’«inserimento obbligatorio delle telecamere di videosorveglianza come requisito per tutte le strutture che ospitano disabili mentali». Posizione confermata anche in un recente comunicato.
Da «No, grazie» a «inserimento obbligatorio» c’è una bella distanza. Sarebbe quindi interessante capire come ci si sia arrivati. Per quel poco che può valere la mia opinione, non condivido questa scelta.

Caregiver, curatrice della Sezione di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), in tema di Violenza nei confronti delle donne con disabilità.

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