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Solo una comunicazione senza stereotipi può contrastare certe truffe in rete

Sergio Staino in esclusiva per «DM», giornale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione

Disegno di Sergio Staino, realizzato in esclusiva per «DM», giornale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione

Solidarietà, pietà e ammirazione. Sono questi i tre principali sentimenti che la maggior parte della gente prova quando legge notizie riguardanti le persone con disabilità sui social network. D’altronde, la rete non è altro che lo specchio della realtà e, si sa, la nostra realtà disegna ancora chi convive con un’esigenza particolare (fisica, cognitiva o sensoriale) come una vittima da compatire oppure un eroe da osannare.

Lo sanno bene quelli che guadagnano soldi (e tanti!) grazie a queste emozioni. Chi sono? Gli amministratori di pagine, gruppi o profili che, in rete, diffondono immagini strappalacrime accompagnate da storie costruite per attrarre click con frasi del tipo: «Non mi vergogno a condividere questa foto. E tu?»; oppure «Se non sei insensibile, condividi!».
In breve, ogni metodo è utile ad attirare l’attenzione dello sbadato utente dei social network per invitarlo a compiere un’azione facile, bonaria e gratuita: «Condividi questo post». È una strategia commerciale che, infatti, sfrutta i temi più disparati: malattie terminali, bambini, anziani, persone decedute, genitori, immagini sacre ecc. In questo tipo di truffe, però, l’argomento più usato è, senza dubbio, quello della disabilità.

Chiunque frequenti i social network avrà incrociato questi inviti, anche per sbaglio. Mentre si scorre sulla home page, infatti, è facile trovare la foto di una bambina con sindrome di Down, abbinata a un «Ciao a tutti, mi chiamo TERESA, e vi lascio un bacino. Aspettando un vostro salutino, non siate razzisti, basta anche un piccolo CIAO!». Immancabile, poi, è la foto della donna in carrozzina con il suo «Ciao a tutti sono MIRELLA e mio marito mi ha lasciato perché sono in questa condizione. Posso ricevere almeno un ciao da te? Grazie a chi lo farà e condividerà!».
Ovviamente, come tanti altri, Teresa e Mirella sono nomi inventati dai truffatori, così come lo sono i loro appelli. In realtà, solitamente, i volti ritratti corrispondono a individui cui hanno rubato identità e immagini che, all’oscuro di tutto, diventano i testimonial di qualche trappola online.

Ma perché si organizza tutto ciò? È un gioco? No, è un business! Sì, perché creare pagine web che diffondono bufale e fake news può essere molto redditizio, grazie alle migliaia di condivisioni che generano.
Il meccanismo è semplice. Gli amministratori pubblicano la foto su uno spazio web che ambisce a raccogliere milioni di like, per guadagnare sui click e sulla vendita di spazi pubblicitari a pagamento. Ogni tipo di interazione o visualizzazione sulla foto, infatti, fa intascare soldi a chi la pubblica. Più ne riceve, più ottiene popolarità e denaro. E quanto si guadagna? Secondo quello che dichiarano i truffatori pentiti, una bufala letta da 500.000 persone può portare un incasso di 1.000 euro perché, in media, si ottengono 2 euro ogni mille visualizzazioni.
Generalmente, un simile guadagno richiede un’attività breve, all’incirca un paio di giorni. In tutto questo, l’utente è un complice inconsapevole perché condivide senza riflettere. D’altro canto, pensa, «non mi costa nulla. Perché non dovrei aiutare?». In realtà, non dovrebbe perché contribuisce al successo del post e della pagina da cui proviene, con la conseguenza che i suoi amministratori possono far diventare virali le future notizie false e pericolose.

I grandi colossi tecnologici stanno correndo ai ripari utilizzando filtri sulle notizie controverse, ma i creatori di fake news hanno già trovato nuovi modi per allungare la loro vita sul web. Tra questi, la strategia più usata è quella di accostare annunci falsi a contenuti più credibili e, per ingannare i lettori più distratti, si utilizzano domìni che imitano il nome di testate note e autorevoli.

Nessuno può dirsi salvo dalla condivisione. Molti si illudono di non cascarci, perché associano le fake news a un pubblico dal livello d’istruzione poco elevato o dall’analfabetismo digitale. In realtà, i titoli accattivanti non fanno leva sulla competenza, ma sull’emotività che è stimolata da notizie legate a rabbia, odio o pietà. È quindi possibile controllare gran parte delle notizie con la ragione, ma la mente può confondersi quando il flusso delle informazioni è troppo intenso.

Pertanto, come ci si può difendere? Ognuno, nel suo piccolo, può fare qualcosa: Non condividere, non commentare, avvisare i propri contatti e segnalare le fotografie come spam.
Tuttavia, questo non basta. La vera sfida a questa diffusa ignoranza sulla disabilità è quella affidata ai divulgatori (comunicatori, giornalisti, pubblicitari, insegnanti ecc.) perché, ad esempio, soltanto loro possono far capire che: una bimba con sindrome di Down non è necessariamente una bimba sola, ma può anche essere benissimo una top model; e che una signora in carrozzina può separarsi dal marito proprio come succede alle altre donne, ma non necessariamente a causa delle sue care quattro ruote.

È indispensabile la formazione di un pubblico informato sulla disabilità, in tutti gli àmbiti della vita sociale. Può garantirla soltanto una comunicazione senza stereotipi che racconti le persone, non più le “categorie”. E le persone possono essere alte o basse, belle o brutte, simpatiche o antipatiche, istruite o ignoranti, carnali o spirituali, ottimiste o pessimiste ecc. Ogni individuo è diverso dall’altro, anche le persone con disabilità lo sono. Bisogna comunicare questo, per “umanizzarle”, uscendo dai cliché. Se si riuscisse a farlo capire davvero a tutti, si potrebbe contrastare anche la discriminazione celata dietro quelle frasi zuccherose e condizionanti che tanto favoriscono le truffe online.

Giornalista, presidente dell’Associazione Diritti Diretti. Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Il business delle fake news sulla disabilità che sfrutta la solidarietà”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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