Che si stia facendo strada il “virus della diagnosite”?

«È da poco iniziata la scuola – scrive Claudia Trombetta – e come tutti gli anni, nel corso dell’ultimo decennio, ci confrontiamo nuovamente con un notevole incremento di bambini e ragazzi iscritti a scuola con diagnosi di disabilità. Molti esultano per il presunto miglioramento dei criteri e delle competenze diagnostiche e per le grandi possibilità di aiuto che questo aumento di diagnosi sembra offrire, ma è possibile che così tanti bambini stiano diventando disabili? La disabilità è diventata forse “virale”? O non siamo per caso noi che ci stiamo ammalando con il “virus della diagnosite”?»

Bimbo alla lavagna con aria corrucciataÈ da poco iniziata la scuola e come tutti gli anni, nel corso dell’ultimo decennio, mi sono nuovamente confrontata con un notevole incremento di bambini e ragazzi iscritti a scuola con diagnosi di disabilità.
Molti esultano per il presunto miglioramento dei criteri e delle competenze diagnostiche e per le grandi possibilità di aiuto che questo aumento di diagnosi sembra offrire. Io ne rimango poco convinta. Possibile che così tanti bambini stiano diventando disabili? La disabilità è diventata forse “virale”? O forse c’è un altro virus che si sta diffondendo nel mondo adulto e specialistico: non siamo per caso noi che ci stiamo ammalando con il “virus della diagnosite”?

Mi pare chiaro che oggi viviamo in un contesto storico-culturale frenetico, “liquido”, per dirla con Bauman, e caotico, che favorisce disagio psicologico, sociale ed educativo. Ne consegue che le nuove generazioni ne subiscono la pressione, manifestando difficoltà, rallentamenti nel percorso di crescita, comportamenti problematici di vario tipo (relazionali, sociali, emotivi…).
E tuttavia mi sembra pericoloso reagire a questi bisogni e a queste richieste di aiuto di bambini e ragazzi attraverso l’erogazione di un’etichetta diagnostica che, spesso, a fronte di una categoricità nella definizione, offre ben poche informazioni sul funzionamento e sui bisogni di quel singolo e unico bambino a cui si riferisce e lo incasella in un ruolo da cui sarà molto difficile uscire, perché una diagnosi di disabilità “è per la vita” e la psicologia ci insegna quanto sia faticoso liberarsi dalle profezie che si autoavverano.

Purtroppo temo che le diagnosi di disabilità si stiano diffondendo perché la diagnosi categoriale (la cosiddetta “etichetta diagnostica”) è la strada maestra per ottenere risorse aggiuntive in termini di educatori e insegnanti di sostegno e apparenti facilitazioni (misure compensative e dispensative). Permette a noi adulti di “tirare il fiato” di fronte a situazioni di disagio e a difficoltà che spesso facciamo fatica a comprendere e gestire.
Ma siamo sicuri che questi vantaggi siano più significativi nel percorso di crescita di un bambino dello svantaggio prodotto da un’etichetta diagnostica? Siamo sicuri che sia l’aiuto migliore che possiamo offrire alle nuove generazioni?
Sono domande che pongo con il desiderio di interrogarci sinceramente su questa questione che sembra dilagare senza suscitare perplessità e resistenze. La diagnosi è uno strumento sacrosanto che aiuta a conoscere meglio un bambino in difficoltà, ma un’etichetta diagnostica elargita con troppa facilità non favorisce la conoscenza, perché ingabbia la persona e spesso non permette aiuti specifici e mirati.

In verità, negli ultimi anni le reazioni a tale processo di patologizzazione emergono da più fronti. Ci sono esponenti del mondo della pedagogia, come Daniele Novara e Andrea Canevaro, che richiamano alle potenzialità educative del mondo adulto, per prendersi cura dei diversi tempi e modalità di crescita e di apprendimento dei bambini.
Ci sono autorevoli esponenti del mondo della psichiatria, come Allen Frances, con il suo libro Primo: non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie [Torino, Bollati Boringhieri, 2013, N.d.R.], che pongono forti sollecitazioni critiche alla comunità scientifica internazionale sul tema dell’epidemia delle diagnosi psicopatologiche.
Ci sono alcune voci in àmbito psicologico, come Daniela Lucangeli, che sottolineano la necessità di distinguere tra patologia e difficoltà, se è vero che queste ultime possono essere superate con adeguati interventi psicologici, didattici ed educativi, senza giungere alla produzione di diagnosi categoriali etichettanti.
Nonostante questo, noto con dispiacere che le diagnosi anche quest’anno sono notevolmente aumentate nei territori e nelle scuole in cui lavoro e mi capita spesso di incontrare bambini bizzarri, iperattivi, relazionalmente insicuri, emotivamente fragili, che vanno aiutati a superare le loro difficoltà e a trovare il loro posto nel mondo della scuola. Ma non credo che la strada giusta sia offrire loro un’etichetta diagnostica di disabilità, per sostenerli nel superare queste fatiche esistenziali, perché gli svantaggi sono troppi e spesso invalidanti rispetto ai vantaggi che questa strada consente.

Consapevole che queste scarne riflessioni potrebbero creare più perplessità che comprensione sulla complessità del fenomeno, suggerisco anche, per approfondire il tema, la lettura di un mio più ampio testo (disponibile a questo link), con la speranza di dare il mio piccolo contributo nel rallentare questa corsa diagnostica, ormai definita allarmante da più osservatori.

Psicologa e psicoterapeuta, mamma di una ragazza con sindrome di Down.

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