La storia di Omar, che aiuta a dare un senso al proprio dolore

«Ci sono storie come quella di Omar Spurio – scrive Antonio Giuseppe Malafarina – che tendendo al peggio e smentendosi con successo sono belle da raccontare. Sono testimonianze che ti spingono a pensare: ma che diritto ho io a lamentarmi di fronte a esperienze tanto difficili affrontate con una forza d’animo incredibile? Ogni dolore merita il suo rispetto e ogni dolore ha la sua dimensione, ma pensare a quello che ci manca invece che a quello che si ha è un invito all’autolesionismo. Bella la lezione di Omar: diamo un senso al nostro dolore»

Realizzazione di Massimo, Silvia Modigliani e Michele Sala

Realizzazione di Massimo Caviglia, Silvia Modigliani e Michele Sala, in esclusiva per «DM», giornale della UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Per gentile concessione

Ci sono vite che tendendo al peggio e smentendosi con successo sono belle da raccontare. Sono testimonianze che ti spingono a pensare: ma che diritto ho io a lamentarmi di fronte a esperienze tanto difficili affrontate con una forza d’animo incredibile? Vi racconto una storia: c’era una volta…
Omar Spurio, che parlava con un simpatico accento romanesco ed era fissato coi numeri. C’era e c’è ancora, quindi ne parliamo al presente. Omar ha ben donde della sua fissazione, perché la sua è una vita costellata di circostanze che fanno pensare esista un destino. E se non siamo portati a credere nel destino, certe concatenazioni stuzzicano la nostra interiorità nella tentazione di dare alle date un senso mezzo logico e mezzo trascendente, a seconda della convenienza.

Omar nasce a Roma nel 1981, il suo nome è scelto in quanto anagramma della città eterna e, dando un’occhiata in internet, su di lui si può leggere:
«1995, morte di mio padre, 14 anni; 1998, scoperta della mia insufficienza renale cronica, 17 anni; 1999, inizio assunzione di droga (hascisc, cocaina, pasticche d’anfetamina), 18 anni; 2000, mia madre si ammala di tumore, va a vivere dalla nonna e io vivo da solo, 19 anni; 2001, morte di mia madre, 20 anni (e diploma di istituto alberghiero); 2004, dialisi da gennaio; a luglio trattamento sanitario obbligatorio per disturbo bipolare con tre mesi di ricovero, 23 anni; 2005, vado a vivere da mia nonna, ottantunenne, per più di due anni senza avere rapporti con nessuno a causa della “vergogna” che sentivo per il disturbo bipolare; 2006, a settembre vengo operato per l’asportazione delle paratiroidi e nell’occasione si scopre un tumore maligno alla tiroide in stato avanzato; a ottobre nuova operazione per l’asportazione della tiroide, 25 anni; 2008, svariate operazioni alle braccia, causa chiusura dell’accesso vascolare che permetti ai dializzati di poter fare dialisi, 27 anni; 2010, entro in lista trapianto, a giugno ricevo un’ingente somma di denaro dall’INPS per arretrati della pensione d’invalidità e lo stesso giorno vengo ricoverato d’urgenza al Gemelli per una nuova operazione alle braccia; a ottobre il trapianto di rene; 2011, a giugno torno a vivere a casa mia, insieme a mia nonna, e faccio un viaggio a Maiorca dopo il trapianto, 30 anni».

Da qui in avanti una serie di viaggi, con la nonna che si trasferisce in una casa di riposo e Omar che inizia a vivere da solo a 33 anni.
I viaggi assumono un aspetto importante nella vita del nostro protagonista, ma l’elenco delle sue sventure è nutrito quanto basta per indurre a gesti scaramantici o a quella riverenza che scatta quando sentiamo di sciagure capitate ad altri e vissute in chiave positiva.
Omar grazie al trapianto non deve più fare la dialisi. Superati i problemi legati al disturbo bipolare e quelli di tossicodipendenza, resta una persona che ha convissuto con più disabilità ed è malata cronica.
Racconta: «La vita di ognuno di noi è costituita dalla dualità: il caldo e il freddo, l’amore e l’odio, la salute e la malattia… Comprendiamo il significato di una parola quando esiste il significato opposto. Senza la sofferenza del passato, non avrei potuto apprezzare in fondo l’attuale salute. La consapevolezza è la chiave: si acquisisce bene consapevolezza di quanto si possiede quando per tanto tempo non si è avuto. So la forza che può dare un sorriso durante il dolore».

Poi c’è la questione delle coincidenze: «I miei genitori sono morti lo stesso giorno a sei anni di distanza, come se dovessero restare uniti anche nel giorno della morte, dopo una vita di intenso amore. Il tumore mi è stato asportato nella stessa data in cui quattro anni dopo sarei stato trapiantato, come se i momenti della mia rinascita dovessero essere collocati nello stesso giorno. Magia, destino? Ognuno interpreti come vuole. Morte e vita si sono scambiati i ruoli in questa data».

E ancora, i viaggi: «Per anni sono stato costretto alla dialisi per vivere: tre volte a settimana, per quattro ore ogni seduta e di conseguenza non avevo la possibilità di viaggiare. Ricordo molto bene la frustrazione di quel periodo: sognavo di partire e di scoprire il mondo e invece non potevo. Devo tutto a una persona che non c’è più di cui non conosco il nome, che mi ha donato una parte di sé. Esiste paradosso più grande? Viaggiando cerco di onorare al meglio la memoria di questo ragazzo e di ringraziarlo per il suo dono».

Quindi l’altruismo: «L’importanza di dare una mano agli altri è qualcosa che viene da dentro. Rivivere tutti i miei dolori, le cadute e la mia rinascita attraverso il libro che sto preparando è stata un esigenza che è venuta da dentro. Raccontare la mia storia vorrei che accendesse nei lettori la scintilla per iniziare a credere veramente in loro stessi. Allora sarò un uomo migliore, perché avrò aiutato qualcun altro a modo mio».

Parlare con Omar Spurio è un’esperienza: trasmette vitalità in continuazione. Spero di poterla leggere presto nel suo libro. Intanto torno al quesito di partenza: è giusto piangere delle nostre “piccole” disavventure in proporzione a quelle di gente come Omar?
Ogni vita è a sé. Ogni dolore merita il suo rispetto. E ogni dolore ha la sua dimensione. Essere piagnucoloni è improduttivo, se non controproducente. Pensare a quello che ci manca invece che a quello che si ha è un invito all’autolesionismo. Ma non lamentarsi per un foruncolo sul volto può essere inumano.
Bella la lezione di Omar: diamo un senso al nostro dolore.

Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “La democrazia del foruncolo”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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