Cerchiamo di non essere mai lo sguardo dell’altro

«Inutile mostrare grandi paratleti, fantastici modelli di vita – scrive Rosa Mauro, prendendo spunto da chi continua a chiedere di suonare il pianoforte ad Ezio Bosso, nonostante le sue difficoltà -, se quando il cambiamento riguarda qualcuno che consideriamo “uno di noi” non lo accettiamo davvero. Che tu sia un artista, una casalinga, un giornalista o un attore, devi essere accettato per come sei, non per come gli altri vogliono che tu sia. Tutti siamo Unici, su una sedia, a un pianoforte, o senza di esso, senza mai dover cercare di essere lo sguardo dell’altro»

Ezio Bosso

Il direttore d’orchestra, compositore e pianista Ezio Bosso

Per scrivere questo pezzo, ci ho messo del tempo. Direi parecchio, per i miei standard, tanto che devo ricordare da dove esso è nato.
A settembre ho letto una dichiarazione del direttore d’orchestra, compositore e pianista Ezio Bosso, sulla sua difficoltà a continuare a suonare il pianoforte. Bosso spiegava qualcosa di molto semplice, che gli era difficile suonare, perché provava dolore nel farlo. Ovviamente non intendeva solo dolore fisico, ma anche il dolore di avvertire intorno un’aspettativa delusa, la sua per primo. Il suo dolore più grande, però, era che la gente continuava a chiedergli di suonare il piano, ignorando la sofferenza, ignorando il cambiamento.

Questo mi ha fatto indignare prima e pensare poi. Perché è successo anche a me – e potrei scommettere anche a molti altri – di sentire quello sguardo degli altri, quella mancata accettazione di un corpo che cambia.
Spesso sono persone che lo fanno in buona fede: ti vedono in piedi, che soffri come un cane aggrappata “come Cita” ai mobili, e ti sorridono dicendoti apertamente quanto ti vedono bene, e quanto sono felici che tu sia ancora come loro. Ma tu non sei più come loro e non sei più come eri prima. Forse nei tuoi sogni lo sei ancora, ma il tuo corpo è ormai irrimediabilmente cambiato, e tu lo devi accettare.
Ogni volta che ti dicono di fare qualcosa che ti provoca dolore, e che non ti rappresenta più, lo sguardo degli altri ti uccide un poco. Sono sicura che è quello che intendeva anche Bosso: state continuando a guardare qualcuno che non sono io, che non posso più essere io. Ed io, per accontentarvi, visto che me lo chiedete, che pensate che sia il modo in cui devo essere, mi metto al pianoforte e sopporto il dolore, quello derivato dalla malattia, ma anche quello causato dal fatto che chi suona non sono più io, non è più il mio corpo.
È come se i suoi spettatori ripudiassero ciò che è ora, e ciò che lui può dare alla musica, che magari non è più suonare al piano, ma è comporre, è pensare e dirigere, finché potrà farlo.
E purtroppo lo sguardo degli altri, durante il cambiamento che una disabilità progressiva comporta, è proprio ciò che frena, è una ferita a volte peggiore del male stesso.
Se tutti smettessero di parlare di “costretto alla sedia a rotelle”, se tutti accettassero il cambiamento dove è inevitabile, un grande passo in avanti verso l’uguaglianza sarebbe fatto. Inutile continuare a mostrare grandi paratleti, fantastici modelli di vita, se poi quando il cambiamento riguarda qualcuno che consideriamo “uno di noi” non lo accettiamo davvero. Se io non posso più fare le scale, non ammirate Bebe Vio, ma pensate ai locali da costruire, alle cose da fare, che non comportino queste barriere architettoniche.
Accettate che Bosso possa suonare altra musica, in altro modo, non costringetelo ad essere quello che voi volete sia, perché avete paura di quella fisicità, di quel cambiamento. Sarebbe come pretendere che una roccia divenuta sabbia torni roccia, rimpiangendone quella forma che ormai non possiede più.

La paura del cambiamento non può causare dolore, il cambiamento avviene in molti modi, ma devono essere accettati, per andare avanti e fare andare avanti.
Non riesco a contare le volte che ho sentito dire di qualcun altro: «sapessi com’era bravo prima», «com’era bella», «com’era intelligente»… Questo significa sempre sminuire la vita di quella persona per come è ora, è uno sguardo miope che non riesce a guardare ciò che è veramente davanti.
Se le gambe non mi reggono più in maniera efficiente, la sedia o lo scooter mi restituiscono una libertà che altrimenti, semplicemente, non avrei. E se stare in piedi mi procura dolore, per me stare in piedi non significa affatto libertà e sicurezza, non mi identifica più per ciò che sono ora.
Se Bosso non riesce più a muovere le dita su un pianoforte senza provare dolore, se da esse non scaturisce più l’armonia che vorrebbe, non potete e non dovete chiedergli di farlo. Accettate il suo cambiamento, cambiate lo sguardo che avete su di esso.
Lo sguardo degli altri dev’essere aiuto, dev’essere complicità e accoglienza, perché questo significa società. Non è essere perfetti, ma essere accettati nella propria unicità.
E l’unicità può cambiare nel tempo, non sono quella che ero io, forse non sarò un domani ciò che sono oggi. Che tu sia un artista, una casalinga, un giornalista o un attore, nella vita quotidiana come nella vita sociale, devi essere accettato per come sei, non per come gli altri vogliono che tu sia.
Lasciamo che Bosso decida da solo se vuole sedersi o meno a quel pianoforte, e amate la persona per come è, non per come volete che sia. Sarà un grande guadagno, perché ognuno di noi smetta di essere gli altri.
Tutti dobbiamo e possiamo essere Unici, su una sedia, a un pianoforte, o senza di esso. Davvero è questo il bello di essere vivi di una vita vera, che cambia ogni giorno. Cerchiamo di non essere, mai, lo sguardo dell’altro.

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