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Da un docente amareggiato, ma che ancora ci crede

Studente con la testa china sul banco di scuola

«Si assiste di fatto – scrive Giovanni Maffullo – a una lenta rinuncia, quella di concorrere alla crescita di neo-generazioni di cittadini più preparati ad essere uomini e donne di questo mondo, che sta subendo un cambiamento epocale»

Pur essendo in affanno, si continua a sentire dai Ministri che occupano il Dicastero dell’Istruzione che nella scuola c’è bisogno di rinnovamento. Vorrei dunque seguire la scia di questo leitmotiv per cercare di fare un ragionamento sulla reale disponibilità mentale di voler porre in essere un processo di cambiamento reale e non solo dichiarato-annunciato.

Abbiamo appena assistito, qualche settimana fa, all’ennesimo ricambio alla guida del Ministero: sono raddoppiati i Ministri competenti, facendo passare un messaggio a mio avviso molto grave: la formazione è fatta “a segmenti”, ci si forma a step: prima a scuola poi all’Università (qui non va dimenticato che l’educazione è stata fatta a pezzi da tanto tempo, anche in relazione al fatto che le famiglie faticano a educare in questa neo-era della globalizzazione e la scuola, il mondo adulto, ha abdicato a favore dell’educazione mediata dai social network).
Innanzitutto la coerenza da riconoscere al ministro uscente Fioramonti, che sin dal proprio insediamento aveva dichiarato pubblicamente che qualora non si fosse proceduto, in sede di Manovra Finanziaria, a introdurre un trend volto a sostenere economicamente scuola e università, si sarebbe dimesso. Subito dopo, comunque, il Presidente del Consiglio ha rassicurato tutto il popolo: al posto di un Ministro ce ne saranno due.
Certo, ritengo assurdo quanto sta accadendo in termini di messaggio inviato alla cittadinanza: l’istruzione non interessa, su di essa non si investe e sul futuro del Paese men che meno. Sui giovani, che pur rappresentano il nostro vero futuro, non si vuole capitalizzare alcunché, figuriamoci se si vuole investire su chi concorre alla loro formazione, cioè gli insegnanti…

È ora di indignarsi sul perché si preferisce non occuparsi seriamente della crescita e valorizzazione della popolazione giovanile, volta a garantire potenzialmente la conservazione della nostra civiltà e anziché sostenere i giovani, facendo sì che credano in loro stessi e nel Paese in cui sono nati e cresciuti, si invia loro un chiaro messaggio: aspettate! Formatevi a step, poi investite sulla vostra flessibilità mentale e adattatevi a tutto quello che il mercato vi offre: i “lavoretti”. Mettetevi a farne qualcuno e sperate di avere un contratto.
È così che sosteniamo i nostri giovani “normodotati”? E con coloro che sono disabili, come investiamo?

I nostri ragazzi, studenti delle superiori, in modo particolare negli Istituti Professionali e Tecnici, da anni stanno interiorizzando un vissuto negativo dettato dall’insicurezza socio-lavorativa, che retroagisce su di loro in termini di demotivazione allo studio; semplicemente ci dicono «Ma chi ce lo fa fare?». Non è più un sentire soggettivo, è un sentire collettivo che dilaga.
Questo mi sembra essere il frutto di un meccanismo naturale: se gli adulti vicino a loro – leggasi docenti – non sostengono la speranza di un cambiamento, che dev’essere anche culturalmente rivoluzionario, come possono i ragazzi crederci?

Ma cosa sta esattamente succedendo a scuola con gli adolescenti, fra i banchi delle aule?
Eccezion fatta per talune avanguardie (o retroguardie?) di adulti che credono ancora nella loro azione educativa, intesa come un agire quotidiano sfidante, vi è un dilagante senso di sfiducia, di fatalismo, che nei ragazzi non sostiene le loro potenzialità ideative.
In teoria gli adolescenti, con cui vengo a contatto quotidianamente, sono nel pieno vigore biologico e fisico, hanno una potenzialità intellettuale che va spinta ad esprimersi, e allora mi chiedo: perché non riescono ad esprimere tutto il potenziale presente nella loro mente e nel loro cuore? Non è per caso necessario – e qui sta la sfida dell’educatore, docente in primis – inviare messaggi e testimoniare con azioni il nostro agire giornaliero? Non è che noi adulti-docenti dobbiamo anche concorrere a far sì che gli adolescenti-studenti abbiano a capire che, per essere persone facenti parti di una Comunità, è indispensabile vivere una vita intensa, cioè piena e motivante? Non è necessario che noi educatori abbiamo a trasmettere ai giovani alunni delle superiori vissuti di congruenza con il nostro essere professionisti affinché anche loro possano crederci? Dobbiamo noi cittadini-adulti narrare e testimoniare che ciò che facciamo con loro è importante per noi? Dobbiamo, noi insegnanti, professare il fatto che la formazione personale è importante per governare il proprio modo di vivere nel nostro Paese? Se non testimoniamo più, con i buoni esempi in vivo, è ovvio che si affermino i disvalori.

Noi adulti concorriamo a creare un clima culturale in cui pare che la speranza non abbia più la dignità di esistere. Non vedo pubblicità governativa che sostenga l’importanza dell’essere cittadino responsabile, non vedo né sento che la Costituzione Italiana dovrebbe essere per ogni cittadino una guida, al pari dei Vangeli per il cattolico. Assisto invece a continue sollecitazioni consumistiche per i nostri ragazzi che, sensibili a tali messaggi – il possedere fa gola, l’avere l’ultimo modello di smartphone è stimolato costantemente da input che viaggiano nell’etere, oltre che via cavo -, sposano il qui ed ora edonistico. Ne consegue che a scuola, in presenza, noi docenti facciamo un’estrema fatica quotidiana a far passare messaggi del tipo: l’impegno è importante, la coerenza è fondamentale, le idee “sane” di cui è intrisa la Costituzione Italiana vanno difese e sostenute nel lavoro quotidiano al fine di divenire cittadini responsabili oltre che attivi. E allora… evviva la coerenza dell’ex Ministro!

Con un senso di inadeguatezza, connesso forse a un senso di impotenza appresa dal contesto scolastico in cui opero direttamente e ai contesti che indirettamente conosco pure bene, mi chiedo costantemente come, in veste di docente, in prima persona, possa far passare valori come quelli della partecipazione, della cooperazione e della collaborazione.
Grazie anche alla marcata presenza della diversità che oggi, nelle classi eterogenee, è variegata, cerco di svolgere la mia mansione-docente, facendo leva sui cosiddetti alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali). In altri termini, grazie a una realtà di neurodiversità insita in ciascuno studente, agisco valorizzando la componente socio-relazionale che è un fattore imprescindibile umano. Sì, è proprio così: l’interazione fra persone e la comunicazione, nelle varie forme, da attuarsi soprattutto in presenza, mi sta aiutando a offrire ancora un messaggio di speranza: insieme ce la possiamo fare a cambiare. La realpolitik, però, prende il sopravvento in me e mi chiedo: com’è possibile non sostenere-aiutare i docenti a credere nella mission suindicata?
È proprio perché ancora mi pongo domande che subentra in me l’amarezza. ma non la rassegnazione e men che meno il desiderio di operare. È proprio così: dobbiamo diventare operosi. Spesso, però, il come fare viene ucciso prima ancora di provarci e ciò è disarmante.

La scuola, proprio perché fatta prima da persone che entrano umanamente in relazione e poi da procedure che regolano il modus operandi “tecnico”, va vissuta con fiducia; ma per avere fiducia occorre credere nell’importanza di ciò che si fa: educare.
Se si vogliono aiutare gli insegnanti, che per difendersi dalla deriva culturale latitano, è necessario riaffermare la centralità del rapporto tra docente e discente. Ed è indispensabile, a mio modesto avviso, che il docente sia messo nelle condizioni di svolgere il suo ruolo principale, che è quello di mediatore della nostra cultura. Bisogna aiutarlo nel lavoro, evitando le cosiddette “classi pollaio”, evitando di relegarlo a un ruolo di tipo tecnocratico, ove le procedure e il tutelarsi come lavoratore dipendente diventano la priorità assoluta.
La paura di rischiare in nome e per conto della sfida educativa riaffiora con forza: «Eh, sai Giovanni, io non sono pagato per rischiare e voglio essere sereno nel mio tran tran». Ecco a cosa spesso il docente si è ridotto; ad accettare il “poco”, a sottoscrivere documenti avallando l’imperativo didattico a discapito di relazioni autentiche, foriere anche di conflitto, ma con il desiderio di crescere insieme, di accettare di andare oltre al quotidiano e iniziare a… sognare.
Qual è l’immediata conseguenza, allorquando alle superiori abbiamo in carico una situazione di disabilità grave, che implica disabilità intellettiva alias ritardo cognitivo? Si fa didattica in classe, nell’“auletta di sostegno”, e si evita di fare uscite didattiche formative sul territorio perché rischiose: «E se lo studente scappa?»; «Sai, è pericoloso uscire e andare al mercato con un alunno autistico»; «Accontentiamoci, siamo riusciti a fargli passare la palla in palestra ai suoi compagni»… Sigh!

A proposito del mortificare il desiderio di… volare. Ai miei due figlioli, quand’erano bambini – ora sono da poco maggiorenni – dicevo di osservare attentamente cosa succede agli umani presenti sulla superficie terrestre: c’è chi è seduto ad aspettare, chi cammina e scopre lentamente il mondo, e chi corre, consapevole di avere individuato ciò che è importante per la propria vita. Quindi li ho sempre esortati a fare una cosa semplice: individuare un obiettivo a lungo termine e, in progress, camminare, accelerare il proprio passo, indi proseguire con una corsa così veloce da pensare di volare. Ma per fare questo occorre credere in  se stessi, avere fatto un bagno di realtà e investire sulle proprie capacità sognando…

Con i nostri studenti con disabilità, riusciamo noi adulti-insegnanti a valorizzare il loro saper fare, indi ad aiutarli a scegliere cosa voler fare da grandi? Grazie a un Progetto di Vita ben pensato, li affianchiamo lungo un sentiero che possa permettere loro di incamminarsi e “correre” verso la loro meta esistenziale?
Credo fermamente sia indispensabile domandarsi cosa può fare per loro la scuola: meglio pochi obiettivi, fondamentali, o perdersi nel mare magnum delle competenze, ridotte ad acronimi da inseguire? Allargando lo sguardo a tutto il panorama degli studenti, i cosiddetti “nativi digitali”, con illimitate possibilità di accesso alle informazioni, riescono a reggere il confronto con le generazioni precedenti in termini di produzione e di comprensione di un testo? L’INVALSI e le indagini OCSE-PISA dicono di no! E come se la cavano in quelle attività che richiedono capacità di astrazione? Se la situazione degli apprendimenti è in lento ma costante declino per tutti i nostri studenti che frequentano le scuole dello Stivale, come possiamo pensare di invertire la rotta? È indispensabile valorizzare le varie diversità presenti, sostenendo al meglio la possibilità di esprimere il modo di essere che emerge dalla loro interiorità; questa va scoperta con una lenta ma incessante attività, volta appunto a tirar fuori il meglio da loro stessi.

Necessita tempo per esplicitare un’azione sistemica che abbia uno sguardo olistico; infatti, è semplicemente avvilente che nel segmento specifico dell’inclusione connesso con la disabilità non ci sia più un senso compiuto educativo e non ci sia una reale condivisione a lungo termine del nostro agire con i nostri studenti con disabilità.
Mi permetto di fare tale affermazione in quanto sono consapevole che le varie competenze che si vogliono far conquistare agli studenti con disabilità si possono conseguire solo se si perseguono a livello personale sotto la spinta dell’interesse (che è alla base della spinta intrinseca, ovvero della motivazione). Solo allorquando l’allievo mette a frutto le conoscenze apprese, ha acquisito ciò che è necessario e lo sa esprimere correttamente, può conquistare un agito competente. Sono persuaso che ci dobbiamo avvicinare al precetto catoniano, Rem tene, verba sequentur (“Possiedi i fatti, le parole seguiranno”).
Se si parte dal concetto che la necessità di sviluppare una cultura inclusiva rappresenta un’evidenza con la quale ogni docente deve confrontarsi, va da sé che la sfida attuale consiste nel trasformare la necessità in opportunità. Sono persuaso che una scuola inclusiva sia uno dei fondamenti di una società culturalmente avanzata, quindi è sempre più cogente far sì che, giorno per giorno, lentamente, ma con perseveranza e tenacia, si tenda sempre più a valorizzare le specificità di ciascuno, costruendo una condizione di vita migliore per tutti. Se non idealizzo e perseguo un progetto individuale inclusivo, come si può pensare di far sì che anche l’alunno con disabilità possa realizzare la propria persona in quanto cittadino italiano?

Per concludere: se è vero che noi docenti abbiamo bisogno di credere di più nel nostro lavoro, al contempo va sottolineato che anche noi, al pari degli studenti con o senza Bisogni Educativi Speciali, abbiamo bisogno di “rinforzi”, e non solo di formazione e stipendio indispensabili, ma anche di riconoscimento sociale. Necessitiamo di un legittimo sostegno sociale affinché la nostra identità professionale non cada in frantumi e solo così saremo in grado di offrire buoni esempi ai nostri giovani. Anche noi, come i nostri alunni, abbiamo bisogno di iniezioni di fiducia.
Al docente di questo secolo non si può solo chiedere, ma occorre anche dare. Personalmente sono contento del lavoro che svolgo e cerco, nel mio piccolo, di continuare ad apprendere, a imparare anche da miei studenti con disabilità, ma per fare ciò devo innanzitutto ascoltarli e poi lavorare con loro, al loro fianco, per sostenerli nel loro percorso formativo. Ho bisogno di incoraggiarli, se desidero che lavorino bene, ma chi incoraggia i docenti a fare bene se ci si limita solo a scrivere norme e a non investire nel futuro professionale?

Ho più di un fondato timore che il processo inclusivo, avviato a livello scolastico da pochi anni – prima si parlava di integrazione, ma mi sembrava si facesse molto di più, pragmaticamente, per e con gli studenti in situazione di disabilità -, rischi di registrare arretramenti, derivanti anche da una mancata crescita culturale.
Il Paese, il Legislatore, l’Esecutivo avranno il coraggio di assumersi la responsabilità di valorizzare quelle risorse umane che quotidianamente affrontano la loro missione educativa o sono importanti solo le missioni di pace delle nostre Forze Armate all’estero?
Non è più possibile sostenere che la sicurezza nazionale all’esterno e all’interno dei nostri confini nazionali ed europei sia importantissima, mentre si assiste, de facto, a una lenta rinuncia a ottenere una più potente sicurezza: quella di concorrere alla crescita di neo-generazioni di cittadini più preparati ad essere uomini e donne di questo mondo, che sta subendo un cambiamento epocale.
No, non ci sto più. Le norme ci sono e potenzialmente sono pure al servizio delle persone, ma vengono depotenziate sotto l’aspetto tecnico-operativo; è proprio l’aspetto pratico che sta impoverendo il tutto, con l’alibi di una crisi economica che ci vuole solo più competitivi, ma più aridi.
Si tratta di una battaglia, di una situazione intrisa dal bisogno di elevare il livello qualitativo della civiltà umana e non solo di quella occidentale, per cui è ora di dire basta a questa deriva culturale e pragmatica dell’inclusione.

Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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