Un patto tra Servizi e Associazionismo, per diritti sociali realmente esigibili

«L’Associazionismo – scrive Fausto Giancaterina – è da sempre impegnato nel promuovere ed esigere – molto spesso con lodevole successo – leggi e decisioni politico-amministrative per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità. Ma questo lodevole impegno non basta più: occorre attrezzarsi per analizzare con intelligenza e capire perché, alla fine, quelle leggi e disposizioni amministrative stentino a concretizzare effettivamente l’esigibilità di quei diritti. Per questo, dunque, occorre un nuovo patto tra Associazionismo e operatori dei Pubblici Servizi»

Realizzazione grafica con due omini che cercano di completare un ponte

«Serve un nuovo patto – scrive Fausto Giancaterina – tra Associazionismo e operatori dei Pubblici Servizi, per concretizzare effettivamente l’esigibilità dei diritti delle persone con disabilità»

L’Associazionismo è da sempre impegnato nel promuovere ed esigere – molto spesso con lodevole successo – leggi e decisioni politico-amministrative per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità. A mio parere questo lodevole impegno non basta più: occorre attrezzarsi per analizzare con intelligenza e capire perché, alla fine, quelle leggi e disposizioni amministrative stentino a produrre benefici e a concretizzare effettivamente l’esigibilità di quei diritti.
Forse è giunto il tempo di occuparsi (o preoccuparsi?) del perché le traduzioni operative delle norme da parte dei Servizi Territoriali, trovino quasi sempre ostacoli, ritardi e a volte vere e proprie omissioni operative, benché siano proprio i Servizi Territoriali che per mandato istituzionale devono esercitare l’insostituibile mediazione organizzativa per l’effettiva esigibilità dei diritti e in particolare dei diritti sociali.
C’è da capire come mai non si riesca ad avere, in modo generalizzato (le eccezioni ci sono sempre!), servizi autorevoli e competenti che lavorino perché i diritti sociali delle persone con disabilità siano visti, riconosciuti ed espressi.
C’è da capire perché non si riesca a organizzare un sistema territoriale articolato e integrato di servizi sociali, sociosanitari ed educativi che garantisca una presa in carico per tutto l’arco dell’esistenza delle persone con disabilità.
La nostra cultura ci spinge verso una forte attenzione per le persone e soprattutto per quelle persone che fanno fatica a tenere il passo: non possiamo rinunciare a promuovere la costruzione del welfare dei servizi, che siano forti mediatori per l’esigibilità dei diritti. È nostra convinzione, infatti, che solo in questa prospettiva arriveremo a costruire scenari inattesi di “bene-essere” per tutti.

La lezione della Legge 112/16
Come già detto, dobbiamo all’Associazionismo dei cittadini/utenti – e principalmente alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) – se oggi abbiamo la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), i Programmi d’Azione 1° e 2 dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, la Riforma del Terzo Settore e la Legge 112 del 22 giugno 2016, che detta, quest’ultima, Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, rese poi operative – con vera saggezza – dal Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016.
Questa Legge ha certamente il pregio di avere fatto proprio quel «cambiamento di paradigma» nell’approccio alla disabilità, che prende le origini dalla Convenzione ONU. E tuttavia, nonostante siano state attivate diverse iniziative promozionali da alcune Associazioni (molte da parte dell’ANFFAS, non ultimo il recente progetto Liberi di scegliere… dove e con chi vivere, realizzato grazie a un finanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e rispetto al quale sarebbe interessante conoscere quale partecipazione sia prevista da parte di operatori dei Servizi Pubblici), oltreché da qualche famiglia professionale e del Notariato, e siano state realizzate buone traduzioni operative da alcune Regioni, è sotto gli occhi di tutti (si veda la Seconda Relazione sullo stato di attuazione della Legge 22 giugno 2016, n. 112 – Anno 2018 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) che a circa quattro anni dall’approvazione della norma, ritardi e inerzie ne abbiano fiaccato enormemente le novità, mortificato quel cambiamento e persa l’occasione per riprogettare Servizi e interventi, avendo ormai chiaro che la responsabilità di tutto questo sia proprio da attribuire in grandissima parte ai Servizi Territoriali, immotivati o forse impreparati a riorganizzare gli interventi secondo il nuovo paradigma operativo. Servizi che, in qualche caso, hanno dovuto subire addirittura l’umiliazione di una Sentenza del TAR (TAR della Sicilia, Sezione di Catania, n. 559 del 14 marzo 2019), nel farsi indicare quali debbano essere i contenuti di un progetto di vita personalizzato.

Intendiamoci: le responsabilità vanno oltre gli operatori e i professionisti. È prima di tutto a livello di governance – politica e dirigenziale – delle Istituzioni Pubbliche, che occorre rintracciare le responsabilità di quei ritardi e di quelle inerzie che hanno finora impedito che la Legge 112/16 avesse un’applicazione piena e diventasse prassi condivisa.
I Servizi Sociali dei Comuni sono sempre più segnati da fragilità organizzative e carenze di ogni tipo. Non si conosce sulla base di quali standard siano definite le quantità e tipologie professionali necessarie per un servizio dignitoso.
I Servizi Sanitari delle ASL – tuttora sotto l’influsso della spinta culturale alla specializzazione – non riescono a superare un sistema alquanto frammentato che rende difficile affrontare situazioni multiproblematiche, dove gli interventi richiedono la mobilitazione di conoscenze integrate, trattandosi di influenze e intrecci di problemi a livello sanitario, psicologico, relazionale, affettivo, sociale ed economico, che si condizionano e si sovrappongono in un continuo intreccio esistenziale.
Queste situazioni problematiche presenti nei maggiori Servizi Pubblici dei Distretti, spesso bloccati da una gestione che assume il principio dell’economicità come criterio regolatore, determinando carenze in quantità e qualità negli organici, rendono difficile il cambiamento verso quel paradigma che considera centrale l’esigibilità dei diritti sociali e che si presenta come la vera sfida per mettere al centro non le prestazioni, ma la persona, restituendole la capacità contrattuale di cittadino per i diritti, attraverso:
° il passaggio dalla logica dei bisogni alla logica dei diritti;
° la centralità e il protagonismo della persona con disabilità;
° il rispetto della sua libertà di scelta e dell’orientamento della famiglia e della rete di supporto familiare;
° la presa in carico precoce con l’affiancamento e il sostegno alla famiglia;
° la definizione dei percorsi di accesso a servizi e programmi;
° l’istituzione di Unità Valutative Multidimensionali di Distretto (UVM), attuate da équipe multidisciplinari, secondo l’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.];
° la coprogettazione del progetto di vita personalizzato, sostenuto dal sistema operativo “Budget di Salute”, per attivare azioni di capacitazione ed empowerment delle persone in prospettiva inclusiva, realizzate nei contesti naturali di vita, attraverso la costruzione di una relazione negoziale tra una persona disabile e un contesto, attivando un sistema di accompagnamento e mediazione affinché quel contesto dia opportunità di una buona inclusione a scuola, nella formazione, nel mondo del lavoro, di socializzazione, di appartenenza e ruolo sociale;
° la messa in atto di processi di ri-abilitazione dei contesti, superando un sistema di rapporti prevalentemente ancorati nella cultura abilista/individualista;
° l’assegnazione del Case Manager, quale responsabile dell’attuazione del progetto personalizzato e della costante verifica dell’adeguatezza degli interventi;
° la possibilità di scelta di come e con chi vivere per un “Dopo di Noi” attuato con soluzioni innovative e diversificate, aderenti ai diversi progetti di vita di ogni persona e non più solo in strutture sociosanitarie (anche se di tipo familiare).

In realtà è tutto questo che non accade nei Servizi: come si può esercitare la titolarità pubblica della presa in carico integrata, tempestiva e il più precocemente possibile e per tutto l’arco dell’esistenza, organizzare e gestire servizi e interventi entro percorsi integrati, se si lavora con organici ridotti in numero e professioni? Se le risorse finanziarie sono in calo da diversi anni? Se l’integrazione sociosanitaria – da tutti sbandierata – non viene mai promossa e attuata? Se non si concedono agli operatori il tempo e le risorse per riconsiderare i propri saperi, le proprie competenze professionali, entrando in sintonia con quel nuovo paradigma, abbandonando prassi che restringono analisi e proposte operative all’esclusivo àmbito della singole specifiche competenze tecniche e magari rilanciando un diverso approccio bio-psico-sociale che finora ha esaltato la visione biomedica e trascurato molto il sociale, il luogo dove le nostre vite si dispiegano, il luogo dove si costruisce la salute, poiché i determinanti sociali sono i fattori la cui presenza o assenza modifica in senso positivo o negativo il nostro stato di “bene/essere”?
Come (ri)costruire, dunque, un welfare sociale, un welfare dei servizi, se una buona e autonoma vita delle persone con disabilità dipende dalla qualità dei contesti sociali, dove le persone nascono, crescono, vivono, lavorano e invecchiano?
Come infine attuare quel necessario cambiamento non solo culturale e tecnico, ma anche organizzativo, mettendo in campo un impegno non solamente professionale nel rapporto duale con le persone, ma praticando una visione che trascenda ruolo e competenze tecniche e aiuti l’uscita dal recinto del servizio, per inoltrarsi nell’agorà dei contesti vitali, riscoprendo quell’antico sistema di lavoro che cementi una mission comune e condivisa? Com’è possibile tutto ciò?

È possibile un nuovo patto tra Associazionismo e operatori?
«Siamo in tempo di carenza di risorse, di tagli indiscriminati dei servizi, dove è evidente l’estendersi di una gravissima questione sociale. Un processo che mette in discussione il senso del lavoro sociale ed educativo e, con sempre maggior frequenza, anche il posto di lavoro degli operatori. Altro che operatori “agenti di cambiamento”!»: a questo quadro, il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag risponde così: «Gli operatori devono ritrovare un proprio equilibrio e abbandonare condotte che per un verso esasperano l’approccio tecnico fino all’illusione dell’onnipotenza e dell’autoreferenzialità e per l’altro portano a farsi opprimere da un senso di impotenza e di inutilità. […] Se vogliamo evitare tutto questo, oltre ad una analisi  sui gravi problemi economici e sociali, sulle difficoltà di creare nuove forme di legame e di solidarietà in grado di contrastare l’attuale impoverimento il nostro lavoro deve essere riterritorializzare la vita, produrre luoghi del legame immaginare e costruire luoghi in cui esprimere un po’ più la vita! (da Non è tempo per rifiugiarsi nell’impotenza: se la possibilità di agire nasce nel combinare approccio tecnico e approccio tragico, intervista a Miguel Benasayag a cura di Francesco Garzone, in «Animazione Sociale», 271/2013, pp. 3-12).
«Riterritorializzare la vita», dice Benasayag! Si potrebbe percepirlo come un invito ad impegnarsi per nuove declinazioni della vita, nuove forme, legami, possibilità! Un invito a riscoprire alcuni sentieri, per non cedere all’illusione di ritenersi capaci singolarmente di interventi risolutivi, impegnando solo le proprie competenze!
Personalmente penso che “riterritorializzare la vita” sia un invito a riconsiderare il proprio bagaglio di competenze e provare a ricostruire un dialogo con tutti gli attori coinvolti, a riprendere in mano il proprio impegno umano e culturale e a condividere momenti concreti di cambiamento, nella consapevolezza che ognuno singolarmente non possa fare granché, mentre, insieme, pur rispettando le responsabilità di ruolo di ognuno, si possano rivitalizzare i servizi e soprattutto le esistenze.
Serve un nuovo patto tra Associazionismo e operatori dei Pubblici Servizi.

Oggi appare lampante come i due soggetti – Associazionismo dei cittadini/utenti e Servizi territoriali – agiscano in parallelo e comunichino tra loro con molta difficoltà. Il mondo dell’Associazionismo non può più sottovalutare le difficoltà e l’inerzia applicativa dei Servizi territoriali nel tradurre in azioni attuative i cambiamenti dettati dal nuovo paradigma operativo delle recenti leggi di settore. Ma nel contempo non può più ignorare che il riconoscimento e l’esigibilità dei diritti sociali hanno bisogno di competenti ed efficaci Servizi Territoriali, poiché senza la loro mediazione l’esigibilità non si concretizza.
Occorre allora che l’Associazionismo vada a conoscere le strutture organizzative dei Servizi Sociali e Sociosanitari nei singoli Distretti. Occorre che inizi un dialogo stretto con gli operatori, per conoscere difficoltà dovute a carenze di organici, riduzione di risorse, sistemi organizzativi tortuosi e inefficaci, ma anche per conoscerne le proposte, condividerle e dare loro un visibile sostegno.
I Servizi Territoriali, a propria volta, hanno bisogno di un riconoscimento da parte dei cittadini/utenti, per ridare senso condiviso al loro lavoro, per un welfare territoriale di prossimità e generativo, che sappia (ri)trovare una vera sintonia tra cittadini e Servizi stessi e la (ri)scoperta di un antico sistema di lavoro che si fondava sulla condivisione di strategie e azioni comuni.

Un campo di comune interesse: i diritti sociali
Credo allora, che “riterritorializzare la vita” significhi anche occuparci di biografie: di persone con desideri, potenzialità, limiti; persone dotate di una propria irriducibile identità e che hanno diritto all’adultità e ad essere riconosciuti pienamente come cittadini.
E credo che il contenitore globale di riferimento – che ricomprende, ovviamente, anche l’attuazione della Legge 112/16 – per costruire un’alleanza operativiva di comune condivisione e di comune lavoro tra Associazionismo e operatori dei Servizi territoriali siano i diritti sociali e la loro esigibilità (se ne legga anche in F. Giancaterina, Come ricostruire un forte legame tra diritti sociali e la loro esigibilità. Le opportunità della Legge 112/2016, in «Appunti», rivista del Gruppo Solidarietà, n. 228, aprile/giugno 2019).
Stiamo parlando di quei diritti basilari che abilitano – oltreché la libertà – la dignità del vivere, ovvero:
Il diritto all’istruzione.
Il diritto alla formazione e al lavoro.
Il diritto all’abitare.
Il diritto alla salute.
Il diritto all’inclusione per un positivo ruolo sociale.

Sono questi i diritti che – a differenza dei diritti civili e dei diritti politici – hanno necessità di un lavoro promozionale e persuasivo per avere una totale e convinta adesione, senza fermarsi a una loro formale dichiarazione e rivendicazione, ma giungendo a una loro concreta attuazione.
La nostra Costituzione riconosce a tutti i cittadini i diritti sociali, ma per la loro totale esigibilità occorre che lo Stato si organizzi e metta in campo strutture operative con risorse e professionisti preparati. Questo sistema organizzativo è il welfare dei servizi.
In tempi ormai remoti, sono stati gli operatori ad inventare i Servizi Territoriali, quando, rifiutando le istituzioni totalizzanti dove operavano, hanno appunto reinventato il proprio lavoro, per metterlo al servizio della  promozione e del riconoscimento del diritto alla dignità di quei cittadini costretti a stare in quelle strutture, e hanno portato il loro lavoro e le stesse persone istituzionalizzate direttamente nel contesto sociale, sensibilizzando le Istituzioni e la comunità sociale ad un differente modo di aiutare le persone stesse, in questo sostenuti fin dall’inizio dalle prime nascenti aggregazioni in Associazioni dei cittadini interessati. È così che è avvenuto l’inizio dei Servizi Territoriali, visibili, riconosciuti e sostenuti negli anni.
Purtroppo, con il passare del tempo, le spinte ideali degli operatori si sono pian piano affievolite e la loro attenzione si è spostata – per ragioni di cambiamenti istituzionali, ma anche di contrastanti interessi professionali – verso la ricerca di una propria identità e differenziazione professionale, con la conseguenza di una polarizzazione specialistica delle diverse famiglie professionali, facendo leva quasi esclusivamente sulle competenze specifiche delle singole professioni.
La conseguenza è stata quella di assumere il ruolo prevalente di “erogatori di prestazioni”, rendendo difficile affrontare situazioni multiproblematiche, cosa che purtroppo ancor oggi succede.
E così il nostro welfare dei servizi negli anni seguenti è venuto man mano strutturandosi su modelli, forme di intervento e relative competenze, come prevalente “lavoro sui casi”, accentuando un approccio per singole discipline d’aiuto. Un welfare dei servizi quasi ovunque strutturatosi per filiere tecnico/amministrative, disposte a “canne d’organo”, difficilmente comunicanti, rigorosamente separato tra sociale e sanitario e diviso per categorie di bisogni, aree d’intervento, età delle persone e livelli di gravità.

Questo stato di cose non è più condivisibile. È ormai giunto il tempo che le Associazioni e anche il Terzo Settore, con rispetto e dialogo, mettano occhi, naso e intelligenza in quei Servizi, per conoscerne i processi di funzionamento del sistema organizzativo, per coglierne le fragilità, le carenze e le disorganizzazioni, ma anche per ascoltare gli operatori e con loro reinventare una nuova importante stagione di partecipazione, che sia in grado costruire una proposta di cambiamento condivisa e di comune interesse da presentare ai Decisori Istituzionali.

Già dirigente dell’Unità Operativa Disabilità e Salute Mentale di Roma Capitale.

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