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La mia “proposta indecente” per valutare gli alunni con disabilità cognitiva

Alunno con sindrome di DownHo seguito con molta attenzione il dibattito proposto da «Superando.it» sulla valutazione degli alunni con e senza disabilità [si legga nella colonnina a fianco l’elenco dei contributi da noi pubblicati, N.d.R.] e mi sono resa conto che le posizioni sono molto contrastanti, addirittura opposte, quando a parlare sono, da una parte chi vive una disabilità sensoriale e dall’altra chi rappresenta la voce della disabilità cognitiva.

Ho sempre stimato l’avvocato Salvatore Nocera, tanto che, al passaggio alle superiori di mio figlio, gli chiesi un consiglio su come convincere la nuova scuola a lavorare sul “PEI ad obiettivi minimi” (Piano Educativo Individualizzato), visto che l’accordo fra l’insegnante di sostegno delle medie e il coordinatore delle superiori era in quel modo orientato, mentre la scuola aveva deciso, dal primo giorno, per il “PEI differenziato”. Fui invece orientata proprio verso il “differenziato”, perché sarebbe stato meno stressante, visto che le difficoltà cognitive di un ragazzo con sindrome di Down non avrebbero potuto, quasi sicuramente, permettergli un diploma a titolo legale.
Quel giorno ebbi la sensazione che la disabilità cognitiva fosse considerata, da chi mi rispondeva (erano in tre su un forum) una “disabilità di serie B”.
Ho riletto le stesse parole oggi: «Io invero ho lamentato che questi alunni con disabilità vengono costretti da talune famiglie a sacrifici e sofferenze psicologiche, dovendo studiare livelli disciplinari superiori alle loro capacità, mentre potrebbero con molta maggiore soddisfazione svolgere un PEI differenziato e/o dedicarsi ad altre attività più soddisfacenti, nelle quali sono molto più abili, non solo per natura, ma anche per capacità apprenditive» [in “Prosegue il dibattito sulla valutazione degli alunni con e senza disabilità”, «Superando.it», 23 aprile 2020, N.d.R.].
A 7 anni mio figlio decise di voler aprire il suo ristorante per celiaci perché, durante un viaggio, dovette saltare il pranzo, dal momento che l’unico ristorante incontrato dopo chilometri non si sentiva sicuro con la celiachia.
A 13 anni, confrontandosi con il fratello già diplomato alla scuola alberghiera, mi disse che voleva il diploma vero, perché con il diploma poteva aprire il suo ristorante, con l’attestato invece no, in quanto sarebbe stato difficile ottenere una licenza a lui intestata.
Ha studiato moltissimo, certo l’impegno è stato grande, ma la soddisfazione lo è stata ancora di più, tanto che all’uscita dagli splendidi orali, con la tesina sotto il braccio, mi si è avvicinato e ha bisbigliato: «Ma’, che soddisfazione mi sono tolta!».
Ora lavora a tempo indeterminato nel suo ramo ed è pronto a coronare il suo sogno. In tutti questi anni, però, non ha mai smesso di dedicarsi ad attività “più soddisfacenti”. Fa sport con molto impegno, tanto da essersi meritato un bronzo mondiale nel nuoto lo scorso anno. È un bravo ballerino, anche se ha smesso il corso di ballo, che lo aveva portato ai nazionali FIDS di Rimini (Federazione Italiana Danza Sportiva) con il suo gruppo, di cui era l’unico elemento con disabilità, riportando a casa uno splendido argento. Non ha smesso per mancanza di voglia, ma per mancanza di tempo, perché ha scelto il teatro. Da quattro anni, infatti, frequenta un corso di teatro insieme ad aspiranti attori di tutte le età e senza disabilità, che gli ha permesso di aumentare le sue competenze, tanto da permettergli di essere scelto, come protagonista, in una nota fiction di Raiuno.

Mi sono chiesta molte volte, in questo ultimo periodo, come sarebbe andata se io avessi dato retta a quei consigli sul “PEI differenziato”, e non avessi deciso, come sempre, di seguire il mio istinto, consapevole delle capacità di mio figlio. Magari il suo destino sarebbe stato quello di ottenere qualche borsa lavoro, o forse neanche quelle.
Alla luce della nostra esperienza, mi vorrei porre nel mezzo delle proposte che ho letto nel lungo dibattito di «Superando.it», riportando qui quella che è stata la mia risposta istintiva dopo aver letto il secondo articolo del dibattito stesso.
Se dunque riforma dell’Ordinanza Ministeriale 90/01 sulla valutazione degli studenti o della legge sulla possibilità di modifica del PEI ci deve essere, allora ci sia e questa è la mia “proposta indecente”.

Innanzitutto un po’ di storia personale. Ho dovuto combattere per otto anni, sin dalle medie, per far sì che mio figlio potesse coronare il suo sogno di un “diploma vero” che gli valesse da licenza per il suo ristorante. Ogni anno arrivavano professori nuovi e ogni anno, con loro, arrivava la proposta dei un programma “meno impegnativo”.
Per chi fosse “meno impegnativo” era da subito chiaro, visto che in quel caso il referente unico sarebbe stato l’insegnante di sostegno.
I primi tre anni fu solo una battaglia “leggera”, visto che l’insegnante di sostegno e un paio di insegnanti curricolari erano con noi e mio figlio seguiva, da sempre, il programma di classe. Le superiori, invece, sono state stressanti: si ricominciava ogni anno, in modo pesante e con ogni nuovo insegnante, la solita cantilena: «Meglio il differenziato, meglio non stressarlo!».
È da qui che ho maturato la mia idea di possibile riforma. Penso infatti che, per parlare di vera inclusione, una modifica alla legge vada fatta. Per tutti i ragazzi con disabilità intellettiva o meno, si dovrebbe  obbligatoriamente partire da un PEI semplificato, stabilendo nei GLHO (Gruppi di Lavoro Handicap Operativi), da tenere prima dell’inizio dell’anno scolastico, le modalità per attuare il programma. Nello stesso GLHO ci dovrebbe essere l’obbligo di acquisire (per gli anni successivi al primo) il diario curricolare dello studente, stilato dagli insegnanti durante tutto il corso dell’anno precedente, del quale a fine anno ogni insegnante dovrebbe fare una relazione sintetica conclusiva. Le decisioni andrebbero concordate tra famiglia, specialisti che seguono lo studente (neuropsichiatra infantile, logopedisti, psicologi ecc.), tutto (obbligatoriamente) il Consiglio di Classe e, dopo il primo anno di scuola, l’insegnante di sostegno del precedente anno e il coordinatore del sostegno, come portavoce del Consiglio di Classe.
In quella sede si dovrebbe provvedere anche a come strutturare il rafforzamento postscolastico, con compiti mirati e testi facilitati dagli insegnanti. Ove i genitori non fossero in grado di seguire la persona negli studi, e solo su loro richiesta, dovrebbe essere previsto un supporto esterno, senza pesare economicamente sulla famiglia. La figura del sostegno, inoltre, dovrebbe coprire tutto l’orario scolastico e supportare ogni insegnante curriculare il quale, dal canto suo, dovrebbe obbligatoriamente collaborare con il sostegno. Quest’ultimo non dovrebbe essere assegnato al ragazzo, ma ci dovrebbe essere un insegnante per ogni materia (e in quella materia specializzato) e per ogni classe per ragazzo con disabilità. Gli insegnanti di sostegno potrebbero quindi supportare più ragazzi con una cattedra normale come i colleghi corriculari, con un raddoppio costante delle presenze di insegnanti, con pari competenze specifiche sulla materia, di cui uno dedicato al sostegno.
Il PEI, come detto, dovrebbe essere, da subito e obbligatoriamente, “per obiettivi minimi”, dopodiché, in seguito al primo GLHO conoscitivo e di programma, si dovrebbe lavorare per tutto il primo quadrimestre, facendo quindi una prima valutazione sui progressi e su eventuali correttivi da apportare alla programmazione.
A fine anno, se proprio non si fosse riusciti ad ottenere l’obiettivo, si potrebbe decidere, con la famiglia: 1) di valutare il ragazzo sulla base del programma svolto, considerandolo però differenziato se ci sono troppe lacune o, in caso si ritenesse utile, di far ripetere lo studente per fargli approfondire i concetti di base; 2) di tentare il recupero dei debiti, come per tutti gli altri studenti, sempre con il supporto degli insegnanti di sostegno, che verrebbero pagati a parte qualora ci fosse necessità di un numero di ore extra. Quindi valutare dopo il recupero, consultando le famiglie, se ripetere l’anno e poi riprovare con il programma “ad obiettivi minimi” oppure se ricorrere alla necessità di passare al “differenziato”.
In questo modo si eviterebbero le guerre fra scuola e famiglia e si darebbe la possibilità a tutti i ragazzi di provarci.
Aggiungo pure che si eviterebbe anche la guerra con le altre famiglie, che purtroppo ogni tanto sono salite agli “onori” della cronaca perché “non vogliono disabili in classe con i figli”, dal momento che secondo alcuni essi rallenterebbero la didattica: il raddoppio degli insegnanti non darebbe più scuse a nessuno.
Se poi non andasse, non ci sarebbero né colpe né rimpianti, visto che in ogni caso si sarebbe fatto tutto il possibile per non mettere quei ragazzi da parte.
Semplice, no? E in questo modo si darebbe anche piena soddisfazione all’affermazione che «imparare è un diritto di tutti».

Responsabile regionale dell’Area Famiglie dello Special Olympics Italia-Team Lazio; presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Liberi di Fare Sport-Tivoli; coordinatrice del Gruppo Facebook Genitori di Ragazzi con Trisomia 21 – Esperienze a confronto.

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