L’emergenza coronavirus, la comunicazione e le “mascherine per i sordi”

«Tra le tante criticità affrontate dalle persone con disabilità nella pandemia, vi è anche quella legata alla comunicazione e più precisamente alla difficoltà di comunicare con le mascherine. A tal proposito, è sbagliato parlare di “mascherine per i sordi”, così come sono stati etichettati quei dispositivi con finestra trasparente, perché tutti hanno bisogno di vedere oltre la mascherina, soprattutto i bambini e le persone con disabilità intellettiva, specie se grave, che non potendo comprendere il senso delle nostre parole, basano tutta la comunicazione sul linguaggio espressivo corporeo»

"Mascherina per i sordi"

La cosiddetta “mascherina per i sordi”: «Ma cosa vuol dire esattamente “per i sordi”?. Non è possibile, infatti, definire “i sordi” come una categoria omogenea», scrivono Consuelo Agnesi ed Elisabetta Schiavone

La pandemia in corso, come ogni emergenza, ha evidenziato una realtà tristemente nota: le persone con specifiche necessità non trovano risposte adeguate nel complesso sistema di gestione dell’emergenza. Dai servizi dedicati alle procedure di emergenza, sia in àmbito aziendale – piani di emergenza – che nella società civile – strumenti di comunicazione e modalità di soccorso – tutto ciò che nell’ordinario viene proclamato come inclusivo finisce per scontrarsi con una realtà ben diversa dalle questioni di principio e dalle teorie, talvolta perfino ben articolate, quando l’emergenza si verifica davvero. Spesso le soluzioni proposte sono decisamente poco aderenti alle necessità delle persone, ai differenti contesti d’impiego e alla possibilità di essere applicate in scenari di emergenza.

Nello scenario configurato dalla pandemia Covid-19, tra le molteplici criticità che le persone con disabilità si sono trovate ad affrontare, una in particolare è quella legata alla comunicazione. Più precisamente alla difficoltà di comunicare con un dispositivo che è stato prescritto non solo al personale sanitario e agli addetti alla gestione dell’emergenza come dispositivo di protezione individuale (DPI), ma all’intera popolazione come unico dispositivo – in combinazione alla distanza sociale – per la riduzione del rischio di contagio, a propria tutela e nel preservare gli altri dal virus che si è rivelato letale. Stiamo parlando della ormai nota mascherina, in tutte le sue declinazioni e versioni, da quelle utilizzate prevalentemente in ambito sanitario e dalle forze dell’ordine (FFP1, FFP2, FFP3 con e senza valvole) a quelle più comuni e diffuse nella popolazione, le mascherine chirurgiche, fino alla cosiddetta “mascherina di comunità”, ovvero un dispositivo senza certificazioni che può essere autoprodotto con qualsiasi materiale, ma che non garantisce di fatto alcuna protezione.
In proposito si riporta quanto scritto in una nota dell’Istituto Superiore di Sanità del 9 maggio scorso «Le mascherine, in base al Decreto del Presidente del Consiglio del 26 aprile, sono divenute obbligatorie negli spazi confinati o all’aperto in cui non è possibile o garantita la possibilità di mantenere il distanziamento fisico. L’obbligatorietà dell’uso in alcune Regioni è stata estesa anche ad altri contesti. In base al comma 2 dell’articolo 3 dello stesso Decreto, “possono essere utilizzate mascherine di comunità, ovvero mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte, in materiali multistrato idonei a fornire un’adeguata barriera e, al contempo, che garantiscano comfort e respirabilità, forma e aderenza adeguate che permettano di coprire dal mento al di sopra del naso”».
L’Istituto Superiore di Sanità specifica che «le mascherine chirurgiche sono le mascherine a uso medico, sviluppate per essere utilizzate in ambiente sanitario e certificate in base alla loro capacità di filtraggio. Rispondono alle caratteristiche richieste dalla norma UNI EN ISO 14683-2019 e funzionano impedendo la trasmissione»; nelle FAQ, quindi [domande/risposte più frequenti, N.d.R.], rispetto alle mascherine di comunità chiarisce: «Nel caso in cui compaiano sintomi è necessario l’utilizzo di mascherine certificate come dispositivi medici» e questa nota è utile a comprendere come nessun dispositivo privo di certificazione possa garantire una reale protezione.

L’introduzione di questi dispositivi, in ogni tipologia e forma, si è rivelata di particolare disagio per le persone sorde, in quanto non possono effettuare la labiolettura, ovvero la lettura delle labbra per comprendere ciò che l’interlocutore dice. Non possono segnare, se l’interlocutore non conosce la Lingua dei Segni. Non possono percepire in maniera limpida il tono e il volume della voce dell’interlocutore.
A seconda del tipo di sordità e dell’esperienza individuale, sono diverse le esigenze e le modalità di comunicazione per ogni persona e ciascuno sceglie il modo di comunicare più consono alle proprie abilità. Di conseguenza l’autonomia e l’indipendenza della persona sorda in qualsiasi contesto, viene sempre meno.
Non è possibile definire i sordi come una categoria omogenea: esiste infatti la sordità profonda in cui non si percepisce alcun suono o comunque nessun input sonoro tale da essere considerato al fine della comunicazione, ma ci sono anche persone con residuo uditivo; persone sorde dalla nascita e altre che hanno perso l’udito da bambini, altre ancora da adulte; insomma persone con storie ed esperienze di vita differenti che portano a diverse modalità di comunicazione, in alcuni casi supportate anche da ausili come apparecchi acustici e impianti cocleari, che per qualcuno vuol dire acquisire una maggior capacità di percezione uditiva, per altri recuperare qualche informazione sonora utile come feedback ambientale, ma non sufficiente per una comunicazione interpersonale basata esclusivamente sull’udito.
Esplicitare la complessità della sordità non è certo l’obiettivo e la possibilità di questo scritto, ma è bene comprendere le infinite sfumature che hanno le persone sorde. Ci sono sordi bilingui (che conoscono e usano la Lingua dei Segni o l’italiano parlato/scritto a seconda del contesto) e sordi che conoscono e usano solo la lingua italiana: entrambi si aiutano con la lettura labiale per comunicare con il proprio interlocutore.

La lettura labiale è fondamentale per le persone sorde in generale e l’informazione visiva aiuta a compensare l’informazione uditiva a prescindere dalla specificità di ognuno: con o senza protesi acustiche e/o impianto cocleare.
È sul termine “lettura” che dovremmo concentrarci per comprendere quanto sia importante poter vedere in modo chiaro le labbra dell’interlocutore: non devo semplicemente guardarle, devo poterle leggere e interpretare il movimento. Cosa che diventa ancora più difficile quando l’interlocutore è una persona sconosciuta, poiché non c’è la familiarità con quella bocca e con quei movimenti ad agevolare l’interpretazione delle espressioni.
Per consentire a una persona sorda la lettura labiale, l’interlocutore deve posizionarsi di fronte, mantenendo il contatto visivo per tutta la conversazione, avere il viso illuminato, tenere una distanza massima di un metro e mezzo e tra le accortezze, scandire bene le parole e non parlare troppo veloce.
A fronte di questa necessità, durante l’emergenza Covid-19 si è verificato un proliferare di proposte, virtuose nell’intento, ma decisamente meno nel risultato, che ha portato alla produzione di una serie di modelli di mascherine con finestra trasparente che sono state etichettate come “mascherine per i sordi”. E su questo sarebbe bene fare chiarezza.
Cosa vuol dire “per i sordi”? Posta così sembra che siano solo le persone sorde a doverle indossare, mentre semmai è il contrario, o meglio, tutti dovrebbero usarle per consentire alle persone sorde di vedere con chiarezza le labbra dell’interlocutore. E anche qui, ovvero sul vedere con chiarezza, sorgono ulteriori criticità, poiché percepire appena la bocca in movimento dietro la finestrella trasparente, che per altro è soggetta a riflessi, non aiuta certo la persona che legge le labbra nella comprensione. Per effettuare la lettura labiale, infatti, non deve esserci alcun disturbo a compromettere la visibilità della bocca, mentre tutti i dispositivi finora prodotti in Italia non rispondono a questo fondamentale requisito.
Ad oggi la trasparenza è garantita unicamente da materiale plastico che nella maggior parte dei casi è soggetto ad appannamento (quindi perde immediatamente la sua funzionalità in ordine all’obiettivo che si vuole perseguire) e la maggior parte dei modelli prodotti ha una finestra di piccole dimensioni, tali da non consentire una buona visibilità della bocca, considerando anche l’ombra proiettata sul viso, all’interno della mascherina, dal materiale opaco di supporto che contorna la finestra trasparente e costituisce la struttura vera e propria del dispositivo.
Sono molteplici i requisiti che una mascherina dovrebbe soddisfare per garantire una buona comunicazione e vanno dall’ergonomia del dispositivo alla trasparenza e alla necessità di mostrare quanto più possibile il volto per la lettura non solo delle labbra, ma della mimica facciale attraverso la quale ciascuno di noi comunica e si mette in relazione con l’altro. Garantire la comunicazione empatica dovrebbe essere l’obiettivo di chi progetta questi dispositivi, ma per fare ciò è necessario strutturare percorsi che prevedano la multidisciplinarietà e la partecipazione. Occuparsi dei materiali e non delle specifiche necessità o viceversa non porterà al risultato.
È necessario, quindi, costruire équipe in grado di considerare tutti gli aspetti di ergonomia, funzionalità e sicurezza e arrivare a definire prestazioni per dispositivi utilizzabili in ambienti diversi, da sperimentare con gruppi rappresentativi delle esigenze diverse che le persone presentano.
Il vicino di casa, per intenderci, non è assimilabile ad un gruppo rappresentativo solo perché presenta una disabilità. Non dobbiamo infatti dimenticarci che non sono solo le mascherine di comunità o quelle chirurgiche a dover garantire la comunicazione, ma anche i dispositivi di prestazione individuale con prestazioni di filtraggio più elevate come le FPP1/2/3, poiché comunicare è un’esigenza imprescindibile anche in àmbito sanitario, nelle operazioni di soccorso, ma anche, più semplicemente, nell’ordinario all’interno delle aziende che impiegano persone sorde e che nei comparti produttivi necessitano di tali dispositivi.

Per concludere, occorre rammentare che tutti noi comunichiamo attraverso la mimica facciale, oltre che con la voce, e sul nostro volto si possono leggere gli stati d’animo, la serenità come l’apprensione, la felicità o la tristezza. Non sono solo le persone sorde ad avere bisogno di vedere oltre la mascherina, ne abbiamo bisogno tutti, soprattutto i bambini e le persone con disabilità intellettiva, specie se grave, che non potendo comprendere il senso delle nostre parole, basano tutta la comunicazione sul linguaggio espressivo corporeo.
Per questo motivo è sbagliato parlare di “mascherine per i sordi” e le mascherine che consentano la comunicazione a tutti devono essere un obiettivo da affrontare con estrema serietà e professionalità, indagando necessità, tecniche e materiali, oltreché intervenendo anche sulle attuali norme che ad oggi non considerano tali prestazioni, al fine di introdurre nuovi criteri che possano guidare la futura produzione di dispositivi di protezione individuale certificati e di mascherine di comunità ugualmente efficienti.

Consuelo Agnesi è architetto di Studio in Movimento e componente di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità); Elisabetta Schiavone è architetto di Soluzioni Emergenti, componente di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accesibilità) e dell’Osservatorio Sicurezza e Soccorso alle Persone con Esigenze Speciali del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Il presente testo è già stato pubblicato nel numero di maggio 2020 (n. 2, anno 128) della rivista «Giulio Tarra» del Pio Istituto dei Sordi di Milano e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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