Non tutti sono talenti, ma tutti devono fare emergere le proprie qualità

«Vorrei sfatare il mito – scrive Daniele Regolo – che le persone con disabilità debbano avere un talento a prescindere. In realtà, così come nel calcio, anche nel mondo del lavoro il talento richiede una struttura che lo faccia emergere, composta certamente da altri portatori di capacità, anche se meno appariscenti. Non siamo tutti talenti, quindi, ma siamo tutti chiamati a fare emergere le nostre migliori qualità. Il talento è di pochi, l’autorealizzazione un imperativo per tutti. Raggiungere, nel lavoro e nella vita, il massimo del proprio potenziale è la nostra missione più autentica»

Gabriele Oriali nel 1982

Gabriele Oriali, quando divenne Campione del Mondo di calcio nel 1982. «Il suo lavoro – scrive Daniele Regolo – era tutt’altro che sotto i riflettori e le luci della ribalta: al mediano, infatti, non è consentito fare gol, deve impedire che altri lo facciano, deve marcare duro, deve servire chi è deputato a segnare, il tutto condito da quantità industriali di fango. Le imprese funzionano allo stesso modo»

C’è un mito che vorrei sfatare e che riguarda non solo il mondo della disabilità ma anche quello del lavoro e del recruiting [reclutamento nel lavoro, N.d.R.] in generale: sto parlando del mito dei “talenti”.
Sempre più, e ormai ovunque, si legge che le imprese hanno bisogno di talenti, che agenzie specializzate o verticali su determinate figure professionali promettono di trovare “talenti” e così via. Anch’io, lo ammetto, cercando di far tesoro dei miei errori, all’inizio della mia avventura professionale ho spesso abusato del termine, come se una persona con disabilità dovesse avere un talento a prescindere. Non è così. In realtà non è così quasi per nessuno. E, come vedremo, non è una tragedia, anzi.

Durante i Mondiali di Calcio del 1986 Maradona fece due gol all’Inghilterra, uno con l’aiuto della celebre “mano de Dios”, l’altro con una progressione memorabile che rimarrà nella storia del calcio. In un’intervista di qualche anno fa, in cui mi sono imbattuto casualmente, un calciatore della Nazionale Argentina disse che senza Maradona non avrebbero vinto il Mondiale in Messico e che tutti gli altri erano sicuramente ottimi giocatori, ma nessuno campione come lui. In altre parole, esaltava il talento di Maradona come qualcosa che apparteneva solo a lui, senza per altro che questo svilisse il resto della squadra.

Se digitiamo in un motore di ricerca la parola talento, ci accorgiamo subito che si tratta di un termine abusato, il che sembra costituire un ossimoro in rapporto al concetto di eccellenza che la parola esprime.
Per restare in àmbito calcistico, non è affatto scontato che una squadra con undici calciatori del livello di Maradona avrebbe vinto il Mondiale. Il talento, che porta generalmente il numero 10 sulle spalle, ha bisogno di non-talenti attorno a lui, così come gli altri hanno bisogno del loro numero 10.
Il talento richiede una struttura che lo faccia emergere, una struttura composta certamente da altri portatori di capacità, anche se meno appariscenti. Una struttura che protegga il talento, che lo possa anche guidare e ispirare. Un po’ come il “mediano di Ligabue”. E se pensiamo ad Oriali (la mia conoscenza calcistica approfondita, come si capirà, si ferma a quei tempi), pensiamo ad un calciatore che ha anche vinto, tra l’altro, un Campionato del Mondo, ma il cui lavoro era tutt’altro che sotto i riflettori e le luci della ribalta: al mediano non è consentito fare gol, deve impedire che altri lo facciano, deve marcare duro, deve servire chi è deputato a segnare, il tutto condito da quantità industriali di fango.
Le imprese funzionano allo stesso modo. Quelle migliori hanno sicuramente dei talenti, ma non solo quelli: hanno anche tanti mediani vecchio stampo (il numero 4 per intenderci, quando i titolari andavano da 1 ad 11 e io avevo il 14 che non era certo quello di Cruijff, ma quello del panchinaro!).
Fin qui non credo di aver detto nulla di sensazionale.

Ora due riflessioni, forse un po’ scomode, ma spero utili.
La prima nasce dalla constatazione che tutti noi, a forza di sentirci chiamare “talenti”, alla fine pensiamo di esserlo davvero, almeno un po’. Quindi ci comportiamo di conseguenza, credendo che tutto ci sia dovuto, che senza di noi l’impresa in cui lavoriamo (e magari il mondo) si fermerebbero di colpo. Questo è tanto diseducativo quanto dannoso, per tutti. Diverso è dire che ciascuno ha delle competenze, in alcuni spesso superiori a quelle dei propri dirigenti (il che dovrebbe essere la norma: il dirigente deve dirigere, non è un tuttologo), e questo a mio avviso basterebbe a far capire quanta ricchezza ci sia nel mondo del lavoro senza scomodare il termine “talento”.
D’altra parte – e vengo alla seconda riflessione – la bassa autostima che spesso, purtroppo, caratterizza le persone con disabilità, le porta sovente ad autoescludersi in anticipo dalla partita, cosicché si condannano da sé alla panchina: anche questo è molto triste e ingiusto.
Che cosa ci può aiutare allora a capire chi siamo, quale sia il nostro reale livello di preparazione, per individuare risultati ambiziosi ma raggiungibili? Il confronto. I colloqui con chi seleziona personale, lo scambio con i colleghi, i consigli di amici veri: tutto questo ci aiuta a trovare il nostro posto nel mondo e, con esso, quella tranquillità interiore che è la base di ogni successo, qualunque sia il nostro numero di maglia.

Non siamo tutti talenti, quindi, ma siamo tutti chiamati a fare emergere le nostre migliori qualità. Il talento è di pochi, l’autorealizzazione un imperativo per tutti. Raggiungere, nel lavoro e nella vita, il massimo del proprio potenziale è la nostra missione più autentica. Non importa se sei un numero 4 o un numero 10: quello che conta è giocare per vincere il tuo Mondiale.

Fondatore dell’Agenzia Jobmetoo.

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