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Il senso del pudore e i genitori di persone con disabilità nell’epoca dei social

Persona sfuocata sullo sfondo, dietro ai raggi di una ruotaIl modo di dire «dove non c’è pudore non c’è vergogna» significa che in assenza del primo non può certo esistere la seconda. Sono due aspetti di un individuo diversi tra loro, ma che spesso si tende a considerare come coincidenti. Tuttavia, la loro affinità è individuabile nell’etimologia del sostantivo “pudore”, dal latino pudororis, derivato dal verbo pudere, che significa appunto “sentire vergogna”. A mio avviso, il senso del pudore non impone una condizione di profondo disagio, che invece è parte imprescindibile di un sentimento di vergogna.

Ma cos’è il senso del pudore oggi? Qual è il confine fra pudore e ipocrisia? Pudore significa rispetto dell’altro e di se stessi? Spesso, nel caso delle persone con disabilità, un falso senso del pudore porta a imporre dei tabù, altre volte invece il disabile è costretto a rendere manifesto e a condividere il racconto della propria intimità.
Cosa fare in questi casi? Troppo spesso la persona con disabilità è indotta a descrivere tutti gli aspetti della propria quotidianità a persone, talvolta sempre le stesse, che lo assistono e che vengono erroneamente scambiate per amiche. Pertanto, risulta difficile far comprendere che certe cose devono rimanere riservate e che continuano ad esistere anche quando non condivise ad esempio su Facebook. E tuttavia, un genitore dovrebbe sì far riflettere il proprio figlio sui rischi che comporta un’eccessiva espansività, ma al tempo stesso dovrebbe educarlo a un’affettività consapevole e a non nascondersi dietro a un falso senso del pudore.
È spiacevole constatare che molte volte sono proprio i genitori a imporre i tabù lì dove non dovrebbero esserci. Spesso questo dipende da una scarsa formazione culturale, dall’eccessivo moralismo della religione, ma anche da uno spropositato senso di protezione, provocato dalla paura che porta alla necessità di esercitare un controllo soffocante.
Ci sono genitori che non permettono ai figli di uscire di casa perché sono spaventati all’idea che essi possano emanciparsi, infatti significherebbe per loro rimanere soli, non sentirsi più utili e indispensabili. Ma al tempo stesso alcune madri hanno un atteggiamento totalmente permissivo nei confronti del figlio con disabilità, poiché spesso sono prive di energia, di vitalità, soffrono per una condizione di solitudine e si fanno carico di un eccessivo senso di colpa.
Tutti meccanismi comuni a tante famiglie, ma che di fronte alla disabilità si esasperano.

Anni fa, su Facebook mi capitò di essere contattata dalla madre di un ragazzo con disabilità, angosciata dal fatto che ogni volta che lavava il figlio, a quest’ultimo conseguiva un’eccitazione sessuale. Mi dispiaceva il suo profondo dolore, sembrava intenzionata ad aiutarlo.
All’epoca già sapevo di alcune madri che masturbavano il figlio per risolvere una situazione similare, quindi decisi di aiutare la mia interlocutrice con la speranza di evitarle questa dolorosa soluzione. Le avrei certamente suggerito di affidarsi a dei professionisti, cosa che per me resta la soluzione più adatta in questi casi, se per lei non fosse stata troppo onerosa, quindi mi sono limitata a consigliarle di consultare dapprima un forum per disabili che tratta questi argomenti e in un secondo momento di iscriversi a una chat a tema per un confronto più diretto.
Dopo pochi giorni mi ricontattò, lamentandosi che in ambedue i siti si era imbattuta in persone che le chiedevano ingenti somme di danaro, ma che le sue condizioni economiche le impedivano di accettare. Era molto amareggiata perché non riusciva a soddisfare i desideri crescenti del figlio. L’unica persona disposta ad avere un rapporto sessuale con il ragazzo senza chiedere danaro in cambio era un transessuale. La signora mi chiedeva insistentemente cosa avrei fatto al suo posto, non si accontentava dell’unica cosa che mi venisse da consigliarle: «Ne parli con suo figlio!».
Alla fine ho dovuto bloccarla, poiché era arrivata addirittura a inviarmi le foto al mare della persona transessuale. Ero spaventata all’idea che mi proponesse di avere un rapporto sessuale con il figlio, che neanche conoscevo. «Voglio farlo sfogare», diceva insistentemente.

Dov’è in questi casi il senso del pudore? È giusto che una madre si spinga così oltre? La sessualità, più che uno sfogo selvaggio, non dovrebbe essere un aspetto della vita più ampio, bello e complesso?
Comprendo bene la sofferenza di quella donna per la situazione del figlio, ma in questo caso una maggiore riservatezza avrebbe meglio guidato il suo atteggiamento completamente privo di inibizioni, che mi ha spaventata e allontanata.

I social ci autorizzano a perdere il senso della misura, la privacy sembra essere una dimensione sconosciuta, ormai obsoleta. Siamo sempre più convinti che un momento importante della propria vita se non condiviso sui social perda di valore, ma è davvero così?
Mi torna alla mente il breve post di un signore con disabilità di una certa età che dichiarava di avere fatto l’amore per la prima volta. Ecco che un’esperienza così intima viene resa pubblica, banalizzata, e in tutta onestà si perde davvero il senso del pudore. Cose così dovrebbero rimanere nel mondo reale, non vendute a quello dei rapporti virtuali, dovrebbero essere condivise con la propria donna o con il proprio uomo, e magari con qualche amico intimo.
Sui social si possono condividere le emozioni per la scoperta, il desiderio e l’ansia di un’aspettativa… senza dover scrivere i dettagli di un momento di fondamentale importanza. A volte si cade nell’errore di voler postare per forza qualcosa e non si pensa a come valorizzare il contenuto, se davvero il messaggio è importante o se sia meglio non pubblicarlo o condividerlo con una forma diversa.

Come laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione, cerco di aiutare tante persone con disabilità attraverso il gruppo Facebook Amore, disabilità e tabù: parliamone insieme. Il gruppo vuole essere un luogo per scambiarci informazioni sull’amore, la sessualità, l’affettività, ma è anche un modo per far comunicare persone con e senza disabilità.
Anche alla luce di un radicale cambiamento comunicativo e del racconto del sé urgenti e alla portata di tutti, ritengo che il ruolo educativo dei genitori richieda grande abilità e grande dedizione, ma soprattutto una giusta via di mezzo tra un’educazione troppo rigida e una troppo permissiva. Attraverso le mie parole e le mie esperienze, lontana dal pronunciare giudizi, vorrei offrire degli spunti di riflessione.

Pedagogista e curatrice del portale “Piccolo Genio.it”, nel quale il presente contributo è già apparso e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione. È autrice del libro “Nata Viva” (prima edizione 2011, Società Editrice Dante Alighieri).

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