Tornare subito ai normali contatti con le persone che vivono nelle strutture!

«Dopo quattro mesi in cui io e mio figlio non ci siamo visti, posso solo fargli visita una volta alla settimana per mezz’ora, sempre alla presenza di un operatore, senza poterci abbracciare. Non si possono trattare trentenni autistici come gli anziani delle RSA e l’azione legale che sono pronto a intraprendere è per tutti coloro che sono nella situazione di mio figlio»: così Gianfranco Vitale motiva la lettera di diffida inviata alla struttura che ospita il figlio, nonché a tutte le Istituzioni competenti, per far ripristinare i contatti con lui, come avveniva nella fase pre-Covid

Gabriele, giovane adulto con autismo

Gabriele, persona trentanovenne con autismo. Il padre Gianfranco ha inviato una lettera di diffida a tutte le Istituzioni competenti, allo scopo di far ripristinare la frequenza e le modalità dei suoi contatti con lui, come avveniva nella fase pre-Covid

«Le responsabilità sono di tutti, non appartengono al direttore di una singola struttura, ma siamo di fronte a un sistema incapace di dare delle risposte accettabili a un problema complesso come l’autismo, che non può essere affrontato con i mezzi della burocrazia».
Così si apre un articolo pubblicato ieri, 12 luglio, dalla «Repubblica» (Cronaca di Torino), intitolato Mio figlio segregato dal lockdown. Pronto a far causa alla struttura, ove Gianfranco Vitale spiega perché ha deciso di inviare tramite il proprio legale una formale lettera di diffida (il cui testo è integralmente disponibile a questo link) alla Direzione Sanitaria della struttura che ospita il figlio Gabriele, persona adulta con disturbo dello spettro autistico, oltreché, per conoscenza, al Presidente della Regione Piemonte, all’Assessore Regionale alla Sanità, al Sindaco di Torino e al Presidente del Consiglio.
«Con la presente – si scrive nella parte conclusiva della lettera di diffida – vi invito e diffido ad adottare, entro e non oltre 7 giorni dal ricevimento della presente, ciascuno per le proprie competenze, tutti i provvedimenti necessari al ripristino della frequenza e delle modalità dei contatti tra il paziente Gabriele Vitale e suo padre così come avvenivano nella fase pre Covid, dentro e fuori la struttura, pur nel rispetto delle attuali esigenze sanitarie».
«Mentre gli ultimi provvedimenti governativi hanno consentito, per il resto della società civile, la ripresa dei rapporti interpersonali secondo modalità pre Covid – si legge ancora -, prescrivendo esclusivamente il rispetto di precauzioni sanitarie, per i disabili residenti in strutture c’è, nei fatti, una impossibilità di effettiva ripresa della frequentazione degli ospiti da parte dei familiari. Le attuali rigidità, non sussistendo più i presupposti della piena fase emergenziale e tenendo conto delle specificità dei singoli soggetti ricoverati, si pongono oltretutto in contrasto con l’attuale quadro normativo (Legge 134/2015 [“Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie”, N.d.R.], e Legge 328/2000) e costituzionale, tutto proteso verso la deistituzionalizzazione delle terapie e verso l’inclusione sociale dei disabili, costituendo una evidente discriminazione sanzionabile anche ai sensi della Legge 67/06 [“Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”, N.d.R.]».

Non può non tornare alla mente, a questo punto, la denuncia riguardante la Lombardia e ripresa anche dal nostro giornale, proveniente dal Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), pronta anch’essa a ricorrere alle vie legali, «per garantire i diritti delle persone con disabilità coinvolte, alla luce del fatto che la Regione Lombardia ha disposto che l’accesso alle strutture residenziali per persone con disabilità da parte di familiari, caregiver e conoscenti venga concesso solo eccezionalmente e su autorizzazione del responsabile medico delle strutture. Quindi, mentre il resto della società civile si apre a nuove relazioni sociali, la fase di confinamento per tutte le persone con disabilità che vivono nei servizi residenziali si sta prolungando a tempo indeterminato, adombrando una situazione di discriminazione, se non addirittura di segregazione».
E naturalmente va ricordato anche l’intervento dei giorni scorsi da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, attivatosi tramite un’interlocuzione diretta con tutte le Regioni, e in particolare proprio con la Lombardia, per far sì che ogni eventuale situazione di confinamento nelle strutture non si protragga ulteriormente, tutelando i diritti alla libertà personale eventualmente violati.

Tornando alla vicenda di Vitale, «dopo quattro mesi in cui io e mio figlio non ci siamo visti – ha raccontato ancora a “la Repubblica” – l’unica cosa che viene concessa dal 24 giugno è di fare visita una volta alla settimana a mio figlio per mezz’ora, sempre alla presenza di un operatore, senza poterci abbracciare e neanche uscire per una passeggiata, una gita la domenica, un pomeriggio a casa, come facevamo sempre. Non si può certo spiegare a un ragazzo con disabilità intellettive che c’è il coronavirus. Ci sono ragazzi che non parlano neanche, Gabriele invece piange e dice che si sente solo, che vorrebbe uscire. Ed è uno strazio, quando salgo in auto per andare via, vederlo nello specchietto retrovisore: in piedi, fermo sulla porta che mi guarda, senza voler rientrare. Questa cosa genera molta ansia e non è giustificata da motivi sanitari».
«Non si possono trattare trentenni autistici come gli anziani delle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) – ha concluso Vitale – e l’azione legale che sono pronto a intraprendere non è solo per Gabriele, ma per tutti quelli che si trovano nella sua situazione».

Tra i vari commenti di solidarietà a Gianfranco Vitale letti da più parti, particolarmente significativo ci sembra quello dell’Associazione Autismo Toscana, nella cui pagina Facebook si scrive tra l’altro: «Ed eccoci di nuovo a parlare delle RSD [Residenze Sanitarie Disabili, N.d.R.], degli istituti, dei manicomi mascherati. Quegli istituti sempre avversati e da noi combattuti. In questi luoghi, e lo sapevamo, i nostri figli non sono persone, soggetti di diritto, cittadini ma sono semplicemente oggetti di cura, oggetti da curare e da “badare”. Ma ora, come purtroppo si sospettava, con il Covid-19 si torna indietro e questi luoghi diventano veri e propri luoghi di reclusione, come i manicomi prima della riforma Basaglia del 1978, dove il Direttore dell’istituto ha e si assume il potere di vita e di morte del cittadino che vi si trova perché la nostra comunità non è stata in grado di fornirgli un’abitazione in mezzo a tutti noi, come tutti sostengono solo per riempirsi la bocca di belle parole. E allora ecco che si impedisce a Gabriele ed al suo babbo di incontrarsi, di potersi vedere e parlare, mentre tutto il mondo con una totale ipocrisia fa finta di tenere distanziamenti. Ed ecco che Gabriele ed il suo babbo non possono uscire insieme e possono incontrarsi se non alla presenza di un operatore. Operatore? ma diamogli il nome giusto, si tratta di un secondino perché Gabriele, che ha la colpa di avere un disturbo delle spettro autistico, è recluso. Vergogna!».
«Caro Gianfranco – concludono da Autismo Toscana – siamo vicini a te e a Gabriele. Questa è una storia drammatica ed è drammatico che chi si trova a decidere insista in questa situazione. Prima tante persone disabili sono morte dentro le RSD, non fuori, e ora li tengono carcerati, perché? Avanti Gianfranco con tutte le azioni che saranno necessarie. Noi siamo accanto a te». (S.B.)

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