Tamburi lontani per le persone con disabilità e le loro famiglie

«Qualche settimana fa – scrive Marco Castaldo – il presidente del Consiglio Conte, insieme ad alcuni altri rappresentanti del Governo, suonava i tamburi insieme ad alcuni ragazzi con disabilità in Piazza Montecitorio e lo stesso Conte dichiarava che il Governo è sempre attento e vicino ai disabili e alle loro famiglie per risolvere le problematiche che le affliggono. Il suono di quei tamburi, però, le persone con disabilità e le loro famiglie non l’hanno sentito mica tanto…! E soprattutto quei tamburi li vorrebbero vedere non solo suonati, ma anche ascoltati!»

Immagine sfuocata di persona in carrozzinaQualche settimana fa il presidente del Consiglio Conte, insieme ad alcuni altri rappresentanti del Governo, suonava i tamburi insieme ad alcuni ragazzi con disabilità in Piazza Montecitorio e lo stesso Conte dichiarava che il Governo è sempre attento e vicino ai disabili e alle loro famiglie per risolvere le problematiche che le affliggono. Il suono di quei tamburi, però, le persone con disabilità e le loro famiglie non l’hanno sentito mica tanto…! Come non hanno potuto sentire neppure la vicinanza del Governo durante la tragica pandemia del coronavirus che ha obbligato a una forzata clausura migliaia di soggetti con disabilità, insieme ai relativi caregiver familiari o ai loro assistenti personali.
Oppure, forse ancora in una posizione peggiore, quel suono non è arrivato alle orecchie delle migliaia di soggetti portatori di qualche handicap fisico, intellettivo o relazionale che risiedono nelle RSA o in similari strutture di assistenza. Questi, infatti, non solo sono stati privati della loro libertà di movimento, seppur limitata, ma anche di tutto quel supporto relazionale ed emotivo di cui i soggetti portatori di una disabilità relazionale necessitano, più di qualsiasi altro tipo di assistenza.
A tutt’oggi, in molti casi, queste persone non possono vedere liberamente i propri familiari e, tanto meno, fruire di quelle piccole libertà di movimento così importanti per il loro equilibrio psicofisico. Ma tant’è, tutto questo è ovviamente per il loro bene e, come per tutti gli altri, i disabili si sono adeguati alle stringenti limitazioni imposte dai vari provvedimenti del Governo, ma ciò non esime dal fatto che costoro hanno sofferto maggiormente a causa di queste situazioni. Sarebbe stato necessario, pertanto, provvedere all’organizzazione di una speciale forma di supporto, sia esso sanitario, logistico, psicologico e anche economico.
Di fatto, ad esempio, i soggetti disabili non hanno avuto una corsia preferenziale e/o un’attenzione particolare per quanto concerne i tamponi per verificare la positività o meno al Covid; ciò diventa indispensabile in situazioni di particolare convivenza con familiari o caregiver (badanti, per capirsi) che possono, a loro volta, essere infettati e infettare altre persone al di fuori del loro ambito lavorativo.
Non è stata prevista, inoltre, una particolare procedura o protocollo sicuro e definito, per attivare specifiche modalità di intervento per il supporto a queste categorie di persone; i Comuni, le ASL e i Consorzi Socio-Sanitari hanno dovuto attivare procedure di loro iniziativa, generando, di fatto, disparità e disomogeneità di supporto a seconda dei territori, delle Regioni e delle relative capacità di organizzazione.
Molte delle Amministrazioni Locali si sono avvalse delle varie Associazioni di volontariato per sopperire alle loro incolpevoli – ma non sempre – impossibilità di intervento. Tutto ciò ha generato confusione, gravi disparità di trattamento, senso di abbandono e grande delusione da parte di molte persone con disabilità e delle loro famiglie che credono e si battono ogni giorno per vedere soddisfatti i propri diritti di eguaglianza, integrazione e autonomia e che, invece, nel migliore dei casi hanno potuto fruire della benevolenza e della solidarietà del Terzo Settore in mancanza di un sistema e di un servizio pubblico di assistenza organizzato, unificato ed efficiente.

Dal punto di vista economico, poi, le cose non sono andate certamente meglio. L’unico provvedimento evidente per le persone con disabilità e le loro famiglie è stato l’aumento del monte ore della Legge 104/92, che prevede la possibilità di fruire di permessi lavorativi per la persona con disabilità o per il familiare che presta assistenza. È vero, c’è stato anche l’aumento delle pensioni di invalidità a 516 euro mensili, ma questo è stato il risultato di un pronunciamento della Corte Costituzionale che aveva dichiarato l’importo di 285,66 euro dell’assegno di invalidità non sufficiente a garantire agli invalidi civili «i mezzi necessari per vivere», in violazione dell’articolo 38 della Costituzione. Ancora oggi mi domando se dovevamo disturbare la Corte Costituzionale per rendercene conto! Certo è che comunque nemmeno 516 euro al mese possono verosimilmente permettere a una persona disabile, a maggior ragione, di sopravvivere, senza disturbare neppure vagamente la “dignità” per poter raggiungere questo agognato obiettivo.
Poi, fortunatamente, molte persone con disabilità, grazie alla loro pervicace volontà di integrazione, riescono a trovare un lavoro o, magari, sono pensionati che fruiscono di un’indennità di pensionamento da lavoro e non di invalidità. Questi, però, devono ogni giorno fare i conti con il sofferente sistema di supporto economico pubblico, che non riesce minimamente a far fronte alle necessità che il soggetto con disabilità deve sopportare per poter tentare di avere una vita integrata e autodeterminata. Questo avviene comunemente, in tempi cosiddetti “normali”, ma le difficoltà sono decisamente accresciute durante la pandemia, il lockdown e la conseguente grave crisi economica.

In questo periodo, per soffermarsi ad esempio su una delle tante questioni aperte, chi si avvale dell’assistenza di un caregiver deve fare i conti con gli aspetti organizzativi che ciò comporta; numerosi di questi assistenti, infatti, sono stranieri, molti dei quali provenienti da Paesi che sono stati inseriti nella lista di quegli Stati considerati a rischio per il numero di contagi. In questi casi l’assistente ha preferito tornare nel proprio Paese d’origine, oppure, preoccupato di perdere il lavoro e, allo stesso tempo, conscio di generare un grave problema per la mancata assistenza, ha scelto di prolungare sine die la propria permanenza in Italia.
Questa condizione genera inevitabilmente confusione, stanchezza psicofisica, insofferenza, preoccupazione per il futuro e per i familiari lasciati nel proprio Paese d’origine, insicurezza per la sensazione di impotenza nei confronti di provvedimenti che vengono percepiti come imposizioni, talvolta anche considerate sproporzionate e vessatorie. Non si è pensato, quindi, di supportare anche economicamente il datore di lavoro, attraverso, ad esempio, una sorta di bonus una tantum per il pagamento degli stipendi e/o per contribuire al pagamento per alcuni mesi dei contributi INPS in favore del lavoratore.
Molte famiglie, inoltre, spaventate dalla situazione pandemica, hanno purtroppo deciso di licenziare i lavoratori stranieri, generando, di fatto, un’ulteriore crisi economica nei confronti di soggetti già di per sé stessi fragili e a rischio di emarginazione.
Che dire, quindi, della situazione attuale? Con l’estate, infatti, molti di quei lavoratori stranieri, hanno optato per un breve periodo di vacanza nei propri Paesi di origine. Adesso, però, al momento del ritorno, le disposizioni del Governo prevedono la quarantena per coloro che tornano in Italia; in alcuni casi solo fiduciaria, in altri obbligatoria e controllata dagli organi preposti. Ma in entrambe le situazioni, questi lavoratori dove possono effettuare questo periodo di quarantena? Nella maggior parte dei casi, infatti, il datore di lavoro non è nella possibilità di garantire una condizione di sicurezza sanitaria sufficiente per se stesso e per il lavoratore, perché difficilmente si dispongono di spazi adeguati al distanziamento all’interno delle proprie abitazioni. Ne consegue, pertanto, la necessità di organizzare ospitalità presso strutture pubbliche oppure private (hotel, B&B ecc.) per i quattordici giorni di quarantena previsti dalla legge, ma queste responsabilità sono in campo alle relative ASL che operano in modalità disomogenea a seconda dei territori e, in molti casi, non attivano alcun servizio di supporto.
E ancora: chi paga la permanenza nelle eventuali strutture private per il periodo di quarantena e chi paga lo stipendio al lavoratore per lo stesso periodo, pur senza l’effettivo servizio prestato all’assistito? Logica, buon senso e giustizia sociale vorrebbero che tali spese fossero sopportate dal sistema pubblico e non certamente a carico del lavoratore, né tanto meno del datore di lavoro, soggetto con disabilità.

Nell’àmbito infine dei vari stanziamenti economici messi in campo dal Governo, si evidenzia, nel cosiddetto “Decreto Rilancio” [Decreto Legge 77/20, N.d.R.], l’aumento del Fondo per la Non autosufficienza di 90 milioni di euro e quello del Fondo per l’assistenza ai disabili gravi di 20 milioni. Di questi 90 milioni per il primo Fondo, 20 dovranno necessariamente essere utilizzati per i progetti di vita indipendente: queste sono le indicazioni del Governo che, di fatto, delega però totalmente alle Regioni la stesura delle modalità di accesso e fruizione dei progetti di vita indipendente, predisponendo delle linee guida che vengono di volta in volta applicate con grandi disparità di trattamento a seconda dei territori.
In generale, purtroppo, le Regioni impongono clausole di accesso sempre più strette e che non rispecchiano affatto lo spirito di questi progetti i quali, nell’intenzione del Legislatore, dovrebbero garantire contributi economici sufficienti per determinare l’autodeterminazione del soggetto con disabilità e l’integrazione in àmbito educativo, lavorativo e sociale, ma che invece, sempre più spesso, risultano meri contributi assistenzialistici, che non permettono di sostenere le spese per l’assunzione degli assistenti personali, uniche vere figure fondamentali che possono determinare l’autonomia e l’autodeterminazione dei portatori di disabilità.
In tal senso continua ad essere indispensabile e, sempre più impellente, la predisposizione di una legge nazionale sui progetti di vita indipendente che prescriva regole certe, responsabilità e vincoli economici di spesa.
Desta poi non poche perplessità l’istituzione del Fondo di sostegno per le strutture semiresidenziali per persone con disabilità che prevede un ulteriore stanziamento di 40 milioni di euro per il 2020. Come spesso accade, infatti, i supporti economici non vengono direttamente investiti per i soggetti bisognosi, ma sono bensì rivolti a strutture e organizzazioni che spesso non rispondono alle reali necessità dei fruitori e che, in questo caso, potrebbero utilizzare tali risorse anche per necessità diverse e difficilmente controllabili.

In conclusione, pur consapevoli delle difficoltà di ordine organizzativo, gestionale ed economico che questa pandemia ci riserva ogni giorno e pur constatando l’effettivo e imponente sforzo messo in campo per contrastare gli effetti di questa grave crisi economica, non possiamo esimerci dal constatare che viene effettivamente riservato più interesse e più attenzione alla querelle discoteche aperte o chiuse, movida sì oppure no, vacanze all’estero o in patria, piuttosto che occuparci di coloro che i tamburi li vorrebbero vedere non solo suonati, ma anche ascoltati!

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