Competitività e disabilità antitetici? No, è la “tossina della discriminazione”!

«Come possono stare insieme disabilità e sviluppo?»: parte da questa domanda, e dalle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’approfondita analisi di Gianfranco Notari, che conclude: «Competitività e disabilità possono sembrare, ad una lettura semplicistica, antitetici. In realtà è la discriminazione, la sottostima, gli stereotipi deformanti e la mancata inclusione lavorativa di così tanti nostri concittadini che sono in antitesi con la visione di un futuro sostenibile. È necessario allora bonificare dalla tossina della discriminazione la visione delle persone con disabilità»

Realizzazione grafica con un crepaccio che divide una persona con disabilità da tutte le altreL’11 giugno 2019, nell’annunciare la nuova Strategia delle Nazioni Unite per l’inclusione della disabilità, il segretario generale António Guterres  ha affermato: «L’inclusione della disabilità è al centro della promessa dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo sostenibile» (1).
È un’affermazione particolarmente forte, che indica con decisione il fondamento sul quale incardinare l’intera prospettiva dello sviluppo sostenibile. Perché questa scelta ci provoca così profondamente? È evidente che l’approccio verso l’inclusione della disabilità non solo non è considerato di norma al centro di politiche generali, ma ancor meno assume il ruolo determinante sul futuro che invece gli attribuiscono le espressioni così potenti che Guterres ha scelto di usare.
Ma disabilità e sviluppo come possono stare insieme? Lo sviluppo e il futuro li abbiamo sempre concepiti indissolubilmente legati alla corsa alla competitività, in questa sfida alla supremazia economica a tutti i costi che non può e non deve subire rallentamenti di sorta. E la disabilità e le fragilità umane in genere non sembrano avere possibilità di cittadinanza in un mondo fondato in questo modo. Allora come la disabilità può essere posta addirittura a fondamento della “promessa” di un futuro sostenibile?

Nel suo editoriale per l’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) dell’11 settembre scorso, Donato Speroni metteva opportunamente in evidenza una questione di fondo: «Il capitalismo è compatibile con la costruzione di un mondo sostenibile?» (2). È chiaro che il capitalismo ha il suo “cuore pulsante” nella competitività. E allora, per continuità di ragionamento, chiediamoci ulteriormente: la “fragilità” ha cittadinanza a pieno titolo in un mondo così competitivo?
Oggi noi abbiamo le prove evidenti che la corsa alla competitività, così come l’abbiamo sempre concepita, non funziona più: lo vediamo nelle conseguenze sul nostro pianeta e sulle condizioni di vita di buona parte della popolazione mondiale. La competitività incontrollata, quindi, si è rivelata la strada peggiore per costruire un futuro accettabile. Eppure c’è una resistenza, quasi un’incapacità di fatto a tradurre in azioni concrete il necessario cambio di rotta globale.
C’è qualcosa che ci tiene ancora fermi al palo, che ci rallenta. Ma il forte richiamo del Segretario Generale delle Nazioni Unite ci dà una traccia inequivocabile: senza la fine del respingimento sociale delle persone con disabilità, tutto il futuro sembra compromesso ed è in conseguenza di ciò che noi sperimentiamo quell’impotenza a cambiare che stentiamo a spiegarci.

Nella competitività così come ce la raffiguriamo (“il più forte mangia il più debole”, stereotipo tipico del darwinismo sociale) troviamo i tratti dell’eredità del mito del superuomo, dell’uomo nuovo del ‘900 che, dopo le guerre e gli stermini del secolo scorso in nome della supremazia della razza e del disprezzo per la fragilità umana, si è rigenerato nel modello dell’homo oeconomicus che persegue obiettivi di supremazia questa volta economica, anche a costo di irrazionali scelte autodistruttive globali (3).
Siamo così incapaci, così lenti a cambiare rotta perché siamo portatori “asintomatici” (inconsapevoli, intendo) di una tossina: la tossina della discriminazione verso chi non corrisponde apparentemente alla mitologia di un immaginario di forza e di autarchia individuale e collettiva. La tossina della discriminazione nei confronti delle persone con disabilità che mina nelle fondamenta la visione del Futuro comune. È quella tossina che ci porta istintivamente a separarci da coloro che reputiamo di intralcio per la nostra corsa, coloro che rappresentano lo “scarto” per una società che si autocompiace e si autoinganna nel credersi autosufficiente ed efficiente “in eterno”.
Abbiamo in orrore la fragilità nostra e altrui, rifuggiamo solo l’idea di dover dipendere da qualcun altro, ci ostiniamo a tenere in piedi nell’ordinarietà di ogni fase della nostra esistenza una sorta di teatrino autarchico dove non ha spazio la vulnerabilità altrui e soprattutto quella, inconfessabile, nostra. E allo stesso modo, paradossalmente, sembrano comportarsi Regioni, Stati, intere culture: pur vivendo in un mondo sempre più interdipendente, continua a sopravvivere e ad avere così tanta presa questa anacronistica idea di supremazia, come vediamo in non pochi leader mondiali e purtroppo tristemente anche in alcuni nostrani.
Quali conseguenze comporta il corto circuito di questo rifiuto “ideologico” della “fragilità” e di una discriminazione diffusa che genera un vulnus nella convivenza civile?

Questa tossina che continuiamo a diffondere, crea una distorsione della percezione della realtà. Una distorsione funzionale e “necessaria” a mantenere questa distanza, che compromette le scelte individuali e purtroppo condiziona anche politiche e dinamiche sociali, in una sorta di “automatismo” inconsapevole, che di fatto si oppone e contraddice la visione di un Futuro davvero equo e sostenibile. È ciò che delinea la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, divenuta (è sempre bene ricordarlo!) Legge dello Stato Italiano nel 2009 (Legge 18/09) (4).
Penso alla distorsione più diffusa e pervicace: “la disabilità è una minoranza”. Noi ci comportiamo facendo finta che le persone con disabilità siano una sparuta minoranza. I dati in realtà ci dicono che:
° il 15% della popolazione mondiale è costituita da persone con disabilità (5);
° 1 cittadino su 6 dell’Unione Europea è portatore di una disabilità più o meno grave (6);
° in Italia il dato non è ancora chiaro e univoco, ma l’incidenza degli italiani con disabilità sulla popolazione totale oscilla tra il 5,2% dell’ISTAT (7) e le stime del CENSIS che parlano di un più realistico 7,9% (8), cioè 4,8 milioni di persone su poco più di 60 milioni (9).
Questo è un dato già di per sé significativo. Ma le persone con disabilità non sono “funghi” isolati sul territorio: hanno famiglia propria se adulti/anziani, genitoriale se minori/giovani. Sappiamo bene, per altro, che altre famiglie parentali sono coinvolte nelle attività ordinarie e straordinarie di supporto ad un nucleo familiare più giovane o con più bisogni, tanto più se in presenza di una disabilità. Possiamo ipotizzare quindi, che siano di massima tre i nuclei familiari direttamente coinvolti a sostegno delle necessità del singolo congiunto con disabilità (10).
Questo semplice presupposto di buon senso, pur nella sua approssimazione, fa però emergere una dimensione tutt’altro che minoritaria: potrebbe essere direttamente coinvolta dalla disabilità ben la metà dei nuclei familiari in Italia (11)! Questo dato non dovrebbe sorprenderci: ognuno ne trova conferma nelle sue relazioni quotidiane (quanti tra i nostri colleghi di lavoro hanno un familiare con disabilità?), se non nelle proprie condizioni personali, familiari o di prossimità. Eppure c’è un paradossale ritardo nella percezione comune, una difficoltà diffusa a recepire la reale presenza “ordinaria” della disabilità, specie se adulta, nella vita del Paese: «Una forte sottostima, ai limiti della rimozione» (12).
L’immaginario condiviso sia a livello individuale che, purtroppo, anche istituzionale, porta a percepire la disabilità anzitutto come una condizione individuale e statica dell’esistenza di un numero circoscritto di soggetti “sfortunati”, “eterni bambini” (sic!), isolati e confinati in un anacronistico “mondo a parte” in passiva attesa di cure e assistenza. In realtà c’è una buona fetta di italiani che subisce “gravi limitazioni” alle attività della propria vita, limitazioni che «dipendono largamente dalla società e dal contesto». È il “nuovo” paradigma di riferimento (in realtà sarebbero già trascorsi quasi vent’anni anni dalla sua definizione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001 (ICF: Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), quello che sottolinea appunto il ruolo determinante dell’ambiente sfavorevole e la dimensione non individuale, ma sociale della disabilità, cioè «una manifestazione, particolarmente grave, dell’incapacità di una società di assicurare (o avvicinare) l’eguaglianza di opportunità alle persone con problemi di salute» (13). Riconoscere che esiste un ambiente sfavorevole, un contesto che impone gravi limitazioni risulta decisivo. La cosiddetta “fragilità” delle persone con disabilità, data ampiamente per scontata, ci si rivela allora come in realtà il frutto avvelenato di un deciso respingimento (14).

Competitività incontrollata e percezione distorta della realtà (quantitativa e qualitativa) sembrerebbero andare paradossalmente a braccetto e non proprio verso risultati auspicabili. Non pare davvero che una visione distorta aiuti nel programmare politiche efficaci o nel definire chiari obiettivi di impresa.
Ma si opporrà: «Il vero problema è l’aspetto economico, la produttività!». Sono queste motivazioni di ordine economico che “impedirebbero” di fatto, il processo di inclusione sociale delle persone con disabilità. Affrontiamo allora la questione che le sintetizza tutte: l’inclusione lavorativa.

Vogliamo ancora far riferimento alle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite: «L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha scoperto che escludere le persone con disabilità dal mondo del lavoro può sottrarre ai Paesi fino al 7% del loro Prodotto Interno Lordo. Realizzare i diritti delle persone con disabilità è una questione di giustizia oltre che un investimento di buon senso nel nostro futuro comune [grassetto nostro nella citazione, N.d.R.]». E continua portando il ragionamento alla sua logica conseguenza pratica: «Voglio che le Nazioni Unite siano il datore di lavoro di elezione per le persone con disabilità» (15).
L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità è l’altra traccia concreta per indagare il rapporto tra competitività e “fragilità”. Su questo Guterres propone una scelta di concretezza, le Nazioni unite come primo Employer of Choice [“datore di lavoro”, N.d.R.] per coerenza con gli indirizzi di equità e i valori su cui è fondata l’Istituzione che rappresenta. Solo belle parole di circostanza? Non credo.
C’è invece una radicalità che ci colpisce. Ed è una radicalità a cui non si può rinunciare, proprio per scongiurare il rischio di un “Nessuno sia lasciato indietro” svuotato della sua sostanza costitutiva, di una sostenibilità sociale “zoppa”, di una visione del futuro compromessa da “ma” e “però”.

Cosa succede in Italia sul fronte dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità? Che il nostro Paese ha violato l’articolo 5 della Direttiva Europea 2000/78, per non avere imposto «a tutti i datori di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili», come recitava nel 2013 una Sentenza prodotta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea [se ne legga ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.]. Purtroppo da allora non sembra cambiato molto, visto che il più recente e già citato Rapporto ISTAT rilevava un tasso di disoccupazione tra la popolazione con disabilità in età attiva di circa il 70% (16)! Ma anche in questo caso i “NO” e le obiezioni si fondano su sbrigative distorsioni della realtà.
Si pensa immediatamente alla scarsa produttività e alla perdita economica di una formazione con poche speranze di successo. Le ragioni del respingimento in nome della competitività, sembrerebbero quindi incardinarsi con più forza su due aspetti: la semplificazione del concetto di competitività, ridotto al solo aspetto della velocità e soprattutto il presupposto distorto che un lavoratore con disabilità “di per sé” costituisca comunque una perdita e sia “più lento” o meno produttivo di un qualsiasi altro lavoratore. Ma ne siamo davvero certi? Tutti i lavoratori non disabili sono veloci, efficienti, produttivi?
Anche in questo caso determinante risulta il rifiuto “a priori”, il pregiudizio. Basterebbe mettere alla prova il candidato e, con i giusti sostegni, dargli almeno una opportunità “sulla base di uguaglianza con tutti”. E magari, dare un’occhiata a qualche autorevole studio internazionale, come quello sui vantaggi dell’inserimento lavorativo di persone con la sindrome di Down, della multinazionale di consulenza del lavoro McKinsey (17), che mi dicono sia tutt’altro che un’opera pia! D’altronde la competitività (per fortuna di molti di noi!) è fatta non solo di velocità, ma anche di puntualità, di fedeltà e lealtà, di precisione, di qualità, di creatività, di buon clima sul posto di lavoro, cose che chi fa impresa sa bene, incidono enormemente sui risultati di esercizio e sull’azione a medio termine.

Le parole del segretario generale Guterres ci dicono pertanto due cose: che la mancata inclusione lavorativa della «più grande minoranza al mondo» (18) e la visione di un futuro sostenibile sono sostanzialmente incompatibili.
È necessario allora bonificare dalla tossina della discriminazione gli ambienti di lavoro e la nostra visione delle persone con disabilità. È necessario riconoscere come inaccettabile il respingimento sociale e la chiusura discriminante del mondo del lavoro che, nella pratica quotidiana, si traduce nel preferire condanne della Corte Europea e pagamento di sanzioni, pur di non assumere personale con disabilità, specie se intellettiva o relazionale, rinunciando purtroppo ad utilizzare tutte le esperienze positive maturate sul territorio nazionale (19) e tutte le risorse e le agevolazioni che la normativa rende disponibili (20). Scegliendo cosi, davvero si lasciano indietro non pochi, ma una grande fetta dei nostri giovani. Lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha voluto sottolineare con forza: «Il nostro Paese ha nei nostri concittadini con disabilità un giacimento di energie, di risorse, di contributi, di cui si priva perché non li mette adeguatamente in condizione di potersi esprimere e realizzare» (21).

In conclusione, competitività e disabilità possono sembrare, ad una lettura semplicistica, antitetici. In realtà è la discriminazione, la sottostima, gli stereotipi deformanti e la mancata inclusione lavorativa di un così alto numero di nostri concittadini che sono in antitesi con la visione di un futuro sostenibile.
La tossina della discriminazione di cui siamo portatori “asintomatici” ne compromette in maniera determinante la programmazione, l’attuazione e gli esiti, perché mostra, quando non la occulta con rimozioni, distorsioni e sbrigative rappresentazioni “di comodo”, la stessa profonda ingiustizia e iniquità di sguardo che ci ha portato irrazionalmente quasi a distruggere il nostro Pianeta, a compromettere il nostro stesso Futuro.
Davvero non è più possibile continuare a fare “la provincia del mondo”, considerando pura teoria inapplicabile “da noi” documenti e pronunciamenti internazionali, magari allungandone i tempi di recepimento fino all’inverosimile. Credo invece che l’Italia in particolare possa ancora una volta porsi alla guida in Europa di un cambiamento radicale concreto e credibile. Sono certo che ne abbiamo la forza, gli strumenti e le capacità (22).
Allora: la “fragilità” ha cittadinanza a pieno titolo in un mondo così competitivo? Basterà provare a rispondere, nella concretezza, nei diversi vissuti in cui ci troviamo ad operare, provando a superare pregiudizi e schemi mentali discriminanti, accettando un po’ il rischio di cambiare prospettiva, per cominciare a costruire un Futuro sostenibile, accessibile e inclusivo davvero per tutti… anche per noi che eterni giovani non siamo!
Tocca ad ognuno di noi assumere questo impegno come proprio e farsene a sua volta portatore.

Genitore e attivista per i diritti delle persone con disabilità. Il presente approfondimento è già apparso nel sito del progetto “FUTURA Network” e viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

Note:
(1) António Guterres UN Secretary-General, Opening at the 12th Session of the Conference of States Parties to the Convention on the Rights of Person with Disabilities, 11 giugno 2019.
(2) Donato Speroni, È possibile costruire un capitalismo sostenibile?, editoriale dell’11 settembre 2020 dal sito web dell’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile).
(3) Per un significativo cambio di prospettiva su come la razionalità non sia più la chiave interpretativa assoluta per leggere e comprendere la contemporaneità, si veda Pankaj Mishra, L’età della rabbia, in «L’Internazionale», n°1190, 3 febbraio 2017 e anche Noah Feldman, Cool War. Stati Uniti e Cina. Il futuro della competizione globale, Feltrinelli 2014.
(4) Sul cambio di paradigma operato dalla Convenzione ONU, si veda cfr. Cecilia Maria Marchisio, Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione, Carocci 2019 [di questo libro si leggano anche i nostri approfondimenti a questo e a questo link, N.d.R.].
(5) Dal sito web delle Nazioni Unite, Disability Inclusion Strategy. A Strategy for Action.
(6) Commissione Europea, European Disability Strategy 2010-2020: a Renewed Commitment to a Barrier-Free Europe, Bruxelles, 15 novembre 2010.
(7) ISTAT, Conoscere il mondo della disabilità, Roma 3 dicembre 2019. Si tenga presente che la stima è stata effettuata sulle persone che risiedono in famiglia, escludendo quelle che vivono in strutture residenziali.
(8) CENSIS, Rapporto sulla Disabilità in Italia, 2014. Proiezioni per il 2020.
(9) Al 1° gennaio 2020, totale della popolazione 60.244.639: ISTAT, Rilevazione demografica anagrafe centralizzata, 2020.
(10) Assumiamo il presupposto che associa ad ogni persona con disabilità il suo nucleo familiare diretto e i due nuclei familiari di prossimità: nel caso di minori o giovani con disabilità, i rispettivi nonni a supporto della coppia genitoriale più giovane; nel caso di adulti/anziani almeno due nuclei familiari tra figli, nipoti o congiunti diretti.
(11) Considerando quindi il moltiplicatore 3, dai 4,8 milioni (7,9%) di persone con disabilità otterremmo 14.277.980 famiglie direttamente coinvolte che rappresenterebbero il 54% del totale di 26.192.443 famiglie in Italia (2019). Il dato è molto approssimativo ed è puramente indicativo poiché, tra l’altro, non tiene conto della presenza in uno stesso nucleo familiare di 2 o più componenti con disabilità. Tuttavia resta significativa l’incidenza così alta rispetto invece alla comune percezione di “minoranza isolata” come spesso viene avvertita anche dagli stessi familiari.
(12) CENSIS, La disabilità oltre l’invisibilità istituzionale – Percezione, vissuti, offerta di cura e assistenza” (2014), p. 14.
(13) ISTAT, Conoscere il mondo della disabilità cit., p. 9.
(14) La fragilità dipende fortemente dal contesto sociale e ambientale e dagli «aggiustamenti ragionevoli» che si accetta di mettere in atto o meno: sappiamo bene ad esempio che una persona paraplegica sarà più o meno disabile, cioè più o meno gravemente limitata nelle attività della sua vita, a seconda della città dove gli sarà capitato in sorte di vivere. E «la Convenzione ONU tutela le persone con disabilità perché sono discriminate, non perché sono fragili»: cfr. Natascia Curto e Cecilia Maria Marchisio, I diritti delle persone con disabilità. Percorsi di attuazione della Convenzione ONU, Carocci 2020, pp. 20-25; in particolare cfr. anche il concetto di “gravità” alle pagine 118-132 [di questo libro si legga ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
(15) Guterres, Opening at the 12th Session cit.
(16) «Le persone con disabilità incontrano numerosi ostacoli quando provano ad inserirsi nel mercato del lavoro; […] L’analisi della condizione occupazionale mette chiaramente in evidenza il forte svantaggio della popolazione con disabilità nel mercato del lavoro: è occupato solo il 31,3% delle persone tra i 15 e i 64 anni con limitazioni gravi contro il 57,8% delle persone senza limitazioni, nella stessa fascia d’età»: ISTAT, Conoscere il mondo della disabilità cit., pp. 59-60. Si precisa che l’Istituto di Rilevazione ha utilizzato in questo rapporto la locuzione «persone con limitazioni gravi» in modo intercambiabile con «persone con disabilità».
(17) McKinsey & Co., The value that employees with Down syndrome can add to organizations, marzo 2014.
(18) Dal sito web delle Nazioni Unite, Disability Inclusion Strategy cit. Un’affermazione che appare quasi un ossimoro!
(19) Tra tutte si veda la pluriennale attività di ricerca e sperimentazione del Centro Studi DiVi (Centro Studi Interdipartimentale per i Diritti e la Vita Indipendente) (progetti WIDE, VeLa e 19 pari), esperienza fondata proprio sulla concreta attuazione e diffusione in Italia dei princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Cfr. Cecilia Maria Marchisio e Natascia Curto, Diritto al lavoro e disabilità. Progettare pratiche efficaci, Carocci 2019.
(20) Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) e tutta l’ulteriore normativa che a livello regionale ne favorisce l’applicazione.
(21) Intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità 2019, in occasione della presentazione del citato Rapporto ISTAT Conoscere il mondo della disabilità.
(22) In generale, quel “cambio di approccio” nel Paese, auspicato da Enrico Giovannini, Dalla crisi alla ripresa: trasformare l’Europa e l’Italia nel segno dello Sviluppo sostenibile, intervento di apertura del IV Festival dello Sviluppo sostenibile, Roma, 22 settembre 2020.

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