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Coronavirus e sindrome di Down: le conclusioni di uno studio internazionale

Giovane con sindrome di Down con la mascherina

Una giovane con sindrome di Down con la mascherina

È stato pubblicato nei giorni scorsi uno studio l’impatto che il contagio del coronavirus ha avuto, e sta ancora avendo, sulle persone con sindrome di Down, prodotto dall’organizzazione internazionale di ricercatori sulla sindrome di Down T21RS e originato dalle risposte al questionario internazionale di cui avevamo dato notizia nel giugno scorso anche sulle nostre pagine.
A questo e a quest’altro link sono disponibili rispettivamente la pubblicazione originale (in inglese) dedicata allo studio e il poster (in italiano) che ne riassume i principali esiti. Da parte nostra, però, ben volentieri cediamo la parola all’interessante commento di Gabriele Bazzocchi, presidente dell’AIPD di Ravenna (Associazione Italiana Persone Down) e consulente scientifico pro-tempore dell’AIPD Nazionale, organizzazione che ha attivamente contribuito allo studio.

Cosa dunque va a dire lo studio internazionale realizzato da T21RS?
Il lavoro riporta informazioni sui sintomi, i fattori di rischio e gli esiti relativi a 1.046 persone con sindrome di Down che hanno contratto l’infezione da Covid-19 in vari Paesi, ma principalmente in sette di essi, tra cui l’Italia.
I sintomi nelle persone con sindrome di Down sono stati gli stessi che nella popolazione generale: febbre, tosse, fatica a respirare. Sono stati invece più frequenti alterazioni dello stato di coscienza.
I fattori di rischio per l’ospedalizzazione e la mortalità erano sovrapponibili a quelli della popolazione generale: età avanzata, sesso maschile, diabete, obesità, demenza, con in più la presenza di difetti cardiaci congeniti.
Il tasso di mortalità mostrava un rapido aumento sopra i 40 anni ed era circa tre volte più alto di quello dei soggetti di controllo senza la sindrome di Down, anche dopo avere aggiustato il dato statistico, tenendo conto dei fattori di rischio per la mortalità da Covid-19: il rischio di mortalità per le persone con sindrome di Down con più di 40 anni era comparabile a quello della popolazione generale di 85 anni.
Si conclude, quindi, raccomandando di rivolgere una particolare attenzione e cura alle persone con sindrome di Down adulte sopra i 40 anni, ma anche di fornire a tutte le persone con sindrome di Down di ogni età una supplementazione con vitamina D e di sottoporle a vaccinazione sia per l’influenza che per lo pneumococco nel corrente inverno, in aggiunta alle misure che localmente vengono disposte, quali distanziamento sociale, uso della mascherina e lavaggio frequente delle mani.

Come si può vedere, i dati di questo studio sono molto più completi e portano a conclusioni molto diverse da quell’informazione circolata qualche tempo fa, derivante da un comunicato dell’Istituto Superiore di Sanità, il quale affermava un rischio di mortalità per la persona con sindrome di Down dieci volte superiore a quello della pubblicazione generale [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.].

Per altro, dopo avere pubblicato la propria ricerca, T21RS ha voluto diffondere una dichiarazione, rivolta in particolare alle Autorità Sanitarie del Regno Unito, sulla “speciale protezione” che era stata decisa per le persone con sindrome di Down.
Infatti tutte le persone con sindrome di Down sopra i 18 anni erano state inserite nella lista dei soggetti “estremamente vulnerabili” all’infezione da Covid-19, decisione, questa, che rischiava di avere pesanti conseguenze sia sul piano sia fisico che mentale per questa popolazione, perché andava a restringere in modo irragionevole le loro opportunità di occupazione, lavoro, svago e tutte le altre attività, con un impatto negativo sui loro contesti di vita.
La dichiarazione di T21RS (disponibile in originale a questo link) ribadisce quindi come la popolazione con sindrome di Down rappresenti un gruppo eterogeneo i cui rischi di ospedalizzazione e morte sono del tutto simili a quelli della popolazione generale, ad eccezione del fatto che se in questa il rischio di conseguenze gravi si realizza dopo i 60 anni, nella sindrome di Down ciò inizia dopo i 40. Sotto questa età, pertanto le persone con sindrome di Down non devono essere confinate o diversamente trattate, a meno che non soffrano di obesità o epilessia.

Questa dichiarazione si era resa necessaria perché contemporaneamente era stata pubblicata dagli «Annals of Internal Medicine» una lettera da parte di un gruppo di ricercatori sempre inglesi, che invece concludeva che per la popolazione con sindrome di Down esisterebbe un rischio quattro  volte superiore per un’ospedalizzazione, una volta contratto il Covid-19, e che sarebbe di dieci volte il rischio di mortalità, per cui sarebbero persone da proteggere strategicamente.
Come si può capire, è questo un argomento che sta dando adito a molte discussioni, e quando queste vengono condotte sul piano scientifico e non pregiudiziale, ideologico, fanno sempre bene, ma anche a questo studio inglese sono state fatte obiezioni convincenti: i dati, infatti, si riferiscono a 4.053 persone con sindrome di Down di cui solo in 27 sono decedute con un’età media di 61 anni e nessuna di loro aveva meno di 50 anni, per cui non supportano le conclusioni a cui gli Autori della lettera sono arrivati.

In conclusione vale quanto già detto in altre occasioni: normali attenzioni predisposte per tutte le persone a seconda delle locali condizioni di contagio. Particolare cura alle persone con sindrome di Down giovani che abbiano seri problemi di obesità e malattie neurologiche. Particolare cura alle persone con sindrome di Down sopra i 40 anni. Vitamina D e vaccini a tutti.

Presidente dell’AIPD di Ravenna (Associazione Italiana Persone Down), consulente scientifico pro-tempore dell’AIPD Nazionale.

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