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Inclusione a prescindere dalla disabilità: parola di una capa scout a rotelle

Emma Manghi

Emma Manghi con il “Premio ANMIC Parma 2020”, ricevuto il 3 dicembre scorso

«Non vedo l’ora di far vedere che avere quattro ruote in più non è niente di meno»: si riassume così, con le sue stesse parole, il motto che caratterizza Emma Manghi, ventiduenne capa scout parmigiana in sedia a rotelle, vincitrice del Premio ANMIC Parma 2020, assegnato lo scorso 3 dicembre in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità.
Emma, studentessa in Scienze della Formazione presso l’Università di Bologna e attiva anche nel teatro, nello sport e nel volontariato, ha una storia che parla di passione, forza di volontà e fiducia nel futuro. Lei è un unicum nel panorama internazionale, non esiste un altro capo scout con disabilità al mondo («almeno per il momento», ci tiene a sottolineare lei), un traguardo raggiunto con un tenace lavoro.
Nell’intervista che ci ha rilasciato attraversa tutta la sua esperienza nello scouting, dalla prima infanzia alle difficoltà incontrate quando sono iniziati i sintomi della malattia che l’ha portata sulla sedia a rotelle. Un cambiamento radicale che non ne ha modificato gli obiettivi, li ha soltanto adattati, e i risultati le hanno dato ragione. Emma non parla mai di mancanze, ma di competenze, mai di disabilità in senso stretto, piuttosto di limiti che tutti hanno anche se in maniera diversa, la condizione di disabile è soltanto più evidente. Nello scouting come nella vita la “diversità” è una ricchezza, un punto di unione e un mezzo per creare ponti.

Ciao Emma! Cominciamo dalla fine, ovvero dall’ultimo evento che ti ha visto protagonista, il Premio ANMIC Parma 2020, assegnato nella città ducale in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità del 3 dicembre scorso. Giunto alla quinta edizione, questo riconoscimento viene dato a coloro che hanno accresciuto il valore culturale e civile della comunità grazie alle proprie azioni sul fronte dei diritti delle persone con disabilità. Il tuo merito è avere dimostrato con la tua esperienza che una persona con disabilità può impegnarsi nello scoutismo e diventare capo scout. Il premio ti ha fatta conoscere, quale messaggio vorresti arrivasse alla gente?
«Citando il fondatore dello scoutismo, ovvero “Se la strada non c’è inventala! Non importa quali siano i tuoi limiti, trova un progetto in cui credere fino i fondo e portalo a termine anche se sembra una cosa più grande di te”. L’altro messaggio molto importante è credere nei giovani: infatti, anche se non abbiamo molti anni sulle spalle, possiamo e vogliamo dare tanto».

Sei una scout da quando avevi sette anni. Come mai questa scelta non proprio “convenzionale” per una bambina?
«Io vengo da una famiglia di scout. La scelta iniziale è venuta da loro, poi ho continuato per mia volontà. Una cosa che sto notando negli ultimi anni è che lo scoutismo sta crescendo tanto e si sta facendo conoscere sempre di più, sia in Italia che all’estero. Al momento siamo il più grande movimento non formale al mondo, credo sia una grande conquista».

Nell’immaginario collettivo gli scout sono ragazzi zaino in spalla che si ritrovano per “sopravvivere” nei boschi, imparano ad orientarsi con le stelle e dormono nelle tende. Spiegaci brevemente cosa c’è di vero in questo e cos’altro significa essere scout?
«In parte è vero, ma c’è molto di più. Lo scoutismo in Italia si articola in tre fasce di età: i “lupetti” dagli 8 ai 12 anni, gli “esploratori” dai 12 ai 16, i “rover” fino ai 19 anni, con qualche piccola variazione sull’ultima fascia di età tra Associazione laica e cattolica. Dopo di che si può scegliere di proseguire il percorso diventando capi scout e “seguire” una di queste fasce di età.
Le attività che si fanno sono articolate e definite secondo un metodo educativo nazionale in linea con le linee guida dei movimenti mondiali dello scoutismo. Nello specifico, per l’Associazione laica di cui faccio parte, l’obiettivo è quello di creare cittadini consapevoli e attivi, affrontando anche temi di attualità. Ovviamente tutto questo è adattato alla fascia di età, partendo da una dimensione più ludica per i “lupetti”, passando per una dimensione di avventura e cooperazione nel gruppo dei pari negli “esploratori” e arrivando nei “rover”, dove si cerca di creare autoconsapevolezza e autonomia progettuale. In ogni caso il pensiero comune ha radici forti nella misura in cui la natura ha un ruolo di forte rilevanza per le attività che facciamo. Dagli “esploratori” in poi si ha tutta la parte di sopravvivenza che più si associa agli scout nel senso comune, si dorme in tenda e si sperimentano tecniche come la topografia o il pionerismo.
In sintesi potremmo dire che la sopravvivenza e la natura sono inserite in un contesto più ampio e che servono per aumentare la propria autonomia e manualità, oltreché a collaborare insieme agli altri. In più si affrontano temi importanti di attualità, come la violenza di genere, l’immigrazione, la multiculturalità ecc., spesso attraverso realtà presenti sul territorio che affrontano queste tematiche».

Da bambina hai avuto problemi ad integrarti nel gruppo? Quali difficoltà pratiche hai incontrato e come sei riuscita a superarle?
«Quando ero adolescente ho avuto difficoltà a relazionarmi con il mio gruppo dei pari perché avevo una situazione più grande di me che non riuscivo a far capire fino in fondo, non riuscivo a spiegarla ai miei coetanei e purtroppo non sempre ho trovato degli adulti abbastanza sensibili da aiutarmi in questo.
Adesso che mi trovo dall’altra parte cerco sempre di avere un approccio molto diretto e aperto verso la mia situazione fisica. Quando incontro un gruppo di ragazzi nuovo, mi ritaglio un momento per raccontar loro la mia situazione e lasciar fare domande che normalmente non avrebbero il coraggio di fare. Questo penso sia fondamentale per fargli capire quanta normalità ci sia in una situazione che percepiscono così distante da loro o che magari vivono vicino a loro, ma faticano a capire perché non hanno mai osato chiedere o non gli è mai stata data risposta.
Ovviamente non penso che ogni persona con disabilità debba fare lo stesso, ognuno ha il diritto di decidere quanto condividere del proprio vissuto con gli altri. Per me, però, è sempre stata peggio la situazione di “detto non detto” che a volte si viene a creare quando due persone non si capiscono fino in fondo, piuttosto che essere trasparente al 100% e mandare chiaramente il messaggio che qualsiasi domanda sulla mia situazione sia meglio porla a me piuttosto che ottenere una risposta inesatta o parzialmente sbagliata.
Gli ostacoli peggiori sono proprio quelli mentali, che si hanno nei pregiudizi e nelle persone che non riescono ad uscire da uno stereotipo, ma anche da chi per troppo pudore non è venuto a chiedere un consiglio o a fare la domanda nel momento giusto».

Quando sono iniziati i sintomi della malattia e dalle stampelle sei passata alla carrozzina, hai pensato di abbandonare lo scoutismo? Cosa ti ha convinto a proseguire?
«Quando ho iniziato ad avere grosse difficoltà fisiche si è creata una situazione di stallo alquanto surreale. Continuavo a sentirmi dire di fare cose “alla mia portata”. In altre parole, molte persone si aspettavano che io cambiassi obiettivi, hobby e aspirazioni in funzione dei miei nuovi limiti. Questa è stata una cosa che mi sono imposta di non fare mai. Ho cambiato modalità, ma non ho cambiato obiettivi. Il mio gesto di ribellione adolescenziale è stato proprio questo, fare il contrario di quello che mi dicevano gli altri. Io dovevo cambiare e invece sono rimasta la stessa. Però non me ne pento, anzi, anche oggi, se mi pongo un obiettivo, è difficile che mi faccia scoraggiare da circostanze esterne. Mentirei tuttavia se dicessi che nel tempo è stata solo questa la motivazione che mi ha spinto ad andare avanti. Anche perché in un percorso tortuoso ti poni spesso la domanda “ma chi me lo fa fare?”.
Quando sono diventata capo scout volevo cambiare tutto. Volevo rendere tutto alla mia portata e che tutti diventassero sensibili alla disabilità. Poi ho capito che non potevo cambiare tutto in una notte. Adesso il mio obiettivo è cambiare venti teste di ragazzi alla volta. E sono proprio i ragazzi a spingermi a non mollare. Con loro, infatti, parlo di limiti, non di disabilità, faccio vedere come il lavoro di squadra sia fondamentale per arrivare a obiettivi più ambiziosi. Sono curiosi, attivi e assorbono quello che gli trasmetti, ma ti danno anche più di quel che si rendono conto di dare se riesci a trovare la chiave per capirli.
Quello che mi spinge a continuare è sperare di lasciare un segno nelle teste dei ragazzi che incontro, che a loro volta siano dei futuri capi che lasceranno un segno nei ragazzi che incontreranno e che continuando in questo modo ognuno contribuisca a passare il messaggio che si può creare una realtà più inclusiva per tutti, non solo per la disabilità, ma per chiunque si senta in difetto e di non appartenere a uno stereotipo imposto dall’esterno, che di fatto esclude tutte le sfumature possibili e bellissime che esistono».

Emma Manghi

Un’altra bella immagine di Emma Manghi

Ad oggi sei la prima capo scout in sedia a rotelle al mondo, a te piace dire la prima e non l’unica, perché sei convinta che altre persone con disabilità seguiranno il tuo esempio. Ma cosa fa esattamente un capo scout? Qual è l’età media dei ragazzi che segui?
«Un capo scout segue un gruppo di circa 30-35 ragazzi di una fascia di età. Si è sempre in team e quasi mai da soli, proprio per cercare di creare un gruppo di capi eterogeneo che fornisca le esperienze più complete possibili. Durante l’anno bisogna organizzare le attività da far fare ai ragazzi, ovviamente seguendo un progetto educativo e usando determinate modalità.
Per imparare tutto questo si hanno varie modalità: esistono dei corsi per capi scout in cui ti viene spiegato come funziona il metodo scout e tutte le modalità con cui attuarlo e poi si impara dai capi con più esperienza lavorandoci insieme. Questo metodo si è evoluto adeguandosi al periodo storico da quello teorizzato dal fondatore dello scoutismo. Durante l’anno ci si incontra principalmente un pomeriggio nei weekend e una volta al mese si dorme fuori una notte in struttura. D’estate, poi, si fa il campo estivo e si sta via da una settimana a quindici giorni. Durante le vacanze di Natale e di Pasqua si può andare via diversi giorni, ma dipende molto da zona a zona.
Io ho seguito i ragazzi dai 12 ai 16 anni e nell’ultimo anno i bambini dagli 8 ai 12 anni».

Come si concilia la sedia a rotelle con la vita in un campo scout? Hai incontrato altri giovani con diversi tipi di disabilità che vorrebbero seguire le tue orme?
«Una sedia a rotelle in un campo scout si concilia con ingegno e fantasia. Sono molte poche, infatti, le attività e le cose che non si possono adattare in un campo scout, anche se si dorme in tenda e si cucina sul fuoco vivo.
Ad esempio io ho costruito delle piattaforme davanti ai principali servizi del campo come cambusa, lavandini, cucina ecc., che hanno facilitato lo scolo dell’acqua in caso di pioggia in modo che la sedia a rotelle non si arenasse nel fango. Oppure abbiamo creato un modello di costruzioni da campo che fossero adeguate anche per fare il fuoco o mangiare stando in sedia a rotelle.
Ma una cosa che mi preme molto specificare è che non per forza è necessaria una sedia a rotelle per trovare soluzioni alternative, non solo in un campo scout: bisogna cercare di creare soluzioni inclusive per tutti a prescindere dalla disabilità, e questo viene spesso dimenticato.
Faccio un esempio semplice, quanti ragazzi hanno problemi lievi di crescita ai legamenti? Avere piattaforme stabili al campo non sarebbe utile per prevenire incidenti di vario tipo? Come può sentirsi un ragazzo con una creatività molto spiccata, ma una coordinazione scarsa, se gli vengono proposte solo attività fisiche o motorie? Io, ad esempio, durante il campo estivo faccio fare una giornata di “olimpiadi creative” in cui i ragazzi competono in prove varie che possono spaziare dal pelare più velocemente una patata al salto con gli ostacoli, passando per il sudoku o il gioco dei mimi. Attraverso queste piccole cose si fa la differenza.
Ho incontrato tanti ragazzi con diversi tipi di disabilità, il movimento scout è già molto sensibile verso le disabilità psichiche e spero anche che il lavoro che stiamo portando avanti per sensibilizzare sulle disabilità fisiche serva. Voglio però sottolineare che non sono un esempio, nella misura in cui io faccio quello che è adatto per il mio caso. Non sono io che faccio scoutismo accessibile. Lo scoutismo può e deve essere accessibile con gli strumenti che ci sono già, bisogna solo attuarli. Insisto tanto sugli strumenti più che sulle soluzioni perché non voglio che si pensi che ciò che va bene per me sia adatto a tutte le persone con disabilità fisica. E a tal proposito il dialogo è importantissimo, per far capire che bisogna sempre porsi la domanda se si sta facendo la cosa migliore che includa tutti quanti».

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