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I traumi fisici e mentali causati dalla Grande Guerra: una storia dimenticata

"Shell Shock Soldier", 1916

Una foto del 1916 passata alla storia: “Shell Shock Soldier”, ovvero “Soldato colpito da shock da bombardamento”

Si intitola 1917 il film di Sam Mendes ambientato durante la prima guerra mondiale, fra trincee e campi di battaglia. Girato interamente in piano sequenza, ti fa sentire il fango negli occhi, l’odore della paura, il cuore che si ferma quando fischiano le bombe. Una storia ispirata all’esperienza al fronte del nonno del regista, incaricato come i protagonisti della pellicola di portare un messaggio a mano, attraversando da solo un territorio in conflitto devastato dalla morte.
Chissà quante vicende umane sono rimaste sepolte nella memoria di quegli anni, perché alla fine di tutto l’unico desiderio era quello di voltare pagina. Vogliamo qui restituire, nel nostro piccolo, dignità e visibilità alla sofferenza di tanti e all’impegno di quelli che non si sono girati dall’altra parte.

Nel 1915 l’autorevole rivista medica «Lancet» scrisse nero su bianco una nuova espressione: Shell Shock, ovvero “shock da bombardamento”. A coniare il termine fu lo psicologo Charles Samuel Myers che chiamò così i disturbi mentali di migliaia di soldati, ricoverati con tremori irrefrenabili, ipersensibilità al rumore e muscoli irrigiditi. “Automi” che camminavano muti ed estraniati, piangendo in silenzio e mangiando anche cenere, immondizia e terra.
Per lo psicologo quei disturbi da stress post-traumatico, come li chiameremmo oggi, erano causati dal frastuono delle bombe, oppure dal monossido di carbonio respirato sul campo di battaglia. Ma allora perché si trovavano nelle stesse condizioni anche i reduci che non erano stati in prossimità dei bombardamenti?

Charles Samuel Myers

Lo psicologo Charles Samuel Myers, che coniò il termine “Shell Shock” (“shock da bombardamento”)

I quadri clinici attirarono l’attenzione della psichiatria italiana, una scienza emergente, riconosciuta ufficialmente nel nostro Paese dal 1872 e divenuta influente dal 1904 con la legge che istituì i manicomi.
I traumi psichici durante e dopo la prima guerra mondiale sono una pagina rimossa della storia italiana; pochi, infatti, sanno che 40.000 soldati traumatizzati furono rinchiusi nei manicomi statali, lontano da occhi indiscreti (la cifra è stimata probabilmente per difetto), e molti di più tornarono a casa, quasi ogni famiglia ne riaccolse uno. Incapaci di sostenere quegli sguardi assenti e anch’essi provati dall’esperienza bellica, i parenti provavano vergogna e subivano i pregiudizi della gente che cominciò a chiamare quei reduci “scemi di guerra”, giovani uomini costretti a portare occhiali scuri a vita, perché la luce era diventata insopportabile, a convivere vita natural durante con la tachicardia.

Lo stigma diventava violenza negli ospedali psichiatrici, cosicché i luoghi che avrebbero dovuto curare, per paradosso, non fecero che acuire le sofferenze. Di norma il malato mentale era un “essere inferiore”, primitivo e secondo le idee ancora in auge dello psichiatra e antropologo Cesare Lombroso aveva necessità di una disciplina ferrea.
In base a una teoria del neurologo francese Joseph Babinski, molti sintomi manifestati dagli ex combattenti erano legati a fenomeni di isteria, normalmente trattata con l’ipnosi. In effetti questa terapia in alcuni casi funzionò per ridurre il disagio mentale, ma innescò un rovescio della medaglia. L’isteria, infatti, era considerata un male tipico delle donne, “esseri inferiori” e pertanto i soldati che si pensava ne soffrissero vennero accusati di “omosessualità latente”, altro “marchio” da condannare, e vennero “puniti” con aggressioni verbali e scosse elettriche.
Femminilizzazione, omosessualità, malattia mentale: ecco trovate non una, bensì tre “degenerazioni” che la guerra avrebbe rivelato in soggetti predisposti, il pretesto ideale per scagionare il Paese dove la leva era obbligatoria e non si poteva attribuire alla chiamata alle armi la colpa della malattia.

Joseph Babinski

Secondo il neurologo francese Joseph Babinski, molti sintomi manifestati dagli ex combattenti erano legati a fenomeni di isteria

Per far fronte all’emergenza venne istituito un inedito servizio neuropsichiatrico vicino al fronte, necessario per formulare una prima diagnosi e riconoscere i tentativi di “simulazione”. Ad ogni armata fu associato un consulente che sovrintendeva al primo soccorso nei piccoli ospedali da campo collocati poco lontano dalle zone di combattimento; se il problema veniva confermato, si passava negli ospedali di tappa e infine nei manicomi; in caso contrario il soldato veniva rispedito in guerra, provocando ulteriori danni e annullando il percorso di riabilitazione. L’intento era di cura e di studio, poiché si trattava di disturbi ancora poco conosciuti. In realtà nacque una specie di ossessione per smascherare chi fingeva i sintomi, troppo grande, infatti, era il timore di sfoltire le fila dell’esercito.
Il trattamento era molto repressivo, alcuni soldati venivano mandati all’assalto sotto la minaccia di mitragliatrici “amiche”, altri vennero sommariamente giustiziati. Le statistiche ufficiali parlano di poche migliaia di casi di autolesionismo, furono invece un numero difficile da calcolare; l’uso dell’elettroshock diventò la terapia più rapida per rimettere velocemente il fucile in mano ai militari e dopo una breve permanenza nell’ospedale psichiatrico si tornava in trincea.
Ben presto i medici furono costretti ad ammettere che la guerra di per sé causava queste patologie, soprattutto dopo la sconfitta di Caporetto, che causò una vera e propria “epidemia” di casi, come in Gran Bretagna dopo la battaglia della Somme.
Il “vento degli obici”, così in Italia veniva chiamato lo Shell Shock, dal nome dell’arma da fuoco di artiglieria, incrementò in maniera considerevole i ricoveri nei manicomi. Il Sant’Artemio di Treviso fu uno dei più importanti, accogliendo, fino al 1917, 1.575 militari con traumi postbellici.
Dalla sua direzione dipendevano altri cronicari e case di salute collocati in Veneto che, dall’occupazione austriaca sino alla fine del conflitto, registrarono una mortalità del 70% per sovraffollamento e fame.

Il passaggio dei degenti è rimasto impresso nei registri e negli archivi delle cartelle cliniche. Sappiamo che l’84% proveniva dalle truppe, i sottufficiali erano il 6%, il 10% gli ufficiali. I sintomi andavano dalla tristezza all’aggressività, molti sembravano vivere in un incubo ad occhi aperti, il minimo rumore o un’ombra erano una minaccia. Per ogni ricoverato si indagava circa la sua storia presso il sindaco e i carabinieri del paese d’origine, così da scoprire precedenti anomali; nella stragrande maggioranza dei casi gli interpellati riferivano di persone “normali”, padri di famiglia, contadini, gente umile o un po’ più abbiente, al massimo con il vizio di alzare ogni tanto il gomito. Poco meno della metà non ricevette una vera e propria diagnosi, la patologia fu catalogata come “non competenza”, vale a dire che non vi erano le evidenze di una malattia psichiatrica.

Equipaggiamenti dell'esercito italiano abbandonati durante la ritirata da Caporetto nel novembre 1917 (©ANSA-S&M Studio)

Equipaggiamenti dell’esercito italiano abbandonati durante la ritirata da Caporetto nel novembre 1917 (©ANSA-S&M Studio)

Negata quindi dal punto di vista medico la natura patologica, veniva prescritto un periodo di riposo in attesa della soluzione spontanea del problema. Ai familiari che chiedevano notizie si rispondeva rassicurando e, soprattutto all’inizio della guerra, alcuni psichiatri auspicarono una “selezione eugenetica” degli alienati, per separarli dalla parte “sana” dell’esercito, un triste preludio dell’annientamento delle persone con disabilità attuato qualche anno dopo dal regime nazista.
In altri manicomi si praticavano terapie che poco avevano di umano. Al Sant’Artemio di Treviso non vi è notizia che ciò avvenisse, grazie all’apertura culturale del direttore Luigi Zanon dal Bo, contrario ad un’assistenza restrittiva. La sua biblioteca personale, donata al nosocomio dagli eredi, è una delle più complete raccolte dell’epoca di opere sulla guerra e sui traumi mentali che ne derivarono. Ciononostante, influenzato dal contesto e privo delle conoscenze attuali, arrivò erroneamente alla conclusione che i disturbi mentali osservati nei militari non differissero da quelli riscontrati in tempo di pace, quindi la guerra fu assolta.

Meglio delle cronache storiche e dei freddi dati delle cartelle cliniche, ci raccontano quei drammi semisconosciuti le parole lasciate scritte da un ricoverato del Sant’Artemio: «La mia vita e gravemente perseguitata di martiri e di croci perpetue e di suplizi. Il mio povero cuore purga sempre di continuo levatemi quel capello di pezza he oh sulla testa quella facci he mi perseguita giorno e notte e he mi mette martiri nella mia vita io mi hiamo Foglio ma sono destinato a non parlare vorrei domandare a voi dotore una cosa io mi sento la volontà di parlare ma oh paura di essere preso dal destino. Lei mi deve dare un consiglio come devo fare per parlare le mie paure sono tante la faccia he gira sempre davanti ai miei ohhi mi tormenta e mi destina male . Il mio cuore he giorno e notte mi purga e sofre molto la mia vita piena di suplisi».
Dopo la disfatta di Caporetto, alla fine di ottobre del 1917, il manicomio di Treviso fu evacuato e i degenti trasferiti al San Lazzaro di Reggio Emilia. Nel 1918 nella struttura emiliana venne istituito il Centro Psichiatrico Militare di prima raccolta, per velocizzare la valutazione e recuperare il prima possibile i soldati da rimandare a combattere. Dall’esperienza di questo ospedale psichiatrico vennero anche diversi contributi su riviste specializzate riguardanti le cosiddette “nevrosi di guerra nella popolazione femminile”. Oggi il San Lazzaro è un museo di storia della psichiatria e al suo interno una sezione è dedicata alla prima guerra mondiale.

Francis Derwent Wood

Francis Derwent Wood, mentre lavora alla ricostruzione di un volto gravemente sfigurato

Non è un caso che il primo conflitto mondiale sia conosciuto come la Grande Guerra: 16 milioni di morti e 20 milioni tra feriti e mutilati ne fanno infatti uno degli eventi più devastanti della storia dell’umanità. Fu la prima guerra con i carrarmati, i gas, i lanciafiamme e le granate in grado di provocare gravissimi danni fisici. La medicina si trovò di fronte a nuove sfide, doveva cercare di rimediare a ferite mai viste. In condizioni igieniche ai minimi termini, non si andava tanto per il sottile, l’esigenza primaria era salvare vite umane e il lato estetico era superfluo. Moltissimi giovani soldati ne uscirono con il viso deturpato, impossibilitati a tornare ad una vita normale per l’imbarazzo di mostrarsi agli altri che li vedevano come veri e propri “mostri”.
Poteva apparire poca cosa, in fin dei conti avevano portato a casa la pelle, e allora non vi era certo particolare sensibilità per il disagio psicologico. Nessuno faceva caso ai loro pensieri, erano osservati e isolati dal mondo esterno, molti finivano per diventare instabili mentalmente e altissimo era il tasso di suicidi. Tuttavia qualcuno fu in grado di cogliere quel disagio e, anche se era ancora sconosciuta la possibilità di ricostruire un volto, alcuni medici e scultori si rimboccarono le maniche e crearono ex novo tecniche in grado di restituire l’identità ai reduci, aiutandoli a riprendere i rapporti sociali.
Una delle branche mediche che “utilizzò” la guerra come trampolino di lancio fu infatti proprio la chirurgia plastica, se è vero che parte delle conoscenze odierne derivano da quegli anni; ma non va dimenticata nemmeno la ricostruzione scultorea dei visi che ha lasciato anch’essa strascichi nel presente, ad esempio nel lavoro dei protesisti maxillo-facciali specializzati.
In quest’ambito a metà strada tra l’arte e la medicina, spiccano i nomi dello scultore e ufficiale dell’esercito britannico Francis Derwent Wood e dell’artista statunitense Anna Coleman. Il primo creò il Dipartimento Maschere per Deturpazione Facciale, noto tra i militari come il “negozio dei nasi di latta”. L’idea gli venne nel 1915 mentre lavorava come inserviente al 3° London General Hospital di Wandsworth, a sud di Londra.
Wood era una forza della natura, rivoluzionò il reparto gessi e convinse l’ufficiale in comando dell’ospedale a realizzare maschere in metallo dipinto per i soldati gravemente sfigurati dopo delicati interventi chirurgici. Soltanto un anno dopo arrivarono pazienti da altri nosocomi militari per mettersi nelle mani dell’équipe composta da tre scultori, uno specialista in fusione e uno in stampi in gesso. Il processo iniziava proprio con la creazione di uno stampo del viso del soldato che successivamente, con l’ausilio di vecchie fotografie, veniva ricostruito inserendo i “pezzi mancanti” in argilla o plastilina. Sul prototipo veniva scolpita la sottile maschera in rame rivestita d’argento, smaltata in modo da riprodurre la carnagione della persona. Le sopracciglia erano sottilissimi fili di rame saldati in posizione e dipinti. Gli ultimi ritocchi venivano fatti quando il paziente indossava la sua maschera, tenuta in posizione con fili sottili dietro le orecchie o con una sorta di stecche per occhiali.
In «The Lancet», nel 1917, Wood spiegò con queste parole il suo obiettivo: «Il mio lavoro inizia dove il lavoro del chirurgo è completato. Quando il chirurgo ha fatto tutto il possibile per ripristinare le funzioni,  mi sforzo, grazie all’abilità che possiedo come scultore, di rendere il viso di un uomo il più vicino possibile a come appariva prima che fosse ferito».

Anna Coleman

Anna Coleman crea una delle sue maschere facciali

Sempre nel 1917, un’artista nativa di Philadelphia che sino a quel momento nulla aveva avuto a che fare con i feriti di guerra, si trasferì a Parigi con il marito, Maynard Ladd, chiamato a dirigere un dipartimento gestito dalla Croce Rossa americana. Anna Coleman, questo il suo nome, rimase molto colpita dall’esistenza cui erano costretti tanti militari dalla fisionomia trasformata a causa dello scoppio delle bombe o degli spari dei fucili. Scoperto il lavoro di Francis Derwent Wood, decise di seguirne le orme, mettendo al servizio degli altri le sue competenze artistiche.
Per conto della Croce Rossa americana aprì uno studio nel quartiere latino di Parigi, un’isola felice dove i soldati non erano oggetto di scherno e pregiudizio, ma si sentivano accolti in un’atmosfera rilassante. Analizzava con cura le fotografie antecedenti la guerra e correggeva diverse volte lo stampo in argilla, finché il volto non veniva approvato dall’uomo che avrebbe dovuto “indossarlo”. Un impegno certosino e una grande sensibilità anche nella fase di verniciatura, con lo studio del colore dell’epidermide sotto il sole e all’ombra, e nell’applicazione di sopracciglia, baffi e barba di capelli veri. Ogni maschera richiedeva circa un mese di lavoro al termine del quale, pur con il grosso limite di non poter restituire l’espressività, riduceva comunque il disagio legato alle ferite irreversibili. La voce si sparse e negli Anni Venti nacquero altri laboratori per maschere facciali.
Anna diventò famosa e apprezzata e nel 1932 lo Stato francese le conferì il titolo di Cavaliere della Legion d’Onore.
Non era tutto rose e fiori, comunque, alcuni indossavano le protesi soltanto tra un intervento di chirurgia plastica e l’altro, qualcuno non si adattò mai fino in fondo, provando un rapporto di amore-odio con la maschera, perché ricordava la sofferenza e l’aspetto perduto.
Delle 185 protesi realizzate da Coleman, pochissime sono arrivate a noi. Si dice anche che molte persone lasciarono scritto di voler essere sepolte con il loro “viso artificiale” che aveva restituito loro la voglia di vivere dopo la guerra.

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