Anche ascoltare le persone con disabilità sarebbe un “ristoro” importante

Il “divario digitale” vissuto dalle persone con disabilità e i limiti dei servizi rivolti alle persone con disabilità (intellettiva e non), come sono concepiti oggi in Italia e che la pandemia ha messo nudo, ma che esistevano assai prima di essa: c’è molto, in questo approfondimento di Carmela Cioffi, comprese le voci di autorevoli “addetti ai lavori”, quali Carlo Francescutti e Marco Paolini, il quale sottolinea tra l’altro come «dare voce alle persone con disabilità sia un dovere e un’opportunità, un “ristoro” forse meno urgente di quelli economici, ma non per questo meno importante»

Murale realizzato da persone con disabilità della Cooperativa Il Margine di Torino, rielaborazione del "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo

Un murale realizzato dai giovani con disabilità intellettiva e psichica della Cooperativa Il Margine di Torino, rielaborando la celebre opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo “Il Quarto Stato”

Secondo un’indagine di Eurostat del 2020 sui rapporti tra cittadini dell’Unione Europea e internet, il 96% degli svedesi ogni giorno si sveglia e si connette al web: per lavorare, per informarsi, per divertirsi. Facciamo scattare la consueta indignazione, anche perché l’Italia si posiziona in fondo alla classifica europea. Calma, però, il tema di questo approfondimento non è la tecnologia in sé, ma il racconto di come per migliaia di persone italiane con disabilità il lockdown della vita di tutti i giorni non sia arrivato con il Covid-19.
E allora, che cosa c’entrano gli svedesi? C’entrano eccome, perché in realtà persino in Svezia – uno dei Paesi più digitalizzati d’Europa, dove l’uso di Internet da parte della popolazione è tra i più studiati al mondo – si sa poco o nulla su come gli svedesi con disabilità adoperino il web. Lo scorso anno, infatti, Stefan Johansson, ricercatore del KTH Royal Institute of Technology, uno dei centri di ricerca tecnologica più importanti in Europa, con sede a Stoccolma, ha concluso il proprio studio Disability digital divide: the use of the internet, smartphones, computers and tablets among people with disabilities in Sweden, scrivendo che «sono necessarie ulteriori ricerche per espandere la conoscenza di ciò che causa l’esclusione o l’inclusione nella società digitale per le persone con disabilità».

«L’utilizzo del web e dei suoi strumenti, attraverso i vari dispositivi disponibili, è largamente limitato nella popolazione con disabilità in età adulta. E il problema non è certo emerso con la pandemia», sintetizza Carlo Francescutti, direttore dei Servizi Sociosanitari dell’ASFO, l’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale, riportandoci in Italia. «Dopo la chiusura dei centri diurni nel marzo dello scorso anno – ha scritto lo stesso Francescutti sul “Giornale Italiano dei Disturbi del Neurosviluppo” – ho visto e sentito raccontare di tanti tentativi, anche se con diversissima capacità, di utilizzare la tecnologia in modo appropriato e sistematico. Molte persone con disabilità e operatori hanno fatto uso delle chat e delle chiamate video rese possibili dalle app e dai social network installati sugli smartphone. Sarebbe bello che qualche “gruppo” tenesse traccia del fitto reticolo di messaggi scambiati e, magari, qualche volenteroso antropologo potrebbe domani darcene una descrizione e interpretazione».

In attesa dell’auspicato lavoro antropologico, c’è un’indagine del 2019 che ha coinvolto circa 1.700 persone con disabilità in età adulta afferenti ai servizi residenziali e semiresidenziali della Regione Friuli-Venezia Giulia. Questo lavoro dà un’idea immediata di come la marginalità sociale di molte persone con disabilità intellettiva in Italia passi anche per l’impossibilità di accesso al web da parte loro e delle loro famiglie: anche questo è Digital Divide [“divario tecnologico”, N.d.R.]. Oltre il 76% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di non possedere uno smartphone, l’80,2% non ha o non usa liberamente un PC e ben il 67,4% non ha un profilo su Facebook o su qualche altro social network.
«Sono dati – commenta Francescutti – che meglio di altri rendono esplicito il fatto di trovarci di fronte a una popolazione di adulti che, ben prima del “lockdown”, aveva i tratti dell’invisibilità e del ritiro sociale. Per molti di loro – quasi il 50% – il servizio o la casa sono l’unico riferimento di vita, non si vedono molto in giro e, se girano, sono accompagnati. Difficilmente lanciano tweet o intervengono su Facebook. Ancora più difficilmente si organizzano in gruppi e protestano, magari attraverso un flash mob. Sono una popolazione poco presente, poco conosciuta e che quindi è più facile di altre dimenticare. Una popolazione che va cercata, piuttosto che una popolazione che ti viene a cercare».

Certo, la tecnologia di per sé non abbatte il rischio di segregazione per le persone con disabilità intellettiva. Tuttavia, quanto gli strumenti digitali, che si sono rivelati per molti ancore di salvezza durante i vari lockdown e zone rosse, dovrebbero diventare di uso quotidiano per veicolare interventi e servizi di sostegno? Nell’arco di pochissimi giorni, a marzo 2020, in tutta Italia si è assistito alla sospensione dei servizi residenziali e, come la definisce Francescutti, alla «blindatura necessaria» di quelli residenziali, ovvero strutture da cui non si poteva più uscire e con contatti con l’esterno ridotti all’osso: ma alla luce di quello che è successo in quei mesi, il sistema dei servizi per persone con disabilità intellettiva, come è concepito in questo momento in Italia, è veramente in grado di rispondere agli attuali bisogni delle persone?

Ne abbiamo parlato con Mario Paolini, pedagogista, musicoterapeuta, formatore e anche fratello del più famoso attore, Marco.
Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute [se ne legga ampiamente anche su queste pagine, N.d.R.], il monologo che racconta l’orrore degli esperimenti di eugenetica nazista, il famigerato programma Aktion T4, scritto e portato in scena da Marco Paolini, nasce da un lavoro di ricerca di Mario. Da molti anni, infatti, Mario si occupa delle persone con disabilità e di chi sta loro accanto e, nei suoi corsi per operatori, educatori e insegnanti di sostegno, mette in guardia dal rischio di segregazione che può innescarsi nelle comunità.
«Mi è sembrato di vedere – osserva lo stesso Paolini – che il desiderio di ritornare alla normalità abbia un po’ annacquato la voglia, la consapevolezza di un cambiamento di passo. Poiché non mi appassionava cantare nel coro che voleva gli operatori sociali “santi” quasi quanto quelli sanitari, ho provato, nel maggio dello scorso anno, a introdurre una piccola provocazione: ho chiesto a educatori e operatori che cosa ne sarebbe stato dei centri diurni per persone con disabilità, ritenuti servizi essenziali, ma che, forse, tali non sembravano essere, visto che potevano restare chiusi per mesi».

Dietro la provocazione di Paolini c’è il fatto che, a parità di bisogno di tutte le persone con disabilità e delle loro famiglie, le risposte nella Penisola sono state opposte: alcuni servizi si sono attivati quantomeno per offrire un supporto a distanza, altri, la maggioranza, sono semplicemente spariti. E poi c’è chi ha cercato di dare risposte mettendosi in discussione, come è successo nella rete di servizi della Provincia di Pordenone.
«Proprio nel momento di crisi – dice il responsabile di essi Francescutti -, abbiamo visto cose che nel tempo ordinario non vedevamo. Eventi che scuotono le tue certezze, come appunto l’emergenza sanitaria, ti fanno capire che ci sono anche altre soluzioni, magari proprio sotto al tuo naso. Quando hai a che fare con persone con importanti disabilità intellettive, la ripetizione è un rischio molto alto».
E porta l’esempio dei fratelli di Tramonti di Sopra, paese di montagna nella cosiddetta “Valle degli Angeli e delle Stelle”. Questa coppia di fratello e sorella, adulti da un pezzo, in una giornata tipo com’erano quelle prima del Covid-19, veniva prelevata da un pulmino che, dopo oltre un’ora di viaggio, li lasciava davanti al centro diurno. Qui svolgevano delle attività, pranzavano e poi iniziava la preparazione per riprendere il pulmino, che un’ora e dieci dopo li riportava a casa. E andava così, dal lunedì al venerdì.
«La sospensione dei servizi e anche dei trasporti ci risveglia dal nostro ottundimento: ci siamo chiesti: è veramente sensato il viaggio quotidiano dei fratelli di Tramonti al centro diurno? Nel costruire un servizio alternativo, non era più giusto inventare un intervento di maggiore prossimità, coinvolgere la comunità locale, recuperare, se non altro, due importanti ore di vita al giorno dei nostri utenti? Tutte operazioni non facili in un contesto montano demograficamente impoverito, ma valeva la pena provarci», racconta Francescutti.
Ci siete riusciti?  «Abbiamo contrattato con il Comune e la parrocchia la messa a disposizione di uno spazio, al momento provvisorio, e abbiamo dislocato operatori che vanno direttamente sul posto. Intorno a questo avamposto spero si possa costruire la presenza di volontari, in grado di dare un aiuto anche alle altre persone del territorio ancora a casa. Abbiamo ancora un’idea settoriale della disabilità: chi l’ha detto che dobbiamo fare sempre e solo servizi dedicati? Se diventano servizi comunitari, puoi innescare anche processi positivi in questi paesini di montagna».

A Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, per le dodici persone con disabilità intellettiva che vivono nella comunità alloggio Ca’ Delle Rose, il bar, come dice il cantautore Vinicio Capossela, non porta i ricordi ma i ricordi portano inevitabilmente al bar. Se uscire per il rito del caffè è cosa proibita – e lo sarà anche quando il resto del Paese convivrà con il virus o crederà di farlo – allora è il bar ad andare da loro: «Abbiamo comprato la macchinetta del caffè – racconta l’assistente sociale Francesca Dotto – varie tipologie di cialde e, come al bar, emettiamo lo scontrino. D’estate il Bar delle Rose è stato allestito fuori». E così Giuseppe (nome di fantasia) e tutti gli altri, quando hanno voglia di un caffè e di una brioche, si preparano, si mettono la giacca e vanno al loro personale Bar delle Rose. «Per noi l’apertura al territorio – aggiunge Dotto – è sempre stata molto importante. Le uscite al bar, il contatto con i volontari sono preziosi. Ma le indicazioni ministeriali e regionali ci lasciavano in sospeso e, tuttora, siamo vincolati per i rientri a casa. La situazione è ancora delicata».

In queste piccole storie ci sembra di vedere la traduzione nei fatti del pensiero di Paolini, quando ci dice: «Non si tratta di riprendere il lavoro gestionale, ma di rimettere al centro il senso. Spesso il mondo delle cooperative è fermo a fare il gestore e la qualità non può dipendere da eroismi individuali. In questo momento, anche lavorando con gruppi più piccoli, domina la rigidità. Si è passati dal lenzuolo arcobaleno con la scritta “Andrà tutto bene” al mettere in secondo piano l’importanza dell’inclusione. Vedo solitudini dentro i servizi, il lavoro in cluster non aiuta, c’è il rischio di perdere contatti acquisiti con il territorio e anche quello di alimentare distanze al proprio interno. Franca Olivetti Manoukian, in un suo articolo su “Animazione Sociale” di qualche anno fa, ha proposto una riflessione, attualissima, sul rischio della “casalinghitudine” tra i servizi e per chi vi lavora».
«Per questo – conclude Paolini – aumentare il livello di protezione sta significando aumentare il livello di segregazione. Serve l’incontro con la gente. Abbiamo bisogno di una comunità educante».

Prima di chiudere, torna alla mente la storia della lettera di Alessia che Paolini mi aveva fatto leggere in precedenza e che condividiamo con i Lettori.
Alessia è una giovane donna con disabilità, frequenta il centro diurno La Birola a Feltre (Belluno) e Paolini, senza «buonismi stantii», come dice egli stesso, l’aveva sollecitata a scrivere «meglio».
«È un esempio di cosa si può fare. Dare voce alle persone con disabilità è un dovere ed è un’opportunità. Chiedere a molte persone fragili come stanno oggi – penso anche a tanti bambini, ragazzi – significa aiutarli a dare un posto a qualcosa che diversamente potrebbe sfociare – e in tal senso gli esperti sono preoccupati – in patologie psichiatriche entro pochi anni. Dare voce a persone che forse usano linguaggi semplici, ma che hanno dentro qualcosa che a volte non è semplice da dire o da ascoltare. Io credo che anche questi siano dei “ristori”, forse meno urgenti di quelli economici, che tante persone e categorie stanno chiedendo, ma non per questo meno importanti. È quello che possiamo portarci a casa da quanto sta accadendo. Altrimenti il “fine quarantena mai” diventerà una condizione accettata passivamente, una nuova normalità nello stagno, dopo le onde provocate dalla pandemia».

Il presente approfondimento è apparso nella testata «Slow News» all’interno della serie “Fine quarantena mai”, curata da Carmela Cioffi. Il testo viene qui ripreso con alcuni riadattamenti al diverso contenitore per gentile concessione.

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