La cura delle persone con disabilità? C’era già 500.000 anni fa!

La circostanza che la cura delle persone con disabilità sia presente sin dal Paleolitico e sia trasversale a diverse specie, sembra dimostrare che le strategie di cooperazione facciano parte di quelle pratiche efficaci che la selezione naturale ha reso durature. Sono queste le conclusioni a cui è giunto Fabio Martini, professore onorario di Paletnologia dell’Università di Firenze e presidente del Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, esaminando diversi casi studio individuati nell’àmbito dell’archeologia preistorica

Calabria, Grotta del Romito

La Grotta del Romito nel Parco del Pollino in Calabria, dove sono stati trovati i resti di due persone con disabilità del Paleolotico Superiore

È decisamente inconsueta, per chi è abituato ad occuparsi della disabilità attuale, la prospettiva con cui Fabio Martini, professore onorario di Paletnologia dell’Università di Firenze e presidente del Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, ha trattato il tema della cura delle persone con disabilità, intervenendo al convegno online Alle radici del «prendersi cura»: il contributo della bioarcheologia della sanità, evento promosso il 23 aprile scorso dall’Università di Modena e Reggio Emilia.
Infatti, il suo intervento, intitolato Empatia nell’archeologia: la cura dei disabili nella preistoria (pubblicato in «UnifiMagazine», testata online dell’Università di Firenze) si sviluppa a partire dal seguente quesito: «Possiamo ipotizzare che la “responsabilità morale” citata da Darwin, ovvero la capacità di collaborazione, sia stata uno dei meccanismi che ha garantito la continuità delle specie all’interno del complesso processo di selezione naturale che garantiva la sopravvivenza degli individui con la maggiore sapienza ambientale?» (grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni).
Alcuni casi studio, dunque, individuati nell’àmbito dell’archeologia preistorica, rilevano comportamenti sociali di inclusione, partecipazione e condivisione i quali dimostrano come la socialità empatica sia presente sin dal Paleolitico, sia trasversale a diverse specie, e non sia circoscritta ad una specifica area geografica.
Nello specifico, i casi studio sulla socialità empatica documentano che la cura delle persone con disabilità è stata praticata anche in epoche molto antiche da più specie che hanno preceduto l’Homo Sapiens.

Nel suo intervento, Martini illustra alcuni di questi casi studio il più antico dei quali riguarda un individuo di Homo Heidelbergensis vissuto circa 530.000 anni fa e deceduto all’età di circa 10 anni. Esso è stato rinvenuto nel sito paleolitico di Sima de los Huesos ad Atapuerca (Unesco), in Spagna, ed era caratterizzato da una craniosinostosi, una patologia che comporta la saldatura prematura di una o più suture craniche, con conseguente limitazione dello sviluppo del cervello e delle capacità cognitive. In simili condizioni questo bambino ha potuto raggiungere l’età di 10 anni solo grazie alle cure prestate dal gruppo di appartenenza.
Interessanti anche i casi studio di due individui rinvenuti a Grotta del Romito, nel Comune di Papasidero (Cosenza), anch’esso sito dell’Unesco. Uno di questi casi è rappresentato da un giovane adulto vissuto circa 12.500 anni fa con una paralisi alla parte sinistra del corpo conseguita in seguito ad un incidente. Gli esami effettuati sul suo scheletro hanno documentato che egli ha potuto vivere diversi anni rendendosi utile alla comunità utilizzando i denti per masticare e lavorare legni teneri, cosa che ha portato alla completa consumazione dei denti stessi. Essendo divenuto inabile alla caccia in ragione della sua condizione, la sua sopravvivenza era chiaramente legata alle cure prestate da qualcuno/a del suo gruppo.
L’altro caso studio è costituito dallo scheletro di un individuo affetto da una grave forma di nanismo (era alto circa 120 centimetri), deceduto tra i 15-20 anni di età, e risalente a 11-12.000 anni fa. Non avendo né la forza né la prestanza fisica per praticare la caccia e la raccolta, attività alla base dei sistemi economici della sua epoca, è verosimile ritenere che la sua sopravvivenza fosse imputabile «alle cure parentali e/o dell’intero gruppo che ha condiviso il suo stato di disagio».

In sostanza, «l’esame delle evidenze archeologiche fa emergere la consapevolezza che all’interno delle comunità preistoriche era presente la tendenza alla condivisione, che si collega alla coscienza di “alterità” (differenza nello status di più individui) e nella trasformazione dell’alterità medesima in “identità” (appartenenza al medesimo contesto biologico e culturale)». Ciò ha permesso a queste comunità di cogliere i vantaggi conseguenti all’altruismo alla cooperazione dati dall’accrescimento della «possibilità di sopravvivenza dei singoli e di tutti, come già aveva anticipato Charles Darwin».
I casi studio citati pocanzi, e altri relativi alla Cina meridionale e all’Iraq nordorientale, illustrati nel suo intervento, hanno portato Martini a trarre la seguente conclusione: «Istinto sociale o legame empatico maturato culturalmente in vista di un bene comune? Il fatto che la cura dei disabili sia trasversale a varie specie e a diverse epoche sembra dimostrare che le strategie di cooperazione facciano parte di quelle pratiche efficaci che la selezione naturale ha reso durature».

Responsabile di di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo è già apparso e viene qui ripreso – con alcuni riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

Sui medesimi trattati nel presente contributo, segnaliamo anche, sulle nostre stesse pagine: Adriana Bazzi, Caregiver nell’età della pietra? e Stefania Delendati, Gli antenati con disabilità si raccontano (ma sono così lontani dall’attualità?).

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