Del lavoro di cura beneficia tutta la comunità

«L’operatore sociale – scriuve Luigi Vittorio Berliri – deve volgere il suo sguardo, deve rifiutare la delega e includere nel suo lavoro di cura il mondo attorno. il lavoro di cura, quindi, dovrà essere al 50% con lo sguardo rivolto verso il volto della persona di cui ci si prende cura, per l’altro 50% (del tempo, dell’attenzione, della concertazione, delle attività) rivolto verso la comunità. Ma per ottenere questo occorre un ripensamento culturale prima e politico poi, del lavoro di cura stesso, che è in capo a tutta la comunità, la quale ne beneficia in toto»

Particolare di operatrice che spinge una donna in carrozzinaCondivido l’impostazione dei contributi di Simona Lancioni dedicati al lavoro di cura, pubblicati nei giorni scorsi da «Superando.it» [“Caregiver e persone con disabilità: cogliere l’interdipendenza della cura” e “Ma quel che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura”, N.d.R.], e mi permetto di aggiungere alle riflessioni proposte una diretta conseguenza di esse: l’operatore sociale deve volgere il suo sguardo, deve rifiutare la delega e includere nel suo lavoro di cura il mondo attorno.

Mi spiego meglio. Il compito dell’operatore sociale, addirittura più ancora che di quello del caregiver, è di cucire la trama delle relazioni tra le persone di cui si prende cura e la comunità circostante. Un continuo andata e ritorno di un ago, alla cui cruna è legato il filo che costruisce la trama e l’ordito di relazioni che assieme costruiscono la comunità.
«Io esisto in quanto sono in relazione con altri»: era un pensiero del filosofo e pedagogista Martin Buber, che ci ha scritto un bellissimo libro (Ich und Du). Ci sono persone che fanno più fatica di altre a tessere questa trama (che, per altro, per chiunque è sempre impossibile da tessere da soli!). E allora il lavoro di cura dovrà essere al 50% con lo sguardo rivolto verso il volto della persona di cui ci si prende cura, per l’altro 50% (del tempo, dell’attenzione, della concertazione, delle attività) rivolto verso la comunità.

Per ottenere questo, dunque, occorre un ripensamento culturale prima e politico poi, del lavoro di cura. Che non è una “prestazione”, che non è un “costo” (al limite è un investimento), che non è in capo al singolo utente, ma è in capo a tutta la comunità, che non solo deve pagare (il giusto) questo intervento, ma che ne beneficia in toto. Cioè il “beneficiario” non è più un “utente”, ma tutta la comunità.
Utopie? Può darsi, ma le ritengo necessarie, come i sogni, per continuare a evolverci e a non involverci.

Presidente dell’Associazione Casa al Plurale e della Cooperativa Sociale Spes contra spem, Roma.

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