Il prisma della relazione di cura

«Ognuno può pensare a ragione ciò che vuole di chi è chiamato a “prendersi cura” – scrive Paola Di Michele – e tuttavia non posso esimermi dal tentare di illuminare il mio lato del prisma, contestualizzando innanzitutto il termine “educatore”, a seconda che ci si riferisca ai servizi domiciliari, a quelli scolastici o alle strutture, e sottolineando, soprattutto, che scegliere il sociale come scelta professionale di vita significa essere precari a vita, con retribuzioni sotto la soglia di povertà e sicurezza sul lavoro pressoché zero»

Prisma di cristallo

«Se più osservatori sono posti intorno ad un prisma di cristallo – scrive Paola Di Michele -, ne percepiranno in modo differente la forma e la qualità della rifrazione della luce. Così è anche la relazione di cura, fra l’utente destinatario dell’intervento e il professionista (educatore, operatore sociale, psicologo ecc). Secondo il punto di osservazione la realtà cambia»

La realtà, tutta, è funzione dello sguardo e dell’interpretazione di chi osserva. Se più osservatori sono posti intorno ad un prisma di cristallo, ne percepiranno in modo differente la forma e la qualità della rifrazione della luce. Così è anche la relazione di cura, fra l’utente destinatario dell’intervento e il professionista (educatore, operatore sociale, psicologo ecc). Secondo il punto di osservazione la realtà cambia.

Ho letto con estrema attenzione il contributo di Sergio Rilletti, pubblicato su queste stesse pagine [“Storie di educatori da rieducare”, N.d.R.] e, lo confesso, a margine di una settimana lavorativamente molto pesante a scuola. Posto che ogni esperienza è personale e, ovviamente, ognuno può pensare a ragione ciò che vuole di chi è chiamato a “prendersi cura”, tuttavia, non posso esimermi dal tentare di illuminare il mio lato del prisma. Dunque ciò che dirò è fallibile, fallace e presumibilmente sbagliato per alcuni, plausibile per altri, giusto, forse, per pochi altri ancora.

Intanto, è necessario contestualizzare il termine “educatore”, a seconda che ci si riferisca ai servizi domiciliari, a quelli scolastici o alle strutture.
Come ho avuto già occasione di scrivere su queste pagine, il “welfare” (se così dobbiamo proprio chiamarlo…) è nato negli Anni Settanta su spinte per lo più volontaristiche. I primi operatori – e così è stato almeno sino alla fine degli Anni Novanta – erano persone con pochissimi titoli specialistici per occuparsi degli altri, spesso armati solo di buona volontà. Il che spiegherebbe magari la cattiva qualità del lavoro.
Negli anni si è imposta, giustamente, la necessità di una progressiva professionalizzazione dei lavori di cura, con titoli e percorsi di studio appropriati. Gli operatori sociali che si sono specializzati nel frattempo, è giusto dirlo, lo hanno fatto a proprie spese (ad esempio il corso per OSS-Operatori Socio Sanitari, che ha un costo medio di 3.000 euro, o i corsi universitari L19,  la classe delle Lauree in Scienze dell’Educazione e della Formazione).
Chi scrive, da studentessa prima e con una laurea da psicologa poi, ha lavorato più o meno stabilmente nel welfare già dalla metà degli Anni Novanta e, aggiungo, nelle mansioni e negli àmbiti più svariati (Rom, detenuti, case famiglia psichiatriche, centri anziani, a domicilio o nelle scuole come assistente educativa). Mai, a mia memoria, con un inquadramento che superasse quello che, nel Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali, superasse la soglia minima, ossia l’attuale C1, equivalente più o meno alla terza media. Questo nella ridente Capitale d’Italia. Al Nord, i miei colleghi più fortunati hanno il D2, al Sud… meglio stendere un pietoso velo.
Ma di che retribuzioni parliamo? Dagli 8,56 euro all’ora del C1 ai 10 e poco più del D2. Lordi, ovviamente.

Ma perché parlo di vil denaro? Semplice. Perché, nella mia lunga esperienza di operatrice sociale, ho capito che, unendo due disperazioni, la nostra e quella dei nostri utenti, non è certo possibile ottenere neanche un quarto di felicità.
Fin da quando, giovanissima, compravo libri per bambini ai piccoli Rom che accompagnavo a scuola (inciso: che fine avranno fatto tutti i rom di Roma, per cui nulla pare più muoversi da anni… mistero) ad ora, che compro materiali per i miei alunni e manuali per documentarmi e sempre di tasca mia, mi sono sempre ripromessa di non farlo più. Di non spendere un già misero stipendio per coprire falle che non ho aperto io.
Statisticamente, è improbabile che tutti gli operatori sociali siano bravi, preparati, motivati, in grado di sostenere professionalmente un peso, il “lavoro di cura”, che lo Stato butta pesantemente loro sulle spalle in via quasi esclusiva. Tuttavia, molti di loro vivono una pesante consapevolezza, ovvero che verranno a contatto con persone e situazioni disperate e disperanti, in cui sarà a loro concesso di incidere se non in minima parte e per un tempo assai limitato.

Leggo spesse (giuste) lamentele di persone con disabilità o di loro cari rispetto al turnover degli operatori, che non consente continuità assistenziale, o della qualità della formazione, o delle caratteristiche umane. E dunque, farò due piccoli esempi di cosa significa stare dalla parte di “chi si prende cura” come scelta professionale.
A Roma esiste il servizio di assistenza domiciliare sociale, da non confondersi con quello sanitario. Si tratta di situazioni spesso al limite. Situazioni abitative precarie, anziani o persone sole o persone con disabilità più o meno gravi con familiari stremati dalla quotidianità difficile e da esperienze più o meno pesanti di “abbandono da parte delle Istituzioni”.
Anni fa, dunque, vengo mandata a fare una sostituzione di un servizio domiciliare di estrema difficoltà. Si trattava di una madre con sclerosi multipla e di una figlia con psicosi grave cui bisognava (parole del coordinatore della Cooperativa che mi inviò) «fare un po’ di compagnia». Trovai la ragazza a letto, la mamma a malapena in grado di camminare e la casa in situazione igienica quanto meno precaria. La ragazza mi chiese il mio numero personale. Rifiutai cortesemente, spiegando alla madre che per ogni emergenza poteva contattare la Cooperativa. Ebbene, mentre mi apprestavo ad andarmene, la ragazza si alzò improvvisamente e mi diede un pugno in pieno viso, spaccandomi gli occhiali da vista e lacerandomi il viso dal sopracciglio alle labbra.
La Cooperativa mi ripagò il tutto dopo oltre un anno e mezzo, con 90 euro, nemmeno sufficienti a coprire il costo degli occhiali, oltre che le lunghe cure cui dovetti sottopormi per non rimanere segnata in volto e all’operazione per correggere la miopia, che feci perché non riaccadesse qualcosa del genere.
Racconto questa storia molto malvolentieri perché, a distanza di anni, non riesco a togliermi dalla mente la tristezza infinita, la solitudine degli occhi di quella madre e l’odore stagnante di quella camera da letto. E rivedo le mie mani piene di sangue e la difficoltà a trascinarmi in Cooperativa in quello stato, quasi cieca e traumatizzata dall’esperienza.

Ancora, sull’assistenza domiciliare i racconti tutti uguali dei colleghi che saltano da una parte all’altra della città a svolgere servizi di cui non colgono il senso, come andare “a spasso” per ore in questo deserto di servizi per persone con disabilità che è la mia città…
Sui soggiorni estivi dirò di quella volta in cui una nota e stimata Associazione Nazionale mi chiamò per farne uno di tre settimane con un adulto di un metro e novanta, non verbale, con epilessia e sindrome di Angelman per la cifra di 40 euro al giorno h24. Ebbi ovviamente il buon senso di rifiutare.

E infine, sulla scuola e il servizio di assistenza specialistica all’autonomia e alla comunicazione di cui ho spesso scritto (forse troppo…) su queste stesse pagine, racconterò la mia ultima settimana.
Com’è ben noto, la situazione sanitaria è in netto peggioramento. Non voglio entrare in alcuna polemica, ma i nostri alunni si stanno pian piano contagiando tutti e noi che lavoriamo a scuola pure.
Nel Municipio di Roma in cui lavoro da anni, l’assenza dell’alunno non è retribuita e appare evidente che questa sia anche la stagione in cui ci si ammala di più.
Questa settimana ho scoperto inoltre che la nostra partecipazione ad eventuali didattiche a distanza o didattiche digitali integrate dei nostri alunni dev’essere approvata dal Municipio previa richiesta della scuola. Scrivo quindi un post sintetico sulla pagina Facebook con la quale collaboro e chiedo ai colleghi di contattarmi per rappresentarmi le loro difficoltà. Mi arriva una valanga di segnalazioni: colleghi cui la richiesta della scuola è stata rifiutata o direttamente dalla scuola (di cui, ricordo, non siamo dipendenti) o dal Municipio, o persino «non ritenuta utile» dalle maestre, cui è dato un potere su di noi che è quanto di più lontano ci sia dalla mia idea di cooperazione e reciprocità professionale.
Il risultato sono colleghi costretti a “fare il giro delle sette chiese” per recuperare ore, con l’evidente rischio di contagiarsi e contagiare. A volte inviati a sostituire colleghi su alunni che poi risultano assenti.
Si va quindi oltre l’incertezza dello stipendio, si entra in una realtà alternativa in cui sarebbe preferibile andare, mi si perdoni il paragone, a raccogliere pomodori. Almeno si ridurrebbe il rischio sanitario.

Attenzione: io amo il mio lavoro. Ho promesso alla mia alunna di portarle un regalino, un diario su cui scrivere come si sente (sto leggendo a tutta la classe Il giornalino di Gian Burrasca e lo adorano, dato che glielo recito con le vocette, i rumori e tutto il resto). Lei mi ha abbracciato e mi ha salutato con lo sguardo luminoso e il mio cuore si è fatto grandissimo.
Però allora mi chiedo, e questo dubbio sta avvelenando la qualità del mio lavoro già da tempo, è mai possibile che le Istituzioni di questo Stato e il grande associazionismo, che so per certo essere consapevoli della situazione, parlino sempre e solo della necessità sacrosanta che noi operatori sociali veniamo formati professionalmente, se poi le condizioni in cui operiamo sono degne di un’Italia pre-Statuto dei Lavoratori? È mai possibile che per quanto riguarda noi assistenti all’autonomia e comunicazione si parli sempre e solo della necessità di percorsi formativi professionali e del sacrosanto profilo previsto dal Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione e mai nessuno ponga all’ordine del giorno la spinosa e assolutamente necessaria questione della statalizzazione?

Si salvi chi può. Scegliere il sociale come scelta professionale di vita significa essere precari a vita, con retribuzioni sotto la soglia di povertà e sicurezza sul lavoro pressoché zero. E lo ribadisco, ora e sempre: se scegli il sociale è perché ami gli altri. Ecco perché essere ignorati e vilipesi da chi potrebbe cambiare questo stato di cose è così potentemente, prepotentemente doloroso.

Psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione (paola.dimichele1974@libero.it).

Please follow and like us:
Pin Share
Stampa questo articolo