Come rendere più efficiente l’inclusione scolastica, per tutte le disabilità

«Per tutte le disabilità – scrive Carlo Hanau, intervenendo sul dibattito da noi lanciato in tema di futuro dell’inclusione scolastica – è necessario tornare a quando la specializzazione degli insegnanti di sostegno durava due anni e ci si poteva concentrare su di una disabilità. Soltanto fornendo strumenti culturali basati sulla sperimentazione dei risultati e indicazioni pratiche agli operatori della scuola, in sinergia con le altre agenzie pubbliche che cooperano con le famiglie, si potrà riuscire ad aumentare la scarsa efficienza del nostro esercito di 200.000 insegnanti di sostegno»

Particolare di bimbo a scuola che disegna con una matitaA proposito di inclusione scolastica, ho letto con attenzione gli interventi di Ivana Consolo e Salvatore Nocera  pubblicati nei giorni scorsi da «Superando.it» (Inclusione scolastica, tutto da rifare? e La “favola” dell’inclusione scolastica non è finita, ma continuerà migliorandosi), nel primo dei quali l’avvocata Consolo parla tra l’altro di un alunno che presenta il comportamento autistico definito “profondo” dalla terminologia inglese, ciò che è molto diverso, ad esempio, dalla sindrome di Asperger (grado 1 dello spettro autistico nel manuale americano di classificazione DSM 5), mentre l’avvocato Nocera propone un discorso generale per tutti gli alunni e alunne con disabilità.

Anche chi scrive ha sempre detto e scritto che il sistema inclusivo italiano è generalmente un vantaggio per gli allievi che presentano disabilità meno complesse da gestire. Ad esempio, per le disabilità motorie, in quanto è concettualmente abbastanza facile l’inclusione nella scuola di un alunno in carrozzina che, seduto dietro il suo banco, si comporta come gli altri, e che ha bisogno “soltanto” di protesi e di ausili e di abbattimento delle barriere architettoniche, per raggiungere un buon livello di inclusione.
Per gli allievi con disabilità soltanto sensoriali esiste pure una molteplicità di ausili e protesi che già ora consentono di superare la gran parte delle barriere che incontrano per realizzare una buona inclusione scolastica. La tecnologia avanza sempre più e facilita sempre meglio il superamento della barriera dei deficit dell’udito e della visione. A tal proposito, ricordo sempre l’ottima inclusione nella mia classe della Scuola Media San Domenico di Bologna di due compagni completamente ciechi che venivano dall’Istituto Cavazza del capoluogo emiliano negli anni 1956-60.
Resta che occorre personale esperto nella disabilità specifica per tradurre la comunicazione in messaggi comprensibili all’allievo, che deve entrare in azione ancor prima dell’ingresso nella scuola, con una formazione personalizzata all’uso degli ausili e degli strumenti protesici, spesso elettronici. Talvolta, come nel caso di LIS e LIST [Lingua dei Segni Italiana e Lingua dei Segni Italiana Tattile, N.d.R.], occorre personale specializzato in queste lingue che traduca i messaggi di fronte o accanto all’allievo, ma nella maggior parte degli altri casi l’intervento del personale specializzato è molto intenso all’inizio e poi si dirada via via che l’autonomia aumenta.
Questo personale, in parte sanitario e in parte socioeducativo, usufruisce di una cultura della disabilità specifica ormai praticamente “secolare”, che gli Istituti appositi posseggono nel campo dell’abilitazione. Inoltre, la recente normativa sulla LIS e sulla LIST fornisce anche l’esempio di una regolamentazione della formazione universitaria triennale per l’accesso all’Elenco dei Traduttori LIS e LIST. Non sono personale iscritto a un Albo Sanitario, ma ad un elenco presso la Presidenza del Consiglio (che coordina tutti i Ministeri: sociale, sanitario, istruzione, lavoro ecc.).
Dal canto loro, gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di cui alla Legge 104/92 non fanno “la girandola” e garantiscono la continuità molto di più che gl’insegnanti.

Per gli allievi con disabilità mentale, invece, che rappresentano oltre il 90% degli allievi certificati, la situazione è più grigia, come dimostra anche il titolo di educatore sociopedagogico che in molte Regioni viene dato agli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, distinto da quello di educatore sociosanitario, riservato a quei pochi che hanno frequentato il corso nei Dipartimenti di Medicina e sono iscritti ad un Albo Sanitario.
Nella disabilità si distingue in genere quella cognitiva da quella comportamentale, che comprende spettro autistico, ADHD (disturbi da deficit dell’attenzione e iperattività) e disturbo oppositivo provocatorio. Si tratta di disabilità che spesso si sommano nello stesso allievo.
La disabilità cognitiva media e lieve consente in genere una buona inclusione che il nostro sistema sembra potere garantire, in quanto l’allievo che entra nella classe è in grado di imitare i comportamenti positivi dei compagni. Anche in questo caso è molto utile una preparazione prima della scuola, come dimostrano esempi con allievi con sindrome di Down, che nel periodo della scuola dell’infanzia imparano a leggere e scrivere. Occorre tuttavia che gli educatori e gli insegnanti imparino le regole della comunicazione facile da capire, che consente una comunicazione effettiva, sia pure ridotta rispetto alla normalità, e tutte le altre metodiche della pedagogia speciale che fino ad ora sono state messe in ombra nel nostro Paese dall’ideologia illusoria dell’inclusione spontanea (quando si vuol bene…).
Di contro, la disabilità cognitiva grave ha ancor più bisogno della comunicazione facile da capire e anche dell’intervento educativo speciale che prescinde dalla comunicazione e che può richiedere un intervento precoce intensivo, prescolare.

Il caso citato inizialmente, al quale fa riferimento Ivana Consolo, sembra appartenere, come detto, all’ultima categoria presa in considerazione, quella dell’autismo profondo.
Si tratta di circa un quarto delle persone certificate nello spettro autistico ad esempio in Piemonte e qui l’intervento precoce intensivo può richiedere due o tre anni che, se la diagnosi è precoce come potrebbe essere in questi casi, si dovrebbe svolgere nella scuola dell’infanzia, dove vi sono anche bambini “normodotati”, necessari per avviare gradatamente il processo di inclusione, un po’ per volta.
Questi bambini non possono essere semplicisticamente immersi nella sala comune con altri compagni che tollerano il rumore e non si può neppure zittire bambini così piccoli. La permanenza nell’asilo anche oltre i tre anni di età dovrebbe poi essere favorita, se la diagnosi è stata fatta in ritardo e se la preparazione all’ingresso nel primo anno della scuola dell’infanzia non è ancora terminata.
Non si deve quindi parlare di “scuole speciali”, ma di piccoli gruppi speciali di bambini che negli asili comuni devono adattarsi gradualmente a convivere con coetanei normodotati. Per gli specialisti necessari in ogni gruppo (in alcune esperienze degli Stati Uniti sono due, di cui uno molto esperto e uno che lo assiste, per ogni gruppo di sei bambini; in altre vi sono classi miste), occorre una formazione specifica degli operatori, che al momento è molto poco diffusa, sulle strategie indicate dalla Linea Guida n. 21 per l’autismo dell’Istituto Superiore di Sanità, tutte basate sull’Analisi Applicata del Comportamento (ABA). Il nostro Paese ancora oggi osteggia le applicazioni di questa scienza e la carenza di specialisti dev’essere superata con incentivi alle Università, come quelli dati dalla normativa sui traduttori LIS e LIST. Gli esperti psicopedagogisti, Case Manager/Supervisor, devono quindi avere una formazione paragonabile a quella degli attuali BCBA, gli analisti del comportamento applicato, e devono coordinare tutti gli operatori coinvolti nel PEI (Progetto Educativo Individualizzato), fare il progetto di vita e modificarlo all’occorrenza, oltre a monitorare l’intervento di tutti gli operatori. Gli esecutori del progetto, tutti quelli intorno all’allievo (insegnanti di sostegno, curricolari, AEC/Educatori) devono avere chiari i presupposti e la filosofia dell’intervento, ma per questo, trattandosi di personale con laurea ed esperienza, potrebbe bastare una quarantina di ore di teoria, purché puntualmente supervisionati da un esperto.

In conclusione per tutte le disabilità è necessario tornare ai tempi nei quali la specializzazione degli insegnanti di sostegno durava due anni e ci si poteva concentrare su di una disabilità. Oggi non si può essere specialisti in “tuttologia”. Soltanto fornendo strumenti culturali basati sulla sperimentazione dei risultati e indicazioni pratiche agli operatori della scuola, in sinergia con le altre agenzie pubbliche che cooperano con le famiglie, si potrà ottenere il risultato di aumentare la scarsa efficienza del nostro esercito di 200.000 insegnanti di sostegno, che oggi costano al Ministero dell’Istruzione – ora divenuto Ministero dell’Istruzione e del Merito – sette miliardi l’anno, ai quali si aggiungono le spese effettuate dagli Enti Locali per gli AEC/Educatori e quelle private sostenute dai genitori. Un tesoro da non sprecare, altrimenti i risultati sono troppo spesso quelli che l’avvocata Consolo ha denunciato.

Presidente dell’APRI (Associazione Cimadori per la ricerca italiana sulla sindrome di Down, l’autismo e il danno celebrale), già docente di Programmazione dei Servizi Sociali e Sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia e all’Università di Bologna.

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