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Quanto costano i servizi!

Sacco di dollariLe segnalazioni sono continue. Persone con disabilità e familiari indicano come i costi per poter accedere ai servizi sociosanitari e assistenziali siano in costante aumento.
La sensazione è che le Amministrazioni Comunali, alle prese con le strette di bilancio, abbiano deciso di rivalersi in misura sempre maggiore sugli utenti per recuperare le spese a loro carico, che variano a seconda dei casi dal 30 al 40% del costo totale. Usufruire di servizi residenziali o diurni sta diventando in altre parole sempre più caro. Una situazione consentita dalla legge che però prevedeva la possibilità di far partecipare gli utenti alla spesa dei servizi come strumento di intervento sociale, e non come opportunità di risanamento dei bilanci comunali.
Di fronte a questo fenomeno appare importante comprendere in che modo e secondo quali criteri le amministrazioni locali definiscano i costi in carico alle persone con disabilità.

L’indagine effettuata da LEDHA ha preso in esame i comportamenti e le scelte di 17 Comuni lombardi, di tutte le province, di cui 5 capoluoghi. Di questi sono 15 quelli che chiedono alle persone con disabilità di contribuire alla copertura dei costi dei servizi.
Le modalità di partecipazione alla spesa vengono deliberate di volta in volta in 6 casi: 11 Comuni hanno invece adottato un regolamento ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), ovvero quello strumento previsto dalla legge, a cui tutte le amministrazioni dovrebbero attenersi ormai da alcuni anni, proprio per stabilire la possibilità del cittadino di partecipare ai costi del servizio.
Una prima conferma, quindi, dell’eterogeneità dei comportamenti comunali che in molti casi continuano ad attuate procedure empiriche per stabilire quanto e come gli utenti debbano pagare.

Scendendo nel dettaglio si scopre che, ad esempio, la frequenza al Centro Socio-Educativo, che costituisce l’offerta più diffusa di servizi diurni per le persone con grave disabilità, può non costare nulla, a parte una quota per la mensa, oppure una quota fissa mensile, variabile da 25 a oltre 200 euro al mese, indipendentemente dal reddito.
Discorso analogo per quanto riguarda i Servizi di Formazione all’Autonomia, dove invece 2 amministrazioni richiedono una quota in base al reddito, 2 non chiedono nulla e 4 richiedono una quota fissa uguale per tutti (da 50 a 200 euro mensili). Una disparità di trattamento difficilmente giustificabile a fronte di una sostanziale parità di servizio offerto.

Nel settore dei servizi residenziali (Comunità alloggio e RSD – Residenza Sanitaria Disabili) la situazione si presenta maggiormente variegata e risulta più complessa l’aggregazione dei risultati.
Sono 5 i Comuni che chiedono il pagamento di una quota in base all’ISEE; in due situazioni la retta viene invece stabilità in base a tabelle che fanno riferimento ad un altro parametro, cioè il minimo vitale. Negli altri casi assistiamo a scelte differenti quali:
– elargizione di un contributo alla famiglia per il pagamento della retta;
– acquisizione di pensione di invalidità e indennità di accompagnamento ed elargizione di un contributo fino a coprire il costo della retta;
– acquisizione della sola pensione di invalidità;
– acquisizione della pensione e dell’indennità di accompagnamento cui si aggiunge una richiesta di quota ai familiari stabilita in base all’ISEE;
– acquisizione di tutti i redditi del singolo utente (compresi invalidità e accompagnamento), lasciando una quota fissa per le spese personali;
– richiesta di compartecipazione alle famiglie in base all’art. 433 del Codice Civile (vengono cioè obbligate per legge).

Una varietà di soluzioni che nasconde gravi problemi di accesso a servizi essenziali e onerosi come quelli residenziali. Una situazione che mette a rischio di povertà centinaia di nuclei familiari a cui possono essere richiesto contributi che vanno a intaccare in modo significativo redditi e patrimoni familiari.
Sullo sfondo rimane infatti la questione non risolta della definizione del nucleo familiare a cui far riferimento: 8 Amministrazioni Comunali lo identificano come risultante dallo stato di famiglia che serve quindi a calcolare l’ISEE per tutti i servizi; in 2 casi, invece, per alcuni servizi viene utilizzato l’ISEE familiare, mentre per altri si fa riferimento al solo reddito individuale. Un solo Comune, infine, applica sempre l’ISEE individuale.
Una differenza non da poco nei suoi effetti pratici per la qualità della vita delle persone con disabilità. La legge, infatti (art. 3, comma 2 ter del Decreto Legislativo 109/98), stabilisce che nel caso di persona con grave disabilità e per l’accesso ai servizi sociosanitari si debba prendere in considerazione la sola situazione economica del solo assistito. Una norma non ancora applicata per via della mancata emanazione di un regolamento attuativo che potrebbe e dovrebbe essere già fatta propria dagli Enti Locali.

In conclusione, la nostra indagine – pur con i suoi limiti – ha evidenziato ulteriormente come le Amministrazioni Comunali applichino criteri molto diversi nel regolamentare le modalità di partecipazione alla spesa.
Si avverte una progressiva tendenza ad adottare lo strumento ISEE, ma solo in particolari situazioni si è presa in considerazione la possibilità di fare riferimento al reddito individuale.
Nei servizi diurni – pur in presenza di scelte non omogenee – possiamo individuare alcune tendenze che procedono in direzioni simili, mentre nel caso dei servizi residenziali assistiamo al proliferare di opzioni che comportano in alcuni casi gravi conseguenze sulla qualità della vita delle persone con disabilità e dei rispettivi nuclei familiari. Una situazione che richiede interventi urgenti di riordino e di indirizzo

*La LEDHA è la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità.

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