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Se siamo, siamo uguali

Una scultura dell'artista Marc Quinn esposta a Trafalgar Square, Londra«L’università sceglie la via dell’integrazione»: è il messaggio di apertura del corso avviato il 7 febbraio presso l’Università di Padova (Diritti umani e disabilità. Gli strumenti di tutela delle istituzioni nazionali e internazionali), pronunciato da Edoardo Arslan, delegato del Rettore per i problemi della disabilità e dell’handicap dell’ateneo patavino. Infatti, «nonostante le barriere presenti soprattutto nelle sedi più antiche e malgrado i persistenti e a volte gravi problemi logistici, di fronte al sapere nessuno è disabile, a meno che non abbia difficoltà psichiche e cognitive».

L’importante iniziativa padovana, cui il nostro sito ha dedicato già ampio spazio in fase di presentazione, è la prima in Europa a trattare a livello universitario il tema della disabilità dal punto di vista dei diritti umani e il merito della sua realizzazione va a una preziosa sinergia di lavoro risultante dall’incontro tra il Centro Diritti Umani dell’Università di Padova, il mondo delle associazioni delle persone con disabilità (FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap; DPI – Disabled Peoples’ International; CND  Consiglio Nazionale Italiano sulla disabilità) e la Regione Veneto. Una sinergia ben riuscita, visti i ripetuti ed emozionati complimenti e ringraziamenti reciproci che i relatori si sono rimbalzati l’un l’altro fino al termine della lezione.

Il tavolo dei relatori alla lezione inaugurale del corso di Padova. Da sinistra a destra: Giampiero Griffo, Marco Mascia, Edoardo Arslan, Pietro V. Barbieri e Antonio PapiscaOggi delle persone con disabilità si parla soprattutto in termini di fragilità, prendendole in considerazione all’interno della società principalmente come oggetto di servizi medici e assistenziali.
Organizzazioni come il DPI, la FISH e il CND propongono con questo corso universitario una nuova impostazione basata sul concetto – annunciato dallo stesso Antonio Papisca, direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca e Servizi sui Diritti della Persona e dei Popoli dell’Università di Padova – di uguaglianza ontologica, scaturita cioè dall’esistere stesso.
In altre parole, il diritto di esistere e di esistere tutti uguali dà alle persone con disabilità uguale dignità di cittadini, di persone inserite in una comunità giuridica e, come tali, portatrici di diritti e doveri.

Pietro V. Barbieri, presidente della FISH, ha insistito sull’importanza radicale di questa trasformazione di pensiero, in cui le persone con disabilità sono soggetto e non oggetto di relazioni e bisogni, diritti e doveri.
Secondo Barbieri, questo corso universitario avrà proprio e innanzitutto la funzione di promuovere un cambiamento culturale, «perché in Italia di buone leggi e buone prassi ce ne sono già abbastanza: è l’effettiva applicazione delle stesse che latita, per una questione, appunto, tutta culturale. Fondamentale diventa quindi la presenza, tra gli studenti, di operatori delle Aziende Sanitarie Locali del territorio veneto».

E quando Marco Mascia, direttore del corso, ha preso la parola per annunciarne contenuti e modalità, egli ha parlato di «un giorno importante, traguardo di un lavoro di approfondimento e sistematizzazione cominciati nel 2003, Anno Europeo delle Persone Disabili. Il corso – ha continuato Mascia – avrà un taglio pratico, e cioè studierà i diritti umani delle persone con disabilità da un punto di vista applicativo e non astratto; sarà multidisciplinare e spazierà dall’analisi delle grandi istituzioni internazionali a quella delle realtà locali».

Punti cardine del progetto, ripetuti ancora una volta da Mascia e poi da Giampiero Griffo, membro del Consiglio Mondiale di DPI, saranno la centralità della persona come soggetto di diritti e l’imposizione all’esterno – nel tessuto sociale e politico – di questo punto di vista riguardo alla percezione della disabilità.

Studenti partecipanti al corso di PadovaLa prolusione di Griffo, intitolata Storia del trattamento sociale delle persone con disabilità, si è presentata come provocatoria fin dal titolo: «Una storia ufficiale non esiste. Per questa lezione raccolgo le memorie di singole persone con disabilità che nel tempo hanno raccontato la loro singola esperienza. Comincia solo ora, infatti, a strutturarsi una rete europea di disability studies, ma essa si muove ancora su elementi frammentati. E In ogni caso la storia che vi racconto è quella di un pregiudizio che nasce dallo stigma sociale da sempre associato alla disabilità».
Già nella preistoria, infatti, la maggiore fatica a sopravvivere di un corpo o di una mente disabile veniva giudicata dal gruppo in termini di inadeguatezza sociale.
Per gli antichi greci, poi, kalòs kai agathòs, ovvero “ciò che è sano e bello è anche buono”, con i valori positivi associati alla percezione estetica del bello.
Griffo ha disegnato la storia del mito dell’inadeguatezza, definendo come mito «una storia che nasce e non si discute più e si prende per costitutiva del ragionamento». Passando per il monte Taigeto degli spartani e individuando anche nel Cristianesimo un atteggiamento di giudizio che associa la figura del disabile – pur cristianamente riscattato nella sua dignità di figlio di Dio – a una prova da affrontare o a una maledizione da espiare, si sfiora il Buddhismo, secondo cui la reincarnazione in un corpo disabile avviene quando nella vita precedente non ci si è comportati in modo sufficientemente degno, fino ad arrivare al Medioevo e alla Rivoluzione Industriale, quando l’unità di misura diventa la produttività e la persona non è più giudicata in termini assoluti, ma in funzione della sua capacità di rendimento.
Anche in questo caso il risultato è discriminatorio e porta a una progressiva segregazione istituzionalizzata. L’avanzare degli studi della scienza e della medicina permettono di curare, correggere o migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità che vengono così istituzionalizzate in quanto oggetto di cure.
In questo senso Griffo ha inquadrato il ventesimo secolo come l’epoca in cui si definisce il modello medico della disabilità, secondo il quale la persona con disabilità è percepita socialmente e politicamente come «oggetto di intervento medico curativo e assistenziale».
Le teorie naziste eugenetiche, con derive ancora attuali in alcune leggi di sterilizzazione (in Francia con il consenso dei genitori è tuttora possibile sterilizzare una donna internata in un centro di igiene mentale), rendono evidente come lo stigma pesi sulla percezione sociale delle persone con disabilità anche nel moderno Occidente.

Ludwig van BeethovenEd ecco la conclusione cui è arrivato Griffo, al termine della lezione inaugurale, con la quale ha ribadito alcuni concetti fondamentali.
«Le persone con disabilità sono vittime di un preconcetto, uno stigma la cui origine si è persa nella notte dei tempi, ma la cui efficacia tuttora persiste. Una persona sorda è giudicata bisognosa di cure e non adatta a integrarsi completamente e in condizioni di eccellenza nella nostra società. Si tratta appunto di uno stigma, di un pensiero precostituito, privo di fondamenti reali: per smontarlo basta dire che Beethoven era sordo!».
Classificare socialmente una persona con disabilità dal punto di vista medico e cioè individuando in prima percezione quello che le manca, significa quindi impedirle di essere «liberamente altro, di esprimersi e inserirsi in un contesto senza limiti imposti».
La proposta del corso di Padova, che intende contribuire al rovesciamento del modello medico attraverso la nuova prospettiva dei diritti umani, sta proprio in questo. Non mette infatti in discussione l’efficacia della medicina o la necessità delle persone con disabilità di essere assistite e curate, ma ha a che fare con la percezione sociale e politica delle stesse, che non vogliono più essere considerate oggetto di, ma soggetti attivi e protagonisti, titolari di diritti umani al pari di tutti gli altri.

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