La vicenda dei viaggiatori spericolati in Niger, così come il fenomeno del turismo di massa o la stessa immigrazione di massa di clandestini dal Nordafrica devono sollecitare a riflettere sugli aspetti psicopatologici del viaggio e sui suoi significati.
Il viaggio ha avuto nel corso della storia dell’umanità innumerevoli significati. Anche oggi esso viene vissuto e interpretato dalle persone in modi completamente diversi.
Può un viaggio rappresentare un’esperienza psicologica favorevole allo sviluppo dell’individuo? Possono la medicina e le competenze possedute dalla psicologia, dalla psichiatria e dalla medicina del turismo aiutare il viaggiatore a crescere sul piano cognitivo ed emozionale attraverso l’esperienza del viaggio?
Per rispondere a queste domande occorre appunto soffermarsi sui principali significati del viaggio.
Una specie migratoria
L’uomo è una specie migratoria. Attraverso le migrazioni dall’Africa verso l’Europa e l’Asia gli ominidi si sono evoluti fino ad arrivare all’homo sapiens.
L’homo erectus (o un suo antenato l’Ergaster, più antico, ma più avanzato evolutivamente) è considerato il primo grande migratore dell’umanità: dalle savane dell’Africa che lo videro vagare oltre un milione di anni fa, arrivò fino all’Asia orientale.
L’attuale turismo di massa (l’Organizzazione Mondiale del Turismo – World Tourism Organization, WTO, riporta oltre 600 milioni di viaggiatori internazionali all’anno) deve avere certamente una spiegazione di carattere antropologico, anche se non ancora sufficientemente studiata.
Nel marzo 1988, il Centro OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) per la Medicina del Turismo aveva organizzato a tale scopo la prima Conferenza Europea di Travel Medicine, intitolata appunto Mobility and health: from hominid migration to mass tourism e aperta dall’illustre paleontologo Donald Johanson, lo scopritore di Lucy [reperto di femmina adulta vecchio di almeno 3,2 milioni di anni, scoperto da Johanson nel 1974, assieme a Tom Gray, N.d.R.].
Dal canto suo, John Bowlby, celebre psichiatra, psicanalista e psicopedagogista inglese del Novecento, ritiene che i bambini smettano di piangere quando vengono dondolati a causa di una memoria ancestrale che li riporta a quando venivano portati sulle spalle dai loro antenati lungo i sentieri preistorici. La culla oggi riprodurrebbe quindi i movimenti di quei tempi remoti.
Diventare qualcun altro
Da tempo il viaggiare è un modo di mutare, un metodo per cambiare la propria posizione sociale, sfuggire alla giustizia del proprio Paese per reati commessi o, più nobilmente, acquistare fama per studi archeologici o geologici, o ancora, più semplicemente, trovare un lavoro per sfamare se stessi e la propria famiglia.
La trasformazione dell’individuo sociale nel viaggio, il diventare qualcun altro per mezzo del transito territoriale sono stereotipi letterari e fatti comuni nell’esperienza, dove, ad esempio, un membro del ceto medio con un reddito limitato può decidere di vivere un fine settimana come un nobile o un ricco, scegliendosi alberghi di extralusso e ogni altro genere di comfort.
L’emigrazione come ripartenza, rinnovamento e catarsi è stata descritta da Paolo Mantegazza (1831-1910), medico, antropologo, scrittore e anche grande viaggiatore con le seguenti parole: «In Argentina vi è un grande avvenire per tutti quelli che fra noi nacquero nei bassifondi della povertà o che nel mezzo della vita furono schiantati da una bufera economica o morale. Il cambiar clima guarisce molti mali, così come l’emigrazione purga e guarisce molte nazioni. Povero quel paese che non abbia una terra lontana e quasi sua, dove possano trapiantarsi i violenti e gli impazienti, dove possano errare le comete della società civile, dove possano guarirvi gli ammalati nel sangue e nel cervello. Quando l’emigrazione non è fuga, né vendetta sociale, né fame è un divellente che mantiene vigoroso ed agile l’organismo delle nazioni e l’Italia può trovare in nessun luogo terreno più opportuno ai suoi emigranti quanto nel Rio de La Plata. La bellezza del clima, le vive simpatie degli argentini per noi, le lunghe tradizioni di più secoli ci hanno chiamato in quelle terre benedette dal genio di Colombo».
Il viaggio come penitenza
Anche oggi si può viaggiare per fuga, alla ricerca di una propria libertà interiore, spinti dalla reazione a convenzioni sociali o da filosofie consolatorie.
Si può viaggiare per fede, come avviene nei pellegrinaggi o nelle visite ai santuari e agli oracoli anticipatori del turismo di massa. La cosiddetta “geografia della devozione” – Lourdes, Fatima, la Mecca, lo stesso Giubileo – sono pietre miliari del viaggio religioso dove si confondono misticismo, svago e penitenza.
La concezione del viaggio come penitenza è vecchia come i viaggi della coppia originaria, scacciata dal giardino dell’Eden per i suoi peccati, alla quale viene ingiunto di viaggiare e faticare per espiare delle colpe.
La partenza spezza i legami tra il peccatore e il luogo, con le sue occasioni di peccato. Forse è per questo che il viaggio, come l’esilio, era visto nello stesso tempo come una punizione, una cura, un castigo, una purificazione.
La religione islamica presuppone che un buon musulmano effettui almeno una volta nella vita un pellegrinaggio alla Mecca. Il Medioevo si caratterizzò per i pellegrinaggi cristiani a Santiago de Compostela, Roma e Gesusalemme. La Palestina cominciò ad essere meta fondamentale dei pellegrinaggi nel quarto secolo, nello stesso periodo in cui si formò un canone di testi cristiano.
L’incorniciamento e l’elaborazione dei luoghi santi, la sacralizzazione dei luoghi frequentati da Gesù Cristo cominciarono nel 326 con la visita di Elena, madre di Costantino, in Palestina. Ad incoraggiarla fu il vescovo Macario di Elia Capitolina – nome assunto da Gerusalemme dopo la sua distruzione e la successiva ricostruzione del 130, al tempo dell’imperatore Adriano – il quale, durante il Concilio di Nicea del 325 le aveva detto che occorreva preservare e commemorare la passione di Cristo attraverso la sacralizzazione di luoghi.
Durante la visita a Gerusalemme, Elena identificò i siti fondamentali della nascita, della vita e della morte di Cristo, tra cui quello del Santo Sepolcro, la liberazione del quale costituì lo scopo delle varie crociate.
Il senso della vita
Fin dall’inizio della letteratura di viaggio, si pensò che quest’ultimo ampliasse le conoscenze del viaggiatore attraverso l’osservazione e l’elaborazione delle differenze riscontrate e si ritenne che ciò provocasse una trasformazione qualitativa dello stato intellettuale del viaggiatore stesso.
L’idea che il viaggio potenzi l’intelligenza di chi lo intraprende è antica come Gilgamesh, il quale grazie ai suoi viaggi conobbe i Paesi del mondo, divenne saggio, interpretò misteri inspiegabili fino ad allora.
Strabone elenca coloro che cercano il senso della vita tra quelli che hanno il vizio di «vagare per le montagne» e ripete un’idea che era proverbiale nel primo secolo a.C., quando scriveva: «Gli eroi più saggi furono quelli che visitarono molti luoghi e vagarono per il mondo: i poeti onorano chi ha visto le città e conosciuto la mente degli uomini». E lo stesso Ulisse, per Dante, viaggiò per seguire «virtude e conoscenza».
Si può viaggiare dunque anche per studio e ricerca, sull’esempio degli archeologi ed esploratori del passato, per una sfida e un arricchimento culturale, come interpreta il grande viaggiatore von Humboldt, insistendo sull’importanza del contatto diretto con le diversità e le forme policrome della natura.
La scienza moderna sorge in un contesto in cui gli europei diventano viaggiatori coscienti di sé all’interno e all’esterno dei confini di una civiltà, in un contesto di esperienza in cui popoli, civiltà, piante, animali e paesaggi diventano oggetto di studio.
Il viaggiatore non raccontava più cose favolose, ma correggeva errori, scopriva verità. In questa nuova immagine di viaggiatore-scienziato era implicita l’idea che le sue osservazioni fossero sufficienti per conoscere e dare un nome alle cose, distinguere le specie in categorie e descrivere con oggettività le realtà osservate.
Svelare se stessi attraverso il viaggio
Nel ventesimo secolo l’immagine del viaggiatore ha acquistato anche una connotazione sociologica di “estraneo”, una definizione, questa, che contiene ancora quelle caratteristiche cui pensavano gli antichi quando definivano il viaggiatore come “filosofo” e anche quelle idee che all’inizio dell’età moderna portarono all’attribuzione di una particolare dignità al viaggiatore che si comportava come osservatore oggettivo e “descrittore del mondo”.
In virtù della mobilità e della lontananza con cui valuta e giudica, l’”estraneo” può cogliere la generalità dei rapporti indipendentemente dalla situazione locale.
Le caratteristiche del viaggiatore sono, secondo Rimmel: la libertà, l’oggettività, la generalità e l’astrazione. Il viaggiatore osserva e registra. Egli può descrivere la realtà che osserva e conosce in modo maggiore o minore a seconda del suo livello di cultura. Ma “estraneo” significa anche “straniero” e lo straniero viene visto come estraneo dalla comunità che lo riceve e viceversa, un confronto dal quale possono scaturire conflitti o elementi positivi.
Questo tipo di contatto, di rapporto con la comunità locale dev’essere analizzato, valutato, per poter interpretare lo stato mentale del viaggiatore, le sue inibizioni, le sue potenzialità di crescita.
Tentando di ricapitolare, se i miti arcaici erano fondati sull’eroe nomade (Gilgamesh, Ercole, Ulisse) e sui grandi viaggiatori conferenzieri dell’umanità, come Erodoto o l’arabo Ibn-Battuta, è emerso poi – via via nei secoli – il concetto che si possa viaggiare anche per raccontare, scrivere o filmare o, come avvenne all’epoca dei grandi esploratori, per affascinare i lettori con storie mirabolanti delle nuove terre scoperte.
Descrivere esperienze di viaggio non significa però solo fare cronaca di vicende belliche, situazioni politiche, fenomeni sociali o descrivere bellezze artistiche o paesaggistiche, ma anche – ed è una possibilità di tutti i viaggiatori – narrare esperienze personali, raccontare emozioni, svelare se stessi attraverso ciò che il viaggio ha suscitato.
La geografia dell’illusione
Si può poi viaggiare per imitazione, perché altri lo fanno e bisogna seguire le mode, per consumismo. Il viaggio come consumo è spesso un viaggio “tutto compreso” che include il collezionismo turistico: numero di viaggi come medaglie al valore, souvenir sempre più originali, video e filmati delle avventure di viaggio e così via.
Ne fanno le spese l’originalità, la genuinità e la spiritualità delle tradizioni e dell’arte dei popoli visitati. Molti paesi dell’Asia, dell’Oceania, dell’Africa e del Sudamerica subiscono forti pressioni da parte dell’industria del turismo e modificano tradizioni e culture in funzione del consumismo di massa.
Era prevedibile che in un mondo in cui grandi distanze vengono coperte in poche ore da aerei sempre più veloci diventi sempre più stimolante la ricerca di destinazioni sempre più “esotiche”, la ricerca dell’”impossibile” e del diverso da parte dell’uomo sedentario e comune.
Secondo l’antropologo Giancarlo Ligabue, «l’informazione in tempo reale, internet, stanno paradossalmente smussando i misteri, cancellando le fiabe e i miti, rendendo la vita monotona, confezionata e ripetitiva. Gli spazi vuoti non esistono quasi più o sono spazi impossibili. Esistono montagne con il semaforo per gli scalatori, si fa la coda per accamparsi nel deserto del Sahara, sotto le rocce del Tassili; i rinoceronti di Ngoro-Ngoro hanno tutti il loro nome, gli indigeni posano per cineprese in t-shirt e bevendo lattine di coca-cola. Le grandi paure ataviche del viaggiatore si sono trasformate in paure logistiche: paura di perdere l’aereo o una coincidenza, costi eccessivi ecc. L’apporto culturale del viaggio si traduce nell’esaltazione di un feticismo degli oggetti-ricordo, delle fotografie scattate, dell’esotico in carta patinata e dei filmati da proiettare a testimonianza dell’esperienza vissuta».
Siamo così di fronte ad una geografia dell’illusione in cui gli itinerari confezionati dai tour operator secondo regole di mercato diventano espressione di comportamenti remissivi e superficiali.
Devianze ed ebbrezza del rischio
Vi sono ancora viaggi come quelli che rientrano nella definizione del cosiddetto “turismo sessuale” che esprimono devianze. In questi casi il viaggio mimetizza un allontanamento dai riti e dalle convenienze sociali del luogo stanziale, per proiettare l’individuo in contesti profondamente diversi, ove la coscienza viene tacitata, ritenendo – in modo mistificatorio – che là vigano leggi e morali diverse da quelle del proprio Paese.
Ed infine si può viaggiare per mettersi alla prova, per sfidare la sorte, per provare l’ebbrezza del rischio, come fanno alcuni viaggiatori che – nonostante le raccomandazioni della Farnesina – viaggiano in luoghi assolutamente sconsigliati per la presenza di importanti situazioni di rischio, come conflitti militari, presenza di predoni, pirati o epidemie in corso.
*Direttore del Centro OMS di Medicina del Turismo.