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Tra inquietudini e lacerazioni

Cataldo Ventura, Inquietudine e calma, 1999Ed ora che la vicenda terrena di Piergiorgio Welby si è conclusa, lasciandosi dietro una drammatica inquietudine, lacerazioni dolorose e profonde, proviamo a riflettere ponendoci qualche domanda.
Partendo dalla fine, come non rimanere feriti dalla decisione del Vicariato Romano di negare i funerali religiosi ad una persona che è rimasta immobilizzata a letto per anni? Per il cristianesimo la sofferenza è testimonianza di amore sempre oppure solo quando è martirio? La Chiesa non ha forse perso un’ottima occasione per confermarlo? E se non sappiamo accogliere tra noi chi ha sofferto per decenni con coraggio e coerenza singolari, non finiamo per valutare nello stesso modo l’arco di tempo contenuto in una vita con quello contenuto in qualche giorno? L’eternità con un istante?
Se la vita di Welby merita enorme rispetto, la sua morte non ne conferma l’indiscutibile valore proprio in virtù delle prove complessive che ha saputo sostenere come persona? Si può negare l’asilo supremo a chi non ha avuto la forza di cercarselo oltre ogni limite? Ha senso sbattere le porte in faccia alla misericordia? Si può infine negare il “talento dei diversi”, sminuendo il valore della fatica che li ha sostenuti nella scalata del Golgota?

Riprendendo poi dall’esordio, mi chiedo: si può plaudire alla fine di un’esistenza umana in nome del rispetto della volontà personale, senza chiederci se non sia il caso di fare qualcosa anche per chi sceglie di continuare la battaglia restando in vita, per se stessi e per chi si ha a fianco ogni giorno e ogni notte, da anni? Quanto del nostro tempo, della nostra coscienza, della nostra professione, del nostro impegno politico, oltre a quello necessario per staccare la spina, siamo in grado di offrirgli?
E i sacrifici che le persone con disabilità compiono per rimanere in vita e per mantenersi in vita non sono (implicitamente) schiaffeggiati da chi, per le esperienze più travagliate, plaude alla “morte dignitosa”, proponendola come la soluzione tanto ragionevole quanto risolutiva?
E quanto appare “dignitosa”, così posta la questione, la condizione di chi sceglie di vivere cercando di resistere fino alla fine? Serve a qualcuno o a qualcosa impugnare una battaglia di cui si conosce il verdetto, sopportando il carico della sofferenza, sempre e comunque? Per la sofferenza umana può esistere una misura superata la quale una “dignitosa” eliminazione risulti scontata? E se a questo punto si cerca di resistere alla sofferenza, possiamo dire che si tratti di una scelta inutile? Disumana? Indegna? Come se potessimo attribuire al perseguimento della morte un valore e una dignità maggiori che alla conservazione e alla difesa della vita? Può insomma l’esistere effimero pesare di più dell’irreversibile ed eterno morire? Che cosa succederebbe se di fronte all’ineludibilità della sofferenza, che comunque andrebbe sempre considerata in tutte le sue dimensioni (compresa quella soggettiva), tutti scegliessimo di optare per l’estremo rimedio?

Su un altro versante, poi, che cosa sarebbe successo se di fronte alle malattie inguaribili del passato il genere umano non avesse ingaggiato una guerra senza quartiere perché ha considerato e considera che è proprio la malattia e la morte, in primo luogo, che tutte le nostre forze migliori devono combattere?
Quante “malattie” del passato sono oggi guaribili e che cos’altro se non la loro “esistenza in vita nei corpi e nella mente” delle persone ha provocato la ricerca scientifica al fine di trovarvi la cura?
La sofferenza vista come “causa” del processo che persegue una condizione umana migliore, non trova un suo “senso”, di per sé, da onorare? E questa parte di “progresso” non è stato un bene per il genere umano?

Se da una parte, dunque, si può capire che l’umana sopportazione possa e abbia il diritto di giungere al capolinea, possiamo noi attribuire a tale percorso significati che sormontino la pietas fino a chiederne la legittimazione morale ed etica e, addirittura, offrirla come soluzione terapeutica? La pietas, di per sé, può bastare? Coloro che hanno scelto di combattere, di soffrire, di morire, per superare la visione individualistica, che cosa testimoniano? Questo ruolo viene riconosciuto alla sofferenza dal genere umano? E se questa consapevolezza vi fosse, come cambierebbe l’atteggiamento di fronte alla sofferenza e, soprattutto, come cambierebbe la condizione di chi soffre?
Quanto ci ha aiutato e ci può ancora aiutare un indirizzo della storia che guardi, senza rimozioni, la parte di genere umano che è in difficoltà?

E per concludere con l’ennesima domanda, comprendere che la sorte avversa ci impone di ritrovare il senso di appartenenza, di comunità, di ricerca del benessere collettivo, può diventare la premessa per superare la condizione “gaudente e disperata” del nostro millennio?

*Presidente della Consulta Regionale Associazioni
dei Disabili
del Friuli Venezia Giulia.

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