Negli ultimi mesi il Comitato Associazioni Tutela [CAT delle Marche, N.d.R.], in rappresentanza di 14 associazioni di volontariato operanti a livello regionale, ha chiesto ripetutamente al Difensore Civico della Regione Marche di esprimere un parere sulla questione della contribuzione al costo dei servizi socio-assistenziali da parte degli utenti.
L’istante ricorda che l’Assessore Regionale alle Politiche Sociali, rispondendo ad un’interrogazione consiliare (15 novembre 2005), ha affermato che ai sensi del Decreto Legislativo 130/2000 «il calcolo del reddito per i soggetti portatori di disabilità gravi e per gli ultrasessantacinquenni non autosufficienti nella contribuzione al costo dei servizi socio assistenziali va effettuato in modo individuale, e non del nucleo familiare»; inoltre che «per quanto riguarda la compartecipazione dei familiari in base all’art. 433 del codice civile, questa deve essere chiesta solo dall’interessato e non direttamente dall’ente erogante il servizio».
Il Comitato ricorda altresì che il precedente Difensore Civico Regionale aveva fatto propri i chiarimenti forniti dall’Assessore con una propria nota del 16 gennaio 2006.
La problematica appare estremamente rilevante per i gravi risvolti sociali che comporta ed è stata portata all’attenzione di questo ufficio anche per altre segnalazioni ricevute, mentre la normativa vigente continua ad essere oggetto di interpretazioni contrastanti che danno luogo a prassi applicative tra loro differenti anche all’interno del territorio regionale.
Al riguardo si ritiene di poter formulare le osservazioni che seguono.
1.
Occorre precisare preliminarmente che il sottoscritto ha avuto già modo in passato di esprimersi sulla questione, in veste di Difensore Civico di Jesi. A distanza di più di due anni, anziché riportarsi semplicemente a quel parere, si è ritenuto opportuno approfondire l’analisi della problematica in discorso.
Per quanto riguarda la disciplina normativa, si ribadisce in primo luogo che i diritti alle cure sanitarie e all’assistenza hanno il loro fondamento nella Costituzione che afferma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32) e «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» (art. 38).
È noto che ad oggi le cure sanitarie sono effettivamente un diritto per tutti garantito dal Servizio Sanitario attraverso le Regioni e le ASL, mentre un diritto generalizzato non è ancora riconosciuto come esigibile per ciò che riguarda l’assistenza, se non per quanto attiene alle prestazioni economiche assistenziali attualmente erogate dall’INPS. Va precisato, per inciso, che la competenza del settore sanitario non si arresta solo al termine di un processo che può portare alla guarigione o alla riabilitazione, ma rimane anche per tutti quegli interventi che sono volti al contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o croniche (confronta in proposito le recenti Sentenze del Consiglio di Stato n. 3377/03, n. 152/2004, n. 479/2004, n. 4693/2006).
Gli altri principali riferimenti normativi sono i seguenti:
– L’articolo 3, comma 2, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento per le Regioni in materia di prestazioni socio-sanitarie) individua le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria di competenza del Comune nel senso che:
«Sono da considerare prestazioni sociali a rilevanza sanitaria tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. Tali attività, di competenza dei Comuni, sono prestate con partecipazione alla spesa, da parte dei cittadini, stabilita dai Comuni stessi e si esplicano attraverso:
– interventi di sostegno e promozione a favore dell’infanzia, dell’adolescenza e delle responsabilità familiari;
– interventi per contrastare la povertà nei riguardi di cittadini impossibilitati a produrre reddito per limitazioni personali o sociali;
– interventi di sostegno e di aiuto domestico familiare finalizzati a favorire l’autonomia e la permanenza nel proprio domicilio di persone non autosufficienti;
– interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali e semiresidenziali di adulti ed anziani con limitazione dell’autonomia, non assistibili a domicilio;
– interventi anche di natura economica atti a favorire l’inserimento sociale di soggetti affetti da disabilità o patologia psico-fisica da dipendenza, fatto salvo quanto previsto dalla normativa vigente in materia di diritto al lavoro dei disabili;
– ogni altro intervento qualificato quale prestazione sociale a rilevanza sanitaria ed inserito tra i livelli essenziali di assistenza secondo la legislazione vigente».
– L’articolo 25 della legge di riforma dell’assistenza 328/2000 stabilisce che:
«ai fini dell’accesso ai servizi (di assistenza) disciplinato dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal Decreto Legislativo 3 maggio 2000, n. 130».
– Il Decreto Legislativo 109/1998, modificato dal Decreto Legislativo 130/2000 prevede quanto segue:
All’articolo 2:
«La valutazione della situazione economica del richiedente è determinata con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare di appartenenza.
Ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo familiare
…
Le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti agli alimenti ai sensi dell’art. 433 del codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente le prestazioni sociali agevolate».
All’articolo 3:
«Limitatamente alle prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambito residenziale a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave, di cui all’articolo 3, comma 3 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertato ai sensi dell’articolo 4 della stessa legge, nonché a soggetti ultrasessantacinquenni la cui non autosufficienza sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali, le disposizioni del presente decreto si applicano nei limiti stabiliti con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la Solidarietà Sociale e della Sanità. Il suddetto decreto è adottato, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281, al fine di favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione, e sulla base delle indicazioni contenute nell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 3 septies, comma 3, del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».
Sembra dunque enunciato un principio secondo cui, per i casi e i soggetti specificati, non vi è compartecipazione dei familiari al costo dei servizi, né è rilevante la loro situazione patrimoniale ai fini della contribuzione dell’assistito al costo dei servizi.
Vi è chi sostiene che il Decreto Legislativo 130/2000 non costituisce ancora una prescrizione a carico degli enti erogatori di servizi e non dà luogo ad una corrispondente pretesa in capo ai beneficiari. Ciò in quanto non è stato adottato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ivi menzionato, volto a «favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza», che avrebbe dovuto prevedere le «modalità di contribuzione al costo della prestazione».
Secondo questa lettura è possibile «evidenziare la situazione economica del solo assistito» esclusivamente nell’ambito degli emanandi decreti e al fine specifico di promuovere la domiciliarità, e dunque non si tratterebbe di un principio di portata generale.
In altre parole si tratterebbe del riconoscimento di una facoltà all’amministrazione, non di un diritto in capo al potenziale beneficiario (al limite di una mera aspettativa). Per cui, discriminando caso per caso, il Decreto Legislativo 130/2000 potrebbe non essere applicato, quando incompatibile con la situazione finanziaria dei singoli Comuni.
Con una considerazione più di carattere politico-economico e organizzativo che non giuridico si sottolinea che, applicando il principio in questione, non si riuscirebbe a discriminare tra situazioni familiari diverse, determinando una distribuzione “a pioggia” e sostanzialmente uno spreco di risorse limitate.
In sostanza l’applicazione sistematica della normativa sopra menzionata secondo l’interpretazione più favorevole ai familiari dell’assistito non andrebbe in direzione di una maggiore equità distributiva – di cui la Difesa Civica dovrebbe farsi garante – in quanto creerebbe dissesti finanziari in capo ai Comuni, attribuendo benefici in maniera indiscriminata, cioè anche a favore di soggetti provenienti da famiglie benestanti, famiglie che invece avrebbero la possibilità e quantomeno il dovere morale di provvedere.
A interpretazioni di questo tipo, che limitano l’applicabilità, allo stato, del Decreto Legislativo 130/2000, si allinea la prassi di gran lunga prevalente.
2.
Altre valutazioni sembrano avallare un’interpretazione diversa.
La prima considerazione rilevante è che, ovviamente, il Decreto Legislativo costituisce una fonte gerarchicamente superiore rispetto al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, per cui il contenuto di quest’ultimo non potrebbe in ogni caso entrare in contraddizione con il primo.
Di contro a chi sostiene che in mancanza del decreto attuativo la norma generale non sarebbe applicabile, si osserva che la norma di dettaglio non costituisce una condizione sospensiva della validità della norma con valore di legge. Volta per volta occorre valutare invece se la mancata emanazione del provvedimento amministrativo costituisca un ostacolo non giuridico, ma tecnico, in via di fatto, all’attuazione del dettato normativo.
Non sembra questo il caso, visto che il principio enunciato dal Decreto Legislativo 130/2000 è sufficientemente chiaro nell’enunciare un sostanziale e preciso divieto, che come tale non ha assoluto bisogno di ulteriori precisazioni, necessarie invece per perseguire il concorrente obiettivo della promozione della domiciliarità.
Va osservato tra l’altro che le misure dirette a favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza sono state successivamente indicate in modo piuttosto dettagliato dalla Legge 328/2000.
Nella stessa direzione si è espresso anche il Garante per la Protezione dei Dati Personali quando ha affermato che sulla base dei principi di indispensabilità, pertinenza e non eccedenza dei dati raccolti rispetto alle finalità perseguite (art. 9 e 22 del Codice della Privacy), ai fini del riconoscimento delle prestazioni sociali (nel caso di specie si trattava di prestazioni INPS) possono essere raccolte solo informazioni personali riguardanti la situazione economica dell’interessato e non quelle del nucleo familiare di appartenenza:
«…la normativa di settore demanda ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri l’individuazione delle informazioni da dichiarare, in modo da evidenziare la situazione economica del solo assistito, favorendo la sua permanenza presso il nucleo familiare di appartenenza … Pur in mancanza di tale decreto attuativo … il trattamento dei dati personali ai fini del riconoscimento di prestazioni sociali agevolate deve avvenire già in conformità ai principi del predetto quadro normativo di settore, oltre che alle disposizioni in materia di protezione dei dati personali» (Garante per la Protezione dei Dati Personali, Nota del 24 Marzo 2006).
L’erogazione di prestazioni di natura assistenziale, del resto, non è normalmente condizionata dalla situazione economica dei parenti non conviventi, compresi quelli tenuti al pagamento degli alimenti. Si pensi per esempio all’erogazione dei contributi per il pagamento del canone di locazione, all’assegnazione di alloggi di edilizia economica e popolare, all’erogazione di sussidi economici ai disoccupati. Nel caso di mancato pagamento delle rette degli asili, i Comuni non si rivolgono ai parenti tenuti agli alimenti. Allo stesso modo, per ciò che riguarda le competenze statali, non fanno riferimento alla situazione economica dei parenti tenuti agli alimenti i sussidi di disoccupazione, l’integrazione al minimo delle pensioni di anzianità e di vecchiaia, l’ammissione al patrocinio a carico dello Stato.
Sembra del tutto privo di pregio il riferimento, talvolta accolto dalla Giurisprudenza, alla Legge 1580/1931, che ammette la rivalsa dell’Ente nei confronti dei congiunti delle persone ricoverate in manicomio che non si trovino in condizioni di povertà.
Ciò in quanto la normativa successiva (da ultimo la Legge 328/2000 e il Decreto Legislativo 109/1998) ha completamente cambiato l’ordinamento in materia, per il che si ritiene che la norma debba intendersi tacitamente abrogata.
Inoltre, perché la norma in parola è riferita esclusivamente alle persone ricoverate in manicomio ed un’estensione per analogia sembra indebita. Infine va osservato che dalla rivalsa erano comunque esclusi quei soggetti che si trovassero in “condizioni di povertà”, e con il tempo sono venuti meno i riferimenti che permetterebbero oggi di determinare quando un soggetto debba ritenersi in condizioni di povertà in relazione alla possibilità di sostenere o meno l’onere delle degenze (se non appunto quanto previsto dal Decreto Legislativo 109/1998 modificato dal Decreto Legislativo 130/2000).
3.
Altri Difensori Civici si sono pronunziati chiaramente sull’argomento, come per esempio il Difensore Civico della Regione Lombardia (viene spesso citata una sua nota del 2 dicembre 2003) o il Difensore Civico del Piemonte (già nella relazione per l’anno 1997), ma riferimenti a questa problematica si trovano in molte altre relazioni.
Recentemente il tema è stato anche oggetto di attenzione da parte della Conferenza Nazionale dei Difensori Civici (27 novembre 2006) la quale, senza esprimere altre indicazioni univoche nel merito, si è pronunziata sul tema nel senso che l’emanazione dei provvedimenti attuativi deve considerarsi ormai una competenza regionale con la riforma costituzionale del 2001.
Il nuovo articolo 117 della Costituzione, in effetti, demanda allo Stato il compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Lo confermano Sentenze della Corte Costituzionale come la n. 423/2004 (relativa a vincoli posti sulla destinazione del Fondo Sociale Nazionale) che escludono un’ingerenza statale su materie ormai affidate alle Regioni, la cui autonomia sarebbe violata ogni qual volta lo Stato si sostituisse ad esse nelle scelte relative a come spendere le risorse trasferite a loro trasferite.
Assume allora anche maggior rilievo la presa di posizione univoca degli organi regionali, che almeno per quanto riguarda la Regione Marche, a più riprese hanno ribadito, come si accennava all’inizio, la necessità di applicare il principio di cui si discute.
Infine, a quella che è la potenziale emergenza paventata in termini di dispersione di risorse si contrappone un’emergenza in corso; il dato sociologico ci parla di sempre più famiglie impoverite per dover prestare assistenza a congiunti, per effetto del concorrere di fattori quali il prolungarsi della vecchiaia con l’aumento della vita media e il deteriorarsi delle reti familiari, anche per fenomeni di per sé non certo deprecabili, quali il lavoro femminile extra-casalingo e le dimensioni sempre più ridotte dei nuclei familiari.
Si sottolinea ancora che il richiamo a questa esiguità delle risorse a disposizione, per quanto fondato su circostanze obiettive, non ha alcun pregio giuridico né spetta al Difensore Civico di farsene carico, se non vuole esorbitare dal suo ruolo, ma riguarda le varie istanze di governo e lo stesso legislatore. È compito precipuo dell’amministrazione e sua ragion d’essere quello di definire delle priorità attraverso scelte politiche, ma ciò deve avvenire sempre e comunque nel rispetto delle leggi vigenti.
Alla luce di queste considerazioni l’assistenza continuativa delle persone non autosufficienti o con disabilità gravi si configura come funzione fondamentale dello Stato e come diritto di cittadinanza, e non deve ricadere direttamente (a domicilio) o indirettamente (rivalsa dell’ente erogante) sulle famiglie, con conseguenze di regola pesanti sulla loro situazione economica e sociale.
Non si è dunque di fronte ad un’alternativa secca tra soluzioni dispendiose e pericolose dal punto di vista finanziario (l’applicazione del Decreto Legislativo 130/2000) e soluzioni che garantirebbero maggiore “efficienza” (lasciare mano libera agli enti erogatori dei servizi). Emerge piuttosto la necessità di effettuare un corretto bilanciamento di interessi e diritti contrapposti, per il che il vero problema sembra essere nella necessità di munirsi di strumenti idonei a discriminare situazione da situazione.
In altre parole, a parere di chi scrive, ferma l’interpretazione del dettato normativo che appare sufficientemente univoca da far parlare di un principio senz’altro vigente, non è il principio iniquo, ma occorrono corretti strumenti per impedire che in nome di questi principi si abbia una dispersione di risorse danneggiando una parte della potenziale utenza.
Per tale motivo, ferma l’applicabilità immediata del principio enunciato dal Decreto Legislativo 130/2000, rimane auspicabile l’emanazione di provvedimenti che consentano di avere una disciplina uniforme sul territorio regionale anche a livello regolamentare ed evitare abusi o forme più o meno velate di ricatto a carico degli assistiti e dei loro congiunti.
4.
In ogni caso, vigenti gli articoli 433 e seguenti del codice civile, non è possibile alcuna sostituzione dell’ente nel richiedere la prestazione alimentare ai familiari. Lo ribadisce il Decreto Legislativo 109/1998, art. 2, comma 6:
«Le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazioni degli alimenti ai sensi dell’art. 433 del codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata».
Il primo comma dell’articolo 438 del codice civile dispone che gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, mentre il terzo comma dell’articolo 441 del codice civile prescrive che se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’Autorità Giudiziaria secondo le circostanze.
Questo significa che il soggetto privo di mezzi può certamente rivolgersi ai parenti per la prestazione degli alimenti ai sensi degli articoli 433 del codice civile e seguenti, ma si tratta di un rapporto privato in cui non è possibile sostituzione.
Questo significa che i Comuni e gli altri enti pubblici non possono pretendere contributi economici dai parenti degli assistiti maggiorenni e non possono stabilire con propria delibera gli importi che i parenti sarebbero tenuti a versare. In altre parole anche sotto questo profilo gli enti non hanno facoltà di richiedere ai parenti il pagamento delle prestazioni assistenziali e in particolare delle rette di ricovero. Se l’avente diritto non lo fa di persona, è necessario che la prestazione alimentare, sussistendone le condizioni, la richieda per lui un soggetto legittimato nei modi e nei limiti di cui alla normativa civilistica (tutore, amministratore di sostegno), eventualmente con ricorso all’Autorità Giudiziaria.
Per gli stessi motivi non è possibile l’esercizio dell’azione surrogatoria nei confronti dei parenti astrattamente tenuti agli alimenti direttamente da parte delle amministrazioni che erogano le prestazioni socio-assistenziali.
5.
Con riguardo all’eventuale coinvolgimento volontario dei familiari nelle vicende assistenziali dei loro congiunti, si osserva che, nei casi di cui si discute, debbono considerarsi invalidi eventuali contratti con i quali i parenti si obblighino a versare dei contributi, quando la sottoscrizione avvenga sotto la pressione di uno stato di necessità ed urgenza e su moduli predefiniti dall’Ente, o in base alla falsa rappresentazione dell’esistenza di un dovere imposto dalla legge.
Convenzioni con i parenti degli utenti sono peraltro plausibili per disabili gravi e ultrasessantacinquenni non autosufficienti solo là dove si offrano prestazioni che vanno al di là dei livelli essenziali, che andrebbero definiti in campo socio-assistenziale così come è stato fatto in quello sanitario.
6.
Concludendo, per ciò che riguarda la questione della quota a carico degli utenti (quota sociale) nei servizi sociali e sociosanitari residenziali e non, rivolti a disabili gravi e anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti, che prevedono una compartecipazione, si può affermare che alla luce della legislazione vigente l’utente può essere chiamato a contribuire solo nei limiti del suo reddito personale (pensione ed eventuale indennità di accompagnamento nel caso di ricovero presso struttura) e del suo patrimonio (alloggi, terreni ecc.), senza oneri per i congiunti compresi quelli conviventi e comunque fatto salvo quanto previsto dalla Legge Regionale 43/1988 all’art. 6 (conservazione di una quota del reddito).
Non possono essere avanzate richieste di rivalsa nei confronti di parenti non conviventi con l’assistito, se non nelle forme e nei limiti di cui all’art. 438 c.c.; e quindi, in particolare solo dall’assistito e dal suo tutore o eventualmente amministratore di sostegno espressamente facoltizzato, non esistendo leggi che consentano agli enti pubblici di sostituirsi alla persona avente diritto agli alimenti nel rivendicare gli stessi.
Sono indebite le indagini dei servizi sociali sulle possibilità economiche dei parenti degli assistiti, come pure sono ovviamente indebite le minacce di non prestare o sospendere l’assistenza in mancanza del versamento di contributi.
La mancata presentazione dell’ISEE [Indicatore di Situazione Economica Equivalente, N.d.R.] del nucleo familiare non può essere motivo di esclusione dai servizi.
Al fine di individuare l’importo del contributo economico a carico degli adulti con handicap in situazione di gravità e degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti, possono essere acquisite esclusivamente le informazioni riguardanti la situazione economica dell’assistito e non quella del nucleo familiare di appartenenza.
La preoccupazione dei Comuni derivante dalla progressiva riduzione delle risorse necessarie alla gestione dei servizi sociali, quale conseguenza dell’applicazione del Decreto Legislativo 130/2000 è comprensibile e condivisibile nell’ottica dell’amministrazione, ma non vale a giustificare la disapplicazione per via di regolamento locale di una disciplina generale.
Poiché si ha notizia del fatto che vengono richiesti contributi ai parenti degli assistiti anche quando non sarebbero tenuti alla contribuzione, e ciò anche con minacce più o meno esplicite di esclusione dal servizio e di recupero forzoso dei presunti crediti maturati da parte dell’ente, si sottolinea che l’eventuale negazione o sospensione del servizio per la mancanza di tali indebite contribuzioni possono integrare il reato di omissione di atti di ufficio o di violenza privata qualora si tratti di minacciare le dimissioni forzate; dal punto di vista amministrativo tali atti e comportamenti appaiono illegittimi perché viziati da eccesso di potere.
Si invitano i soggetti pubblici attivi in campo socio assistenziale, ciascuno per le proprie competenze, ad attivarsi perché si provveda nel rispetto della legge vigente e dei principi costituzionali come sopra illustrato, eventualmente modificando i comportamenti e le decisioni sin qui adottate.
Si invita in particolare la Regione Marche a formulare le disposizioni applicative del Decreto Legislativo 109, così come modificato dal Decreto Legislativo 130/2000, al fine di uniformare la prassi nel senso sopra evidenziato.
Inoltre si invita la Regione a vigilare perché i principi sopra enunciati vengano comunque sin d’ora applicati in maniera corretta e uniforme su tutto il territorio regionale, anche assicurando un’appropriata diffusione della presente.
*Difensore Civico della Regione Marche.
Grassetti inseriti nel testo a cura della redazione.
– AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla) Regionale
– Alzheimer Marche
– ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali) Jesi
– ANGLAT (Associazione Nazionale Guida Legislazione hAndicappati Trasporti) Marche
– ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) Marche
– Associazione Free Woman
– Associazione La Crisalide
– Associazione La Meridiana
– Associazione Libera Mente
– Associazione Paraplegici Marche
– Centro H
– Gruppo Solidarietà
– Tribunale della Salute Ancona
– UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) Ancona