Molte cose sono cambiate in Gran Bretagna dai tempi in cui Enoch Powell – parlamentare dell’ala conservatrice del Parlamento – a seguito di un suo intervento nel 1968, in cui affermava che era «necessario mettere fine all’immigrazione», si trovò a ricevere così tante lettere di sostegno che le Poste Reali dovettero riservargli un furgone, per le varie consegne nell’arco di tutta la giornata.
Oggi, infatti, i rapporti tra le differenti etnie e le culture sono di certo migliorati, grazie anche alle leggi approvate verso la fine degli anni Sessanta, volte a contrastare le discriminazioni razziali. A queste sono poi seguiti gli altri provvedimenti riguardanti le discriminazioni nei confronti dei gay, delle persone con disabilità, degli anziani e delle donne.
E tuttavia può succedere che non sia sempre così facile distinguere tra quello che potrebbe sembrare un trattamento discriminatorio e le scelte individuali delle persone. O almeno è questo che emerge chiaramente da Persistent Employment Disadvantage, rapporto diffuso il 28 febbraio scorso da Richard Berthoud e Morten Blekesaune, dell’Institute for Social and Economic Research (ISER) dell’Università dell’Essex e realizzato per conto della rivista semigovernativa «The Equalities Review».
La rilevanza di tale documento è maggiore di quello che potrebbe sembrare, in quanto il testo fornirà le Linee Guida ad una nuova agenzia antidiscriminazione, che si insedierà prima della fine del 2007.
La Gran Bretagna, infatti, per prevenire trattamenti antidiscriminatori, non fa solo affidamento sulle leggi, ma anche sugli specifici organismi incaricati di farle rispettare. Le persone, quindi, non devono farsi carico come singoli cittadini di portare di fronte a un tribunale casi di discriminazione (subiti magari da un precedente datore di lavoro) o riunirsi insieme per svolgere “azioni di classe”: sono degli enti finanziati dal Governo a farsi responsabili delle loro cause per mezzo dei tribunali del lavoro.
I tre maggiori Dipartimenti, dunque – che coprono le discriminazioni per razza, sesso e disabilità – confluiranno nell’ottobre di quest’anno nella Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani, sotto la guida di Trevor Phillips.
Nel corso di una presentazione ufficiale tenuta davanti a una rappresentanza di parlamentari di tutti i partiti, quest’ultimo ha predetto che tale nuova organizzazione potrebbe portare “felicità generalizzata”, già a partire dal 2009.
E infatti il “migliore dei mondi possibile” potrebbe essere assai più lontano, senza il contributo della nuova agenzia, stando a quanto sostiene il citato rapporto. Da esso emerge ad esempio che le madri con figli piccoli rappresentano una delle categorie che incontrano tuttora le maggiori difficoltà in termini di inserimento lavorativo, ma che in proporzione esse sono molte di più di quelle che trovavano un impiego una trentina d’anni fa.
Le donne, poi, risultano pagate meno degli uomini e la ragione più significativa di ciò non sembra stare nel fatto che i potenziali datori di lavoro, vedendole con «un abnorme zaino pieno di pannolini», danno spazio al candidato successivo, quanto perché, a lungo andare, i permessi lavorativi tendono a ridurre le buste paga.
Anche per le donne provenienti dal Bangladesh o dal Pakistan risulta un bassissimo tasso di accesso al mondo del lavoro, ma questo potrebbe riflettere una preferenza culturale che le porta a restare a casa (norma che spesso molte di loro infrangono), più che una forma velata di razzismo.
Per quanto poi riguarda gli anziani, come mostra il rapporto, le opportunità di inserimento per le persone tra i cinquanta e i sessant’anni sono leggermente aumentate rispetto alla fine degli anni Novanta.
Gli unici, invece, che non sembrano aver fatto alcun progresso, sono proprio le persone con disabilità, gruppo allargato nel quale sono inclusi tutti gli individui con una «patologia invalidante per un lungo periodo».
Queste persone, infatti, sembrano le più difficili da supportare, per una serie di ragioni combinate, dal troppo tempo passato al di fuori del mondo del lavoro (il che può portare spesso a rimanere sin troppo “appiccicati” alla pensione di invalidità), sino al fatto che le persone con disabilità gravi o gravissime semplicemente non possono svolgere determinate professioni.
Non sembra perciò per niente facile il compito di Trevor Phillips e della nuova organizzazione che egli presiederà. Infatti, la «strategia a lungo termine, con obiettivi cadenzati», richiamata dal rapporto, potrà poco, se le ingiustizie che ci si propone di correggere vanno dalle scelte individuali, all’integrazione scolastica, ai curriculum di lavoro “macchiati”, fino alla condizione che spesso le include tutte: la povertà.
E tuttavia, per nulla scoraggiato, Phillips si è detto favorevole, ad esempio, a dei cambiamenti nella legislazione che consentano una discriminazione positiva, dove ciò potrebbe essere di beneficio pubblico.
Quand’era a capo della Commission for Racial Equality – ha ricordato – egli dovette impedire che le forze di polizia londinesi lanciassero un programma per il reclutamento di agenti di colore, ciò che sarebbe stata illegale. Inoltre, su un altro versante, gli era capitato di «esasperare gli ufficiali dell’Intelligence, chiedendo loro come si sarebbe potuto cercare di assumere più musulmani, senza infrangere le leggi».
Trevor Phillips ritiene infine che occasionalmente potrebbe essere necessario discriminare anche a favore di persone “bianche”. Nel citato rapporto, infatti, viene sottolineato come i ragazzi delle famiglie povere bianche siano «il gruppo che molto più probabilmente potrebbe essere tagliato fuori dall’educazione superiore nei prossimi decenni».
Phillips ritiene dunque che alle università dove la maggior parte degli iscritti appartengono a minoranze etniche o con una sproporzionata presenza femminile potrebbe essere concesso di accettare più domande di ragazzi bianchi.
Un concetto, questo, che resta per altro tutto da dimostrare e che pur di fronte a delle buone intenzioni, potrebbe tuttavia portare a risultati contraddittori.
*Traduzione e adattamento di un articolo recentemente apparso nel settimanale inglese «The Economist».