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Compartecipazione alle spese e tutela dei diritti*

Immagine della giustiziaSul tema della compartecipazione al costo dei servizi sociali e socio-sanitari, il 2007 è iniziato con due importanti novità: un Parere del Difensore Civico della Regione Marche e una Sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) di Catania [già ampiamente trattate, l’una e l’altra, da Superando.it, N.d.R.].
In entrambi i casi, infatti, sono state confermate le argomentazioni tecnico-legali da anni sostenute dal movimento associativo a tutela dei diritti delle persone con disabilità e recentemente ribadite da un parere del Servizio Legale LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), inviato a tutti i Comuni della Regione Lombardia.
La questione è sempre la stessa: moltissimi Comuni richiedono alle persone con disabilità – per l’accesso ai servizi sociali – dei contributi determinati in base a criteri non in linea con le indicazioni provenienti dalle leggi nazionali e dai principi generali del diritto attualmente in vigore. La conseguenza è quella che le persone con disabilità e le loro famiglie si trovano ad affrontare delle spese non solo insostenibili, ma giuridicamente non dovute.
In molti casi le legittime richieste delle famiglie di applicare dei criteri conformi alla normativa vengono respinte dagli Enti Locali, con la minaccia di non erogare o sospendere il servizio, laddove i contributi richiesti non vengano versati.

In questi anni il Servizio Legale della LEDHA ha seguito diversi casi su questo tema ed è emerso un quadro inquietante: sono pochi gli Enti Locali che in materia di ISEE [Indicatore Situazione Economica Equivalente, N.d.R.] possono davvero considerarsi pienamente “a norma”.
Ci sono ad esempio Amministrazioni che – per determinare la capacità economica dell’utente – chiedono i redditi e i patrimoni dei parenti non conviventi, mentre altre considerano “ricchezza” anche le provvidenze assistenziali (indennità di accompagnamento, pensione di inabilità, assegno di assistenza, indennità di frequenza); altre ancora non applicano per le disabilità gravi il principio del riferimento alla sola condizione economica del richiedente il servizio e alcune Amministrazioni addirittura pretendono i contributi dai parenti di colui che beneficia del servizio. E questi sono solo alcuni dei diversi profili di illegittimità rilevati.

I due recenti interventi provenienti dalle Marche e dalla Sicilia costituiscono un ulteriore supporto alle ragioni delle persone con disabilità, dei loro familiari e delle associazioni, chiarendo ancora una volta e definitivamente quanto sostenuto da anni: la maggior parte delle Amministrazioni Comunali applicano dei criteri ISEE fuori legge! Insomma, quasi nessun Ente Locale sembra riuscire a stabilire dei criteri conformi ai criteri stabiliti dalla legge per “pagare il giusto”.

Per quanto riguarda la Sentenza del giudice amministrativo catanese (Sentenza del TAR di Catania n. 42, 11 gennaio 2007), la vicenda riguarda la prassi seguita dai Comuni del Distretto Socio-Sanitario di Siracusa che – nel determinare il contributo a carico di una persona con grave disabilità richiedente il servizio di assistenza domiciliare – valutano la situazione economica dell’utente facendo riferimento al reddito/patrimonio dell’intero nucleo familiare, anziché alla “ricchezza” della sola persona con disabilità beneficiaria del servizio.
I genitori di alcuni utenti del servizio stesso, appoggiati dall’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), hanno fatto ricorso al TAR, chiedendo l’annullamento del regolamento comunale, che prevedeva questi criteri di valutazione della situazione economica degli utenti, in quanto in contrasto con la norma del Decreto Legislativo 109/1998 (così come modificato dal Decreto Legislativo 130/2000) che sancisce – per i disabili gravi – il principio del riferimento alla situazione economica del solo assistito (articolo 3, comma 2 ter).
Il TAR, nel valutare il caso concreto, ha innanzitutto richiamato la norma fondamentale tra le leggi sui servizi sociali (articolo 25 della Legge 328/2000), secondo cui «ai fini dell’accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130».
Un rimando preciso, dunque, alla normativa ISEE per valutare la condizione economica dei beneficiari dei servizi sociali.
Il passaggio logico successivo è stato quello di ricondurre il servizio di assistenza domiciliare proprio tra i servizi sociali per i quali occorre applicare il principio del riferimento alla situazione economica del singolo utente.
Effettuate queste valutazioni preliminari, il giudice amministrativo ha poi affrontato la dibattuta e controversa questione dell’applicabilità di tale principio, pur in mancanza di un decreto attuativo. Sono moltissimi infatti gli Enti Locali che non lo ritengono applicabile proprio perché il decreto attuativo non sarebbe mai stato emanato.
Ebbene, il TAR di Catania ha finalmente sancito che la norma contenuta nell’articolo 3, comma 2 ter del Decreto Legislativo 109/1998 «può essere applicata direttamente anche a prescindere dalla mancata adozione del DPCM, in essa previsto, trattandosi di prescrizione immediatamente precettiva, che non necessita di disposizioni attuative di dettaglio».

Persona in carrozzina con accompagnatriceSi tratta quindi di un’importantissima conferma a quanto sostenuto fermamente in questi anni di attività a tutela dei diritti delle persone con disabilità, nonché a quanto recentemente evidenziato nella lettera inviata dalla LEDHA a tutti i Comuni lombardi: la mancata emanazione di un atto normativo di livello inferiore (quale è un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) non può vanificare né condizionare l’applicazione di una norma di livello superiore, quale è un Decreto Legislativo, e ciò in virtù del principio di gerarchia delle fonti del diritto.
Il principio del riferimento alla situazione economica del solo assistito dovrà pertanto essere sempre applicato, laddove il beneficiario del servizio sia una persona con disabilità grave. Qualsiasi regolamento comunale che non preveda l’applicazione di questa regola dovrà essere considerato illegittimo, così come illegittima dovrà ritenersi qualsiasi determinazione con la quale l’amministrazione determina concretamente il contributo.

Un altro aspetto interessante preso in considerazione è poi quello della legittimazione da parte delle associazioni ad agire processualmente e a proporre azioni giurisdizionali in nome proprio, laddove si tratti di tutelare degli interessi collettivi. In questo caso, infatti, il ricorso al TAR è stato promosso non solo dai genitori della persona direttamente interessata, ma anche dalle associazioni ANFFAS Nazionale e ANFFAS Sicilia.
La Sentenza, nel ritenere entrambi gli enti pienamente legittimati ad agire in giudizio, non ha richiamato la norma sulle Associazioni di Promozione Sociale (Legge 383/2000, articolo 27), ma si è rifatta espressamente alla recente Legge 67/2006 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazione), ove l’articolo 4 stabilisce che: «Sono altresì legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 3 in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione».
In realtà il decreto che dovrebbe individuare le associazioni “autorizzate” non è stato ancora emanato, per cui si tratta pertanto di uno storico precedente che potrebbe aprire la strada alle molte realtà associative attive sul territorio che quotidianamente si battono con passione per la tutela dei diritti delle persone con disabilità.

Il secondo recente intervento sul tema della compartecipazione al costo dei servizi sociali riguarda un Parere del Difensore Civico della Regione Marche [Samuele Animali, N.d.R.].
Qui, a differenza della Sentenza del TAR di Catania che si è occupata esclusivamente della questione dell’applicazione del principio del riferimento alla situazione economica del solo assistito, il Difensore Civico marchigiano ha preso posizione su quasi tutti gli stessi aspetti della questione, già evidenziati nella lettera inviata dalla LEDHA ai Comuni lombardi, confermando sostanzialmente l’illegittimità dei criteri utilizzati dagli Enti Locali.
Anche il Difensore Civico, in primo luogo, conferma che per le persone con disabilità grave non è possibile considerare la situazione economica dei familiari dell’utente, in quanto ritiene immediatamente applicabile il principio sancito dal Decreto Legislativo 130/2000.
In secondo luogo richiama in modo deciso gli Enti Locali a non chiedere alcun contributo ai familiari dell’utente, in quanto ciò è espressamente vietato dalla stessa normativa ISEE (articolo 2 del Decreto Legislativo 109/1998). Sono infatti molti i Comuni che ancora oggi ritengono possibile rivalersi sui parenti per il pagamento dei contributi, richiamando la Legge 1580/1931 la quale ammetteva appunto la rivalsa dell’Ente nei confronti dei congiunti delle persone ricoverate in manicomio.
 Persona in carrozzina che esamina cassetta delle posteSi tratta comunque di una legge, come ricorda il Difensore Civico delle Marche, completamente superata dalla normativa successiva che ha introdotto regole diverse, quale appunto – per gli Enti – il divieto di chiedere e pretendere dei contributi da parte dei parenti tenuti agli alimenti.
Molto interessante, poi, il passaggio del Parere in cui viene affermato che l’assistenza continua delle persone con disabilità gravi si configura come una «funzione fondamentale dello Stato» e che pertanto la situazione di difficoltà finanziaria di molti Enti Locali non può giustificare il mancato rispetto delle leggi.

Il Difensore Civico ricorda infine come, in ordine all’eventuale coinvolgimento volontario dei familiari, debbano considerarsi invalidi eventuali contratti con i quali i parenti si obblighino a versare dei contributi, quando la sottoscrizione avvenga sotto la pressione di uno stato di necessità e urgenza o sulla base di una falsa rappresentazione dell’esistenza di un dovere imposto dalla legge.
Questa precisazione è molto importante, in quanto consente ai familiari non solo di chiedere l’annullamento di eventuali impegni contrattuali sottoscritti, nel termine di prescrizione previsto dal Codice Civile, ma di opporre sempre tale invalidità successivamente, laddove le Amministrazioni Comunali attivino le procedure esecutive per la riscossione dei contributi (articolo 1442 ultimo comma del Codice Civile).
Il Parere si conclude ricordando come l’eventuale negazione o sospensione del servizio per la mancata contribuzione dei familiari può integrare il reato di omissione di atti di ufficio o di violenza privata, qualora si tratti di minacciare le dimissioni forzate. Le famiglie che si trovassero in una situazione simile potranno pertanto anche fare una denuncia alla Procura della Repubblica.

Vale la pena qui ricordare che le famiglie hanno un ulteriore strumento a tutela dei propri diritti: il ricorso al Garante per la Protezione dei Dati Personali il quale ha recentemente sancito (in una lettera inviata il 22 settembre 2006 al Comune di Pavia) che, al fine di individuare l’importo del contributo economico a carico delle persone con disabilità grave, possono essere acquisite esclusivamente le informazioni riguardanti «la situazione economica del solo assistito e non anche quella del nucleo familiare».
Il consiglio è pertanto quello – laddove i Servizi Sociali dei Comuni chiedano di compilare l’ISEE anche ai familiari – di segnalarlo al Garante, chiedendo l’applicazione delle eventuali sanzioni (anche penali) stabilite dal Codice della Privacy, nel caso di violazione dei principi di indispensabilità, pertinenza e non eccedenza dei dati raccolti rispetto alle finalità perseguite (articoli 9 e 22 del Codice della Privacy)

Alla luce dunque delle recenti novità giurisprudenziali e di una maggiore certezza nell’interpretazione del quadro normativo vigente, riteniamo si stiano sempre più consolidando le basi giuridiche su cui opporsi in modo deciso a queste prassi illegittime e soprattutto profondamente inique e immorali.
Insomma, da oggi in poi le persone con disabilità e le loro famiglie potranno contare su una maggiore consapevolezza dei propri diritti.

*Per gentile concessione della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), dal cui sito questo testo è tratto.
**Servizio Legale LEDHA.

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