Il 30 marzo 2007 l’Italia ha sottoscritto la Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità, adottata dagli Stati membri delle Nazioni Unite, “Carta” che vuole promuovere e proteggere i diritti e la dignità dei circa 650 milioni di persone colpite da ogni forma di disabilità in tutto il mondo.
Una Convenzione – secondo il Dizionario Melzi della Lingua Italiana – è un «Trattato tra due o più Stati per regolare questioni di interesse comune». Si tratta quindi di una normativa che riconosce il pieno rispetto della dignità e dei diritti delle persone disabili quali cittadini ad ogni effetto globalmente riconosciuti nella sfera giuridico-personale di uomo.
Ancora una volta, dunque, la comunità internazionale ha richiamato i principi proclamati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948 delle Nazioni Unite, che riconosce la pari dignità e i diritti inalienabili degli esseri umani, quali presupposti indispensabili per la pace, la giustizia e la libertà senza discriminazioni.
La Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità dovrebbe entrare in vigore in quegli Stati che l’approveranno e la ratificheranno entro il 2007. Molti però si chiedono – e noi con loro – se non sia insufficiente la differenziazione tra disabile e handicappato per come è stata definita nel testo.
Disabile è colui che è privato di una forza fisica, morale, intellettuale, di una certa capacità. Handicappato è colui che ha ricevuto uno svantaggio in partenza, un ostacolo, un intralcio, un’inferiorità interna o esterna che impedisce di manifestare il massimo della potenzialità psicofisica.
In altre parole, la disabilità, nella generica interpretazione legislativa, è comunemente considerata quale privazione della forza fisica, una menomazione funzionale fisico-mentale o di emarginazione che concerne appunto tutti i disabili.
Sostanzialmente l’eliminazione delle molte barriere etico-sociali ancora esistenti nel consesso civile potrebbe mettere in grado le persone disabili di svolgere le attività quotidiane e di partecipare attivamente e materialmente alla vita sociale come i normodotati.
L’handicap, invece, dovrebbe essere considerato come riferito ad una sua natura specificatamente e particolarmente psichica e visto letteralmente come difficoltà psicologica, menomazione o “involuzione della mente”, ostacolo o svantaggio in origine, manifesta inferiorità che impedisce di esprimere quel processo e complesso di efficienza globale e continua, nel segno di un’inferiorità autonoma di volontà intellettiva congenita o acquisita, così come ritenuta dalla stessa OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
A questo punto è quasi superfluo, ma ugualmente necessario, rilevare che l’handicappato psichico abbisogna, come ogni paziente, di cure mediche, di attrezzature ad alta tecnologia atte alla prevenzione, alla cura e all’eventuale inserimento sociale e affettivo per ogni suo periodo di sofferenza e non di propositi lavorativi, come invece propone e contempla l’articolo 27 della Convenzione.
Quella evidente “inferiorità psichica” può portare infatti a gravi conseguenze per la famiglia e per la società, se non si danno misure sanitarie-etico-sociali specifiche, per ridurre anche i rischi dell’esclusione sociale senza discriminazione, come anela giustamente la Convenzione stessa.
Nei successivi articoli, poi, gli Stati aderenti si dovranno fare carico del recupero fisico, cognitivo e del rispetto dell’integrità fisica e mentale, sempre ché l’ONU sappia imporre l’applicazione di quelle ottime normative le quali, però, ancora oggi, per quanto riferito al comparto psichico, poco compaiono nella stesura della Convenzione.
Nel Preambolo di quest’ultima si richiamano i principi proclamati dalle Nazioni Unite e la piena partecipazione dei disabili senza discriminazione, «che soffrono di deficit fisici, mentali, intellettuali o sensori di lunga durata», comprensivi di quanto ha affermato la Dichiarazione dei Diritti dell’Handicappato Mentale del 20 dicembre 1971 dell’ONU, dove si sostiene che «l’handicappato mentale deve godere in tutta la misura possibile degli stessi diritti degli altri esseri umani».
Ora, a nostro sommesso avviso, la nuova Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabili non considera specificatamente – ripeto – l’handicappato mentale, perché l’uso del termine malato (psichico), come sinonimo di persona con disabilità, non è quello promosso dalla Convenzione stessa che segna invece un distacco molto chiaro da un approccio medico-assistenziale ad un approccio legato ai diritti umani.
Sarebbe invece opportuno sperare che la Convenzione, nel quadro della strategia mondiale di salute pubblica che si è proposta, adottasse specifiche normative in favore del malato mentale ed esortasse gli Stati aderenti ad abolire forme di discriminazione, specialmente in riferimento ai Paesi in via di sviluppo, assumendo per questo tipo di “disabili malati”:
a) meccanismi interpretativi uguali nell’universalità e nell’interdipendenza senza discriminazioni;
b) adozione di servizi reali e specifici nell’ambito delle competenze economiche-organizzative di ciascun Stato Membro, nel pieno rispetto della dignità di persone portatrici di handicap psichici, con cure adeguate in strutture ad alta tecnologia;
c) attivazione della ricerca scientifico-farmacologica e sviluppo tecnologico sulla malattia mentale come per ogni altro comparto sanitario;
d) formazione di un Fondo Economico Finanziario Speciale, anche con il sostegno delle Nazioni Unite, per le persone indigenti, dove far confluire quelle parti di patrimonio o di risparmi che per legge naturale andranno in eredità al “malato”, un Fondo amministrato da un Ente Pubblico che porti a quella naturale continuità che il singolo tutore, curatore od amministratore non può garantire fisicamente e che costituisce una dolorosa preoccupazione che assilla le famiglie di questi “malati”.
In conclusione, una forte azione preventiva delle malattie mentali è opportuna e urgente, anche perché la crisi dei valori e l’affermazione di disvalori accrescono la solitudine, fanno cadere le tradizionali forme di coesione sociale, sfaldando i gruppi di aggregazione, in particolare sul piano culturale – come molto bene considera la Convenzione – e screditando la famiglia, cellula primaria della società.
La dominante cultura della nostra società sempre più chiusa ed egoistica non ci deve quindi portare a dimenticare o ad emarginare la sofferenza perché ciò può portare gravi conseguenze sulla salute mentale dei cittadini.
Franco Previte
Presidente Associazione Cristiani per servire
Risponde Giampiero Griffo, membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), componente della Delegazione Italiana che ha lavorato in questi anni all’elaborazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Gentile Franco, mi fa piacere rispondere ai quesiti che lei pone in merito alla Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite.
Le sue sono questioni interindipendenti e quindi è necessario sviluppare un ragionamento e non una risposta secca.
Innanzitutto la distinzione da lei usata tra disabile e handicappato non è condivisibile, anche solo dal punto di vista legale: la Legge 104/92, infatti, che ha introdotto in Italia il termine handicappato, non pone alcuna distinzione sulla natura delle minorazioni. Inoltre, a livello internazionale il termine handicap è ormai desueto perché il documento che l’aveva introdotto (l’ICIDH) è stato sostituito nel 2001 dall’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, una delle Agenzie dell’ONU.
Al di là comunque delle questioni terminologiche, lo scopo della Convenzione è quello di «proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità», senza introdurre distinzioni di sorta. Il che significa che qualsiasi natura abbia la disabilità (che è «il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri»), queste persone devono essere considerate titolari degli stessi diritti e libertà fondamentali, su base di eguaglianza riguardo agli altri cittadini. In questo senso fondamentale è l’articolo 12 della Convenzione.
La discussione di questi anni all’interno del Comitato Ad Hoc, che ha condotto all’importante testo, si è concentrata sull’interpretazione del significato del termine rappresentanza davanti alla legge: c’era chi sottolineava l’incapacità di agire delle persone che non possono rappresentarsi da sole (includendo sia quelle che hanno una limitazione funzionale organica, sia quelle che hanno una disabilità psicosociale, che ancora nella maggioranza dei Paesi porta ad essere rinchiusi nei manicomi e privati della rappresentanza legale) e quindi proponeva la tradizionale forma di rappresentanza delegata ad un tutore, che quando viene a mancare la famiglia, diventa spesso una figura estranea alla persona interessata (un giudice tutelare, il direttore di un istituto, il sindaco, il medico che lo tiene in cura) e altrettanto spesso si occupa solo della rappresentanza degli interessi patrimoniali.
La seconda impostazione, invece, sottolineava che la rappresentanza legale davanti alla legge doveva essere data da una persona che tutelasse i diritti umani, una sorta di rappresentante personale che si occupasse anche della qualità della vita, dei trattamenti medici e sociali, del livello di inclusione sociale.
Questa seconda impostazione è stata difesa strenuamente dall’International Disability Caucus (IDC), che rappresentava settanta organizzazioni di persone con disabilità e loro familiari, dall’Unione Europea e da molti Paesi industrializzati. La prima impostazione ha trovato invece i suoi sostenitori soprattutto nella Cina, nella Russia, nei Paesi Arabi e nell’India. Alla fine il testo approvato ha mantenuto la seconda impostazione.
Appare evidente che su questo punto si giocherà una battaglia nazionale in ogni Paese per una trasformazione radicale dei sistemi di tutela e di presa in carico delle persone che non possono rappresentarsi da sole o che sono ritenute tali (pensiamo alle legislazioni di molti Paesi che prevedono sistemi sanitari fondati sui manicomi, le segregazioni, trattamenti basati sugli elettrochoc ecc.).
Dal canto suo il movimento mondiale delle persone con disabilità si impegnerà perché i sistemi di welfare non rinchiudano più le persone con disabilità che non possono rappresentarsi da sole in istituti, non li trattino in maniera differente senza giustificazione, pensando che la loro vita possa ridursi ai centri diurni, per quanto di qualità, ma riconosca tutti i diritti negli stessi luoghi di tutti e nelle comunità in cui vivono (articolo 19 della Convenzione).
Una particolare attenzione nella discussione di questi anni è stata dedicata a coloro che vivono disabilità psicosociali, terminologia proposta dall’International Disability Caucus e in particolare dalla Lega Mondiale dei Sopravvissuti Psichiatrici (World Network of Users and Survivors of Psychiatry – WNUSP), che non è stata ripresa purtroppo dal testo della Convenzione il quale parla invece di «minorazioni intellettive e mentali», volendo includere rispettivamente le minorazioni psichiche di tipo organico e quelle di tipo psichiatrico.
Purtroppo l’articolo 17 (Protezione dell’integrità della persona), che doveva garantire un legame stretto con quanto previsto dall’articolo 12, a causa dell’opposizione di moltissimi Paesi, si è ridotto ad una semplice enunciazione di principio.
Allora è un pregiudizio pensare che vi debbano essere trattamenti specifici legati alle minorazioni psicosociali o intellettive. Tutti gli esseri umani devono godere dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la società deve cambiare il modo di rispondere alle differenti esigenze dei suoi cittadini sulla base di un nuovo approccio culturale basato sui diritti umani. La Convenzione, quindi, non fa distinzione tra tipi di disabilità, ma applica i diritti umani a tutti.
Rispetto alle altre sue domande, vorrei anche qui rispondere punto per punto.
Per quanto riguarda la società, essa deve riflettere, interrogarsi ed elaborare nuove forme di servizi che garantiscano a queste persone cittadinanza piena e tutela dei diritti umani.
La Convenzione offre il quadro culturale e legale per costruire questo cambiamento, spetta ora a noi – movimento di liberazione delle persone che vivono discriminazioni, mancanza di pari opportunità e continue violazioni di diritti umani – elaborare strategie e servizi rispettosi degli stessi diritti umani e farli divenire standard operativi degli Stati e dei servizi pubblici e privati.
In Italia l’amministratore di sostegno già rappresenta un passo avanti che però dobbiamo essere noi a qualificare nella direzione di difensore dei diritti umani.
Parlando poi di salute, la Convenzione sottolinea che «Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità. Gli Stati Parti devono prendere tutte le misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità l’accesso ai servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere» (articolo 25) e ancora che «Gli Stati Parti prenderanno misure efficaci e appropriate, tra cui il sostegno tra pari, per permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la massima autonomia, la piena abilità fisica, mentale, sociale e professionale, e di giungere alla piena inclusione e partecipazione in tutti gli ambiti della vita. A questo scopo, gli Stati Parti organizzeranno, rafforzeranno ed estenderanno servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali» (articolo 26).
Ed infine: «Gli Stati Parti promuoveranno la disponibilità, la conoscenza e l’uso di tecnologie e strumenti di supporto, progettati e realizzati per le persone con disabilità, e che ne facilitino l’abilitazione e la riabilitazione».
Per quanto concerne infine il trust – ovvero quel Fondo Economico Finanziario Speciale da lei auspicato – purtroppo questa misura risulta ancora presente in poche legislazioni nazionali e quindi non inclusa nel testo della Convenzione, che – ricordiamolo – è una Convenzione basata sui diritti umani e in quanto tale raccoglie il massimo consenso dei 191 Stati aderenti alle Nazioni Unite.
Spero di avere risposto a tutte le sue domande. Ma vorrei ora approfittare per fargliene una anch’io: come lei ben saprà, la Santa Sede ha deciso di non firmare la Convenzione, perché, pur considerandola ottima e importante per il miglioramento della qualità della vita dei 650 milioni di persone con disabilità del mondo (l’80% dei quali vivono in Paesi in cerca di sviluppo), ritiene che gli articoli 23 e 25, sottolineando l’accesso ai servizi riproduttivi, favoriscano l’aborto.
Come certo sa, questi articoli si riferivano a quelle migliaia di persone con disabilità che ogni giorno muoiono a causa dell’AIDS, proprio per il fatto di non poter avere accesso a questi servizi.
Ebbene, la mia domanda è la seguente: perché le organizzazioni cattoliche, gli stessi cattolici individualmente impegnati nella tutela dei diritti delle persone con disabilità, non si sono pronunciati in alcun modo, non hanno scritto una lettera, non hanno preso posizione pubblicamente con articoli, convegni o altro?
Avendo partecipato in marzo ad un seminario della Conferenza Episcopale Italiana sul tema della Convenzione, ho potuto io stesso verificare con mano lo sconcerto e la perplessità di tanti partecipanti al convegno che operano nelle missioni cattoliche nei Paesi poveri, in istituzioni religiose di accoglienza e sostegno alle persone con disabilità e alle loro famiglie.
Possibile che in Italia tutti i cattolici siano d’accordo con le posizioni vaticane?