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Anche dalle parole passa il cambiamento

La scritta «parole» su una pietraQuanto sia importante nella comunicazione l’uso di linguaggi appropriati è da tutti universalmente accettato e addirittura ricercato.
Qualche volta, durante una chiacchierata informale, può succedere di indulgere un po’ meno sulla forma, sui termini e sull’uso corretto dei verbi, sapendo che chi ci ascolta può incorrere negli stessi errori. E in ogni caso rimane sempre intatto il significato e il concetto che si vuole trasmettere.
Altra cosa sono però i discorsi ufficiali, i testi scritti e ogni altro mezzo che deve comunicare chiaramente un concetto, un pensiero, un commento o una norma. In questi casi, infatti, la parola scritta deve riflettere fedelmente quel concetto, quel pensiero, quel commento e nel caso della norma il valore cogente della stessa.
Nel caso poi si debba dare spazio, all’interno di quei testi, alle attività umane o peggio ancora alle persone, torna sempre alla mente il titolo di quell’illuminante articolo di Giampiero Griffo, scritto anch’esso per Superando.it, ovvero che Le parole sono pietre.

Uno degli obiettivi istituzionali del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) è la valutazione della politica complessiva sulla disabilità in Europa e in Italia e la promozione della conoscenza e dell’applicazione nel nostro Paese di atti di indirizzo e di normative internazionali relative a questo settore.
Per fare ciò, vi è un’incessante attività di lettura e di analisi dei testi, al fine di valutarne la coerenza tra le parole usate e i concetti che si vogliono trasmettere, in particolare dopo la traduzione in italiano di testi nati in lingua straniera.
Ebbene, all’interno di questa sua specifica attività, il CND – in proprio o su segnalazione di terzi – ha sempre rilevato una certa rigidità dei termini tradotti e inseriti nei documenti istituzionali europei, rigidità che quasi mai tiene conto dell’evoluzione del linguaggio e usa ancora termini come portatore di handicap, handicappato, qualche volta disabile (una rigidità, per altro, che non possiamo considerare un male in assoluto, pensando ai comunicati stampa di alcuni parlamentari europei o nazionali, ove si “scatena” letteralmente la fantasia del “politicamente corretto” che può portare al terribile uso di parole come diversamente abile…).

L’occasione per intervenire si è presentata comunque dopo la pubblicazione di una Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, relativa al ricorso di una cittadina spagnola e riguardante l’applicazione, nel Paese iberico, della Direttiva Europea 78/2000 sulla non discriminazione nei luoghi di lavoro.
Qui la Sentenza C 13-05 dell’11 luglio 2006, Directiva 2000/78/CE – Igualdad de trato en el empleo y la ocupación – Concepto de discapacidad, tradotta in inglese con Directive 2000/78/EC – Equal treatment in employment and occupation – Concept of disability, in italiano diventava Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Nozione di handicap.
Appare dunque evidente come nel passaggio alla traduzione italiana il termine usato sia handicap, ovvero quello che non tiene in alcun conto dell’evoluzione culturale e sostanziale suggerita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che dall’handicappato della Classificazione ICDH, nel 1980, ha introdotto già nel 2001, con l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), la terminologia di persona con disabilità.
Addirittura, leggendo la Sentenza, questo uso delle parole portatore di handicap e handicappato, intercalate da disabile (forse per problemi stilistici? Non ci è dato saperlo…), stravolge l’intero senso del testo.

Luisella Bosisio Fazzi e Nicola Fazzi al Palazzo delle Nazioni Unite, il 30 marzo 2007, in occasione della firma italiana della Convenzione sulla DisabilitàLa segnalazione ci è giunta da una cara amica e attenta professionista impegnata nella nostra rete associativa, come Claudia Corsolini, giurista, esperta in diritti umani e disabilità (ne segnaliamo ad esempio il saggio del 2002 Bioetica, diritti umani e disabilità), oltreché docente di Diritto Pubblico e già responsabile di un’organizzazione non governativa che si occupa di bambini con disabilità nei Paesi in Via di Sviluppo. Una persona, quindi, che non poteva certo accettare tranquillamente una traduzione pessima come quella italiana, tanto da stravolgere lo stesso concetto giuridico della Sentenza.

Detto fatto, con l’aiuto della nostra corrispondente a Bruxelles, la giornalista Maria Cristina Coccoluto, ci siamo messe alla ricerca dei contatti istituzionali utili ad arrivare a chi si occupa di tradurre i testi ufficiali europei, arrivando finalmente a coloro i quali lavorano sulle traduzioni italiane presso la Commissione e il Consiglio dell’Unione Europea.
Qualche settimana fa, quindi, sono volata a Bruxelles per incontrarmi con loro, ciò che è stato utile anche per allacciare nuove proficue collaborazioni.
Siamo stati accolti con un’inaspettata apertura, con grande entusiasmo – quasi ci aspettassero da sempre – e sin da subito abbiamo dialogato sulle reciproche necessità linguistiche.

Conoscere il lavoro dei traduttori è stato particolarmente importante, perché sono proprio loro i protagonisti essenziali della trasmissione fedele di un concetto che dev’essere tale in ogni lingua ufficiale.
Ecco allora la necessità – in ambito di disabilità – non di trovare forme nuove o parole “di moda”, ma di descrivere il concetto tenendo conto in primo luogo delle evoluzioni culturali del termine e quindi del concetto stesso.
Nel nostro caso la differenza tra la nozione di handicap e quella di disabilità sta tutta nell’evoluzione vissuta da queste parole prima nei documenti ufficiali (dalle Regole Standard fissate dalle Nazioni Unite nel 1993, fino alla recente Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, passando per altri importanti testi) e poi nei linguaggi. Una differenza che con la parola handicap riconduce tutto ad una persona discriminata a causa di una menomazione che le impedisce di partecipare, mentre con disabilità la discriminazione è originata dagli ostacoli che impediscono alla persona stessa di partecipare, indipendentemente dalla sua menomazione.
E allora, mantenendo il termine handicap, intenderemo sempre un’originaria incapacità della persona, mentre parlando di disabilità ci riferiremo ad una capacità della persona ostacolata o facilitata dall’ambiente, a seconda delle caratteristiche e della struttura di quest’ultimo.

Tornando comunque al nostro incontro con il Dipartimento della Lingua Italiana presso la Commissione e il Consiglio dell’Unione Europea, possiamo senz’altro affermare di aver gettato un nuovo ponte con una parte della società che dovrà “descriverci” nei testi di comunicazione come in quelli normativi.
E solo un uso corretto dei termini adottati per parlare di noi potrà essere alla base di norme coerenti e rispettose del cambiamento concettuale associato alla disabilità.
Nuove sfide ci aspettano, il CND e anche la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) sono pronti a raccoglierle.

*Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità). 

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