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Per un dibattito maturo e concreto sulla vita indipendente

La prossima Conferenza Nazionale sulla Vita Indipendente che si terrà a Roma dal 4 al 6 ottobre solleva una serie di riflessioni sulla strategia da perseguire nel nostro Paese per sviluppare la filosofia/pratica del diritto alla vita autonoma, autodeterminata, indipendente e interindipendente delle persone con disabilità.
Questo documento vuole offrire un contributo al dibattito, rimasto talora impantanato in discussioni parziali o in confronti spesso autoreferenziali, e una serie di proposte concrete di azione cui ancorare la strategia italiana in materia.

Il dibattito internazionale
Il punto di riferimento obbligato in questo campo è la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità approvata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tale importante documento costituisce il punto di arrivo di una lotta decennale delle organizzazioni di persone con disabilità per il riconoscimento dei propri diritti. Esso afferma infatti che tutelare i diritti delle persone con disabilità significa prima di tutto «tutelare i loro diritti umani».
Dettaglio di un murale dipinto da Jane Stockley a Nottingham (Gran Bretagna) nella sede dell'ILF (The Independent Living Founds)Per millenni le persone con disabilità sono state trattate in maniera discriminatoria e impoverite socialmente ed economicamente. Ad esse, infatti, veniva attribuita l’incapacità a vivere nella società di tutti. Per offrire loro la possibilità di vivere, sono state quindi giustificate politiche e sostenuti servizi che le segregavano in istituzioni totali, in ruoli di dipendenza, all’insegna di interventi esclusivamente assistenziali e curativi.
Il paradigma culturale su cui era basata tale cultura della disabilità sottolineava che queste persone erano malate e incapaci e quindi la società doveva occuparsi di loro. Per secoli esse sono state espropriate del diritto di vivere nelle loro comunità di nascita e di vita, sono state attribuite loro condizioni di malattia e di inabilità permanenti, hanno visto cancellata la propria possibilità di avere un’opinione e una voce sulla propria vita. Tutto ciò ha prodotto istituzioni totali, dove venivano (e vengono) rinchiuse per tutta la vita, luoghi “speciali”, dove dovevano essere trattate e riabilitate prima di essere inserite nella società.

Negli ultimi decenni il movimento mondiale delle persone con disabilità ha rifiutato questa cultura, dimostrando che la disabilità non è una condizione soggettiva, causata da problemi psicofisici, ma che essa dipende dal modo in cui la società include le diversità psicofisiche delle persone nella programmazione del proprio sviluppo, nella costruzione degli ambienti fisici, nella progettazione di beni e servizi, nel trattamento e nell’accesso ai diritti.
È emerso così che la disabilità è un rapporto sociale tra le caratteristiche delle persone e l’insieme delle politiche, dell’uso appropriato delle risorse e delle soluzioni tecniche e tecnologiche, degli atteggiamenti culturali e sociali che la società utilizza per trattare le diversità umane: stiamo parlando insomma del modello sociale della disabilità che nella forma più estrema vede le persone con disabilità oppresse dal modo in cui la società le ha trattate per secoli.
La Convenzione approvata all’ONU sposta questo modello, sottolineando come sia necessario tutelare i diritti umani delle persone con disabilità, garantendo cioè loro che nessuno sia trattato in modo discriminatorio sulla base di una condizione di disabilità e che gli Stati debbano proibire ogni discriminazione, garantendo una tutela legale (articolo 5).

Partecipanti ad un recente seminario sulla consulenza alla pari, tenutosi in MalaysiaIn  questo quadro culturale e legale di riferimento, si inserisce anche l’articolo 19 della Convenzione, nel quale già il titolo (Vita indipendente ed inclusione nella comunità) lega fortemente la vita indipendente al superamento delle pratiche istituzionalizzanti e segregative.
Anche le Comunità Europee, nell’iniziativa in questo campo, fanno riferimento al Community Living, consapevoli che nei Paesi Comunitari vive più di mezzo milione di persone con disabilità in 2.500 megaistituti (progetto Included in Society, 2004).
In questo senso l’articolo 19 della Convenzione approvata all’ONU impegna gli Stati che la ratificheranno a riconoscere «l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone» e a prendere «misure efficaci e appropriate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e della piena inclusione e partecipazione all’interno della comunità».
Questo comporta che gli Stati assicurino che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa». Che abbiano inoltre «accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione».
Infine gli Stati devono assicurare che «i servizi e le strutture della comunità destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni».

Al diritto alla vita indipendente e all’inclusione nella comunità si lega strettamente anche l’articolo 20 (Mobilità personale) che impegna gli Stati a «prendere misure efficaci ad assicurare alle persone con disabilità la mobilità personale con la maggiore indipendenza possibile», in modo tale da «facilitare la mobilità personale delle persone con disabilità nei modi e nei tempi da loro scelti ed a costi sostenibili; agevolare l’accesso da parte delle persone con disabilità ad ausili per una mobilità di qualità, a strumenti, a tecnologie di supporto, a forme di assistenza da parte di persone o d’animali addestrati e di mediatori specializzati, rendendoli disponibili a costi sostenibili; fornire alle persone con disabilità e al personale specializzato che lavora con esse una formazione sulle tecniche di mobilità; incoraggiare gli organismi (i soggetti) che producono ausili alla mobilità, strumenti e accessori e tecnologie di supporto a prendere in considerazione tutti gli aspetti della mobilità delle persone con disabilità».
Infine, va tenuto conto dell’«universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali» e della «necessità da parte delle persone con disabilità di essere garantite nel loro pieno godimento senza discriminazioni», collegando così gli articoli 19 e 20 a tutti gli altri.

Colin Barnes è uno dei principali teorici del movimento internazionale per la vita indipendenteAppare a questo punto evidente che l’impostazione del’articolo 19 è il quadro culturale di approccio alla vita indipendente delle persone con disabilità.
Conformemente alla Dichiarazione di Tenerife sulla Vita Indipendente del 2003 – cui hanno contribuito teorici del movimento come Colin Barnes e che costituisce il riferimento più calzante – vale dunque la pena ricapitolare che la Convenzione ONU sottolinea:
– l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone: stessa libertà, quindi, in tutti i campi;
– la stretta connessione tra vita indipendente e percorsi di prevenzione dell’istituzionalizzazione e di deistituzionalizzazione;
– l’accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere alle persone con disabilità di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi, impedendo che esse siano isolate o vittime di segregazione;
– l’accessibilità e fruibilità dei servizi e delle strutture della comunità destinate a tutta la popolazione, sulla base dell’eguaglianza con gli altri. 

Altro elemento essenziale per garantire la vita indipendente è il cosiddetto empowerment delle persone con disabilità. Infatti, a causa dell’esclusione sociale e della mancanza di pari opportunità, queste ultime, attraverso trattamenti discriminatori, sono state impoverite di diritti e di competenze, vulnerando la loro stessa autostima e la capacità di affrontare la vita. Questo significa che la società è doppiamente responsabile, sia per l’esclusione sociale che per l’impoverimento di capacità e opportunità.
Fondamentale, quindi, è promuovere azioni di empowerment delle persone con disabilità che permettano di accrescerne il grado di autostima e di capacità per affrontare una vita indipendente.
Ricordiamo che la parola empowerment in inglese significa da un lato “rafforzare le capacità e le competenze”, dall’altro “prendere potere”. Non a caso la Convenzione si occupa di empowerment proprio all’articolo 26, dove impegna gli Stati a prendere «misure efficaci e appropriate, tra cui il sostegno tra pari, per permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la massima autonomia, la piena abilità fisica, mentale, sociale e professionale, e di giungere alla piena inclusione e partecipazione in tutti gli ambiti della vita». Perciò gli Stati «organizzeranno, rafforzeranno e estenderanno servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali».
Da qui emerge con forza la necessità che il movimento si doti di strumenti di empowerment, come la consulenza alla pari, una rete di informazione e di orientamento positivo, oltre che di centri per la vita indipendente

Persona con disabilità e suo assistente personaleInfine va fatta una riflessione teorica sul significato stesso di vita indipendente.
DPI Italia (Disabled Peoples’ International) ritiene che sia molto importante valorizzare le risorse di una persona con disabilità, proprio perché ciò le riconosce la sua dignità di Essere Umano che, in un’ottica di pari opportunità rispetto agli altri membri della società, può e dev’essere messo nelle condizioni di  realizzare il proprio percorso di vita autonoma, autodeterminata, indipendente e interindipendente.
Questi ultimi termini (vita autonoma, autodeterminata, indipendente e interindipendente) sembrano sinonimi, ma nascondono una serie di sfumature molto significative che – pur indicando processi strettamente intrecciati tra di loro – necessitano di una riflessione critica prima di poterli usare consapevolmente nel linguaggio di tutti i giorni.

Autonomia
Tutti i figli, in un periodo determinato della loro vita, sentono di doversi “autonomizzare” dalla famiglia di provenienza, costruendosi spazi di vita, ruoli sociali, relazioni interpersonali, esterne alle relazioni parentali, dove poter vivere esperienze di confronto su temi essenziali per la crescita di ognuno: l’amicizia, gli affetti, la sessualità, il lavoro e così via.
Tale processo di autonomia – comune a tutti i figli che diventano potenziali padri e madri – non ha certo un carattere lineare, essendo bensì punteggiato da tensioni, scontri e lacerazioni che ogni volta caratterizzano inevitabilmente la separazione di una persona dalle figure genitoriali o da figure equivalenti. Infatti il processo di autonomizzazione riguarda tutte le relazioni affettive di dipendenza da persone significative che nel corso della vita di ognuno possono rappresentare figure “di rassicurazione” cui affidare in modo improprio le proprie sicurezze.
Il livello di affidamento delle proprie sicurezze ad altre persone varia naturalmente da persona a persona e a seconda delle età.

Autodeterminazione
L’autonomia è collegata alla capacità della persona di autodeterminarsi – cioè di volere e saper scegliere – e alla progressiva assunzione di responsabilità rispetto alle conseguenze che queste scelte comportano. Risulta chiaro che questo processo, più o meno lungo, è connesso alla capacità di costruire relazioni esterne alla famiglia, superando il pregiudizio – che diventa spesso convinzione nella stessa persona con disabilità – che vuole quest’ultima come sempre dipendente da qualcuno.
In sintesi si può dire che l’autonomia e la capacità di autodeterminarsi siano i primi passi per poter vivere esperienze di indipendenza e interindipendenza.

Indipendenza
Il primo livello di indipendenza da conseguire è quello di compiere autonomamente le attività della vita quotidiana. In questo caso vi sono condizioni esterne che possono consentire un più facile conseguimento di questo obiettivo, come di quelli successivi (condizioni economiche favorevoli, disponibilità di risorse sul territorio ecc.); è evidente, però, che queste attività dipendono anche – e in maniera rilevante – da scelte personali. Così viaggiare (per vacanze e/o tempo libero), conseguire la patente di guida, gestire una casa propria, costruire una professionalità sono alcune delle attività che portano e fanno vivere situazioni di indipendenza.

Interindipendenza
Lavorare per un’interindipendenza con la società e con l’ambiente umano e naturale in cui si vive rappresenta ancora uno stadio successivo. In quest’area si possono includere tutte le attività con le quali si interagisce con la società e con molte persone, in forma di reciproca dipendenza e interscambio.
Cercare e conseguire un lavoro, costruire uno spazio di relazioni scelte, costruirsi una famiglia, agire nella società in maniera consapevole, attraverso azioni politiche, economiche e sociali, sono tante facce della stessa medaglia, in cui “giochiamo” con continuità e in forma strutturata le capacità di autonomia e indipendenza, in relazione con la società e le persone concrete.

La vita indipendente è quindi sia un percorso individuale di consapevolezza e di crescita personale, sia la possibilità di accedere a beni e servizi di sostegno, sia l’opportunità di avere accesso alla società senza pregiudizio e senza ostacoli e barriere, in condizioni di pari opportunità con gli altri.

La situazione italiana
In Italia il movimento per la vita indipendente ha cominciato a svilupparsi negli anni Novanta, con la creazione di ENIL (European Network of Independent Living, promosso nel 1989 da DPI Europe nella Conferenza di Strasburgo) e grazie a DPI Italia, con l’avvio di una serie di esperienze pilota (prevalentemente in alcune Regioni del Nord), basate per lo più sulla cosiddetta assistenza indiretta (brutto termine il quale mutua il concetto che per essere assistiti correttamente debbano intervenire i servizi pubblici, mentre l’erogazione di una monetizzazione viene appunto definita un'”assistenza indiretta”. In realtà anche lo Stato si serve di ditte accreditate che gestiscono i servizi…).
Persona con disabilità e suo assistente personaleLa possibilità di autogestirsi un proprio assistente personale è un elemento essenziale della vita indipendente, per poter decidere sui tempi e le modalità della propria esistenza, senza dover dipendere da una persona di assistenza che abbia tempi rigidi e limitati (le sei o otto ore di lavoro quotidiano), il cui servizio non sia mirato alle esigenze della persona che assiste e che spesso non sia disponibile in determinati orari (o anche che non sia abilitata a viaggiare e così via).

Nel 1998, sulla spinta di varie associazioni, è stata approvata la Legge 162 che modificando la Legge 104/92, ha introdotto tra i compiti delle Regioni quello di «disciplinare, allo scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente alle persone con disabilità permanente e grave limitazione dell’autonomia personale nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita, non superabili mediante ausili tecnici, le modalità di realizzazione di programmi di aiuto alla persona, gestiti in forma indiretta, anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta, con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia».
Questa legge ha prodotto in realtà situazioni estremamente diversificate: infatti, se un Comune come quello di Roma ha previsto da tempo nella disciplina dei suoi oltre 3.500 beneficiari la possibilità di accedere a programmi di assistenza indiretta, molti altri hanno invece ignorato la norma o spalmato le risorse sui servizi tradizionali di assistenza diretta. Alcune Regioni, poi – prima fra tutte la Sardegna – hanno finanziato con propri fondi i progetti di vita indipendente, coprendo 9.500 beneficiari. E tuttavia la gran parte delle realtà italiane è rimasta esclusa, o per l’incapacità degli enti pubblici o per le resistenze degli enti accreditati dei servizi di assistenza diretta.
Nel Comune di Roma è nata l’AVI (Agenzia per la Vita Indipendente), promossa dalle associazioni per sostenere i beneficiari di assistenza indiretta nelle pratiche burocratiche e nei percorsi di empowerment, oltre che nella selezione degli assistenti personali.
Successivamente, la Legge 328/2000 ha introdotto un fatto nuovo, con l’articolo 14, ovvero la necessità di concordare su richiesta dei beneficiari progetti di vita individuali che consentano la presa in carico globale e unitaria da parte di tutti gli enti competenti.

Oggi, poiché si parla di una legge nazionale per i non autosufficienti, con alcune Regioni che hanno già definito provvedimenti sulla materia, ritorna all’ordine del giorno dell’agenda politica la possibilità di discutere di vita indipendente per le persone con gravi dipendenze e che non possono rappresentarsi da sole.
Nel frattempo, però, l’istituzionalizzazione di persone con disabilità non autosufficienti viene ancora disciplinata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza n° 773 del 1931, in cui, agli articoli 153 e 154, esse sono «internate per ragioni di sicurezza pubblica e di salute» (sic!). Inoltre, per quanto sia stato introdotto dalla Legge 6/2004 l’amministratore di sostegno per le persone con disabilità non in grado di rappresentarsi da sole, l’attività di tale figura non risulta ancora ancorata alla tutela dei diritti umani delle persone che sostiene, come previsto invece dall’articolo 12 della Convenzione ONU. A ciò consegue che possa ancora risultare ovvio violare i diritti umani di queste persone, internandole in istituti quando non vi sia la famiglia (o a volte, ma fortunatamente sempre più di rado, proprio per volontà della stessa).

Le proposte
Una Conferenza Nazionale sulla Vita Indipendente deve quindi elaborare una piattaforma di richieste che faccia proprio l’insieme di queste esigenze, per dare il giusto respiro culturale e politico alla nostra battaglia per la vita indipendente.
A mio personale avviso, tale piattaforma dovrebbe contenere nel preambolo:
– la sottolineatura che le questioni legate alla piena inclusione delle persone con disabilità nella società sono questioni di diritti umani da rispettare;
– il riferimento alla Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite, ricordando che la disabilità «è un concetto in evoluzione e che […] è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri» (Punto E del Preambolo alla Convenzione);
– il riferimento all’«universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali e la necessità da parte delle persone con disabilità di essere garantite nel loro pieno godimento senza discriminazioni» (Punto C del Preambolo alla Convenzione);
– il riferimento agli articoli 3 (Principi generali), 9 (Accessibilità), 19 (Vita indipendente ed inclusione nella comunità), 20 (Mobilità personale) e 26 (Abilitazione e riabilitazione) della Convenzione;
– il riferimento alle iniziative delle Comunità Europee sul Community Living e il Piano d’Azione Europeo sulla Disabilità;
– il riferimento ai processi di prevenzione dell’istituzionalizzazione;Persona con disabilità con le braccia aperte vista di spalle

Le proposte d’azione dovrebbero dunque essere le seguenti:
– il riconoscimento dei diritti alla vita indipendente per le persone con disabilità, sanciti dalla Convenzione ONU;
– la necessità di una rilevazione del numero delle persone con disabilità con gravi dipendenze assistenziali e che non possono rappresentarsi da sole (in Italia non c’è un dato generalmente accettato);
– l’approvazione di una legge nazionale sulla vita indipendente che:
      a) istituisca un fondo nazionale di risorse certe annuali;
      b) consenta l’accesso attraverso l’articolo 14 della Legge 328/2000 a progetti individuali di vita indipendente, prevedendo la gestione diretta del servizio da parte dei beneficiari (o delle famiglie nel caso in cui le persone non possano rappresentarsi da sole), con la libera scelta dell’assistente personale;
      c) la definizione di procedure di funzionamento del servizio;
     d) la possibilità di creare enti di supporto per assistere i beneficiari che ne facciano richiesta nella gestione burocratica e nella selezione del personale;
     e) l’attivazione di servizi di empowerment territoriali come centri per la vita indipendente, servizi di consulenza alla pari, centri di informazione e orientamento ai beneficiari;
      f) la definizione di un profilo professionale degli assistenti personali per la vita indipendente;
– la definizione di un piano nazionale, regionale e locale di accessibilità «all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico» (articolo 9 della Convenzione), attraverso appropriate politiche di mainstreaming [l’inserimento della disabilità in tutti i processi, le politiche e le strategie delle risorse umane, N.d.R.], standard di accessibilità e progettualità basate sull’Universal Design;
– l’accesso ai servizi non accessibili attraverso politiche e facilitazioni tariffarie che prevedano la gratuità dei servizi per gli assistenti personali;
– la promozione e il potenziamento di «servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali» (articolo 26 della Convenzione);
– politiche concrete di prevenzione dell’istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione, modificando gli articoli 153 e 154 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza n° 773/1931;
– vincolare alla tutela dei diritti umani l’attività di supporto dell’amministratore di sostegno (Legge 6/2004) nei confronti delle persone che non possono rappresentarsi da sole, sulla base dell’articolo 12 della Convenzione;
– potenziare i servizi del cosiddetto “dopo di noi”, qualificandoli in direzione della tutela e della promozione dei diritti umani, sanciti anch’essi dalla Convenzione;
– riformulare l’accesso agli ausili attraverso una revisione del Nomenclatore Tariffario, basata sul diritto alla mobilità personale, sancito dall’articolo 20 della Convenzione.

Tutte queste proposte naturalmente non sono esaustive, ma vogliono contribuire a sviluppare un dibattito maturo sulla vita indipendente, superando i corporativismi e i riduzionismi, oltre che attivando tutte quelle azioni che consentano di sostenere l’inclusione sociale delle persone con disabilità: i veri esperti di questa inclusione siamo noi. Una volta di più, quindi, Niente su di Noi senza di Noi!

*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).

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