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Il coraggio della popolazione del Myanmar

Dal sito del quotidiano «La Stampa»: la protesta non violenta dei monaciDi fronte alla repressione sanguinosa con cui la giunta militare al potere sta rispondendo in questi giorni alle proteste non violente degli abitanti del Myanmar (la vecchia Birmania) e di fronte alla paralisi internazionale dimostrata ieri dagli esiti della riunione dell’ONU, sortita in un nulla di fatto a causa dell’opposizione di Russia, Cina e Indonesia, anche la nostra redazione rimane scossa e impotente, speranzosa che il Ministero degli Esteri italiano e il nostro Governo tutto vogliano farsi promotori di un intervento diplomatico che vada al di là della formale e generica disapprovazione.

I monaci buddisti, scesi da dieci giorni a migliaia nelle strade della capitale Yangon (l’ex Rangoon), per protestare contro un nuovo inasprimento dei prezzi da parte del regime, esprimono l’insofferenza della popolazione, stremata da decenni di povertà e privazione delle libertà civili.
Negli ultimi giorni, i manifestanti sono diventati decine di migliaia, perché accanto ai religiosi sfilano ora anche le monache e i civili, affrontando, con coraggio e senza armi, le forze militari che da ieri hanno aperto il fuoco sulla folla.

Due giornalisti stranieri risultano uccisi, così come almeno sette monaci. Gli arrestati potrebbero essere ormai di poco sotto al migliaio. Certo, è difficile saperlo con certezza, perché il regime impedisce la circolazione delle notizie, non avendo tra l’altro mai riconosciuto la libertà di stampa e di libera espressione.
Il presidente degli Stati Uniti Bush in queste ultime ore ha intimato di fermare l’ondata di violenza. Di fronte a tutto ciò, colpisce il comportamento dei monaci e della popolazione che fin dall’inizio hanno condotto una protesta non violenta, fatta di marce e sit-it scanditi dal suono dei mantra. Al passaggio dei religiosi, i civili si inchinano.Aung San Suu Kyi è stata insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1991

Il Myanmar, ex Birmania, si trova nella penisola indocinese nel sud-est dell’Asia. Dal 1962, con un colpo di stato, la giunta militare ha preso e mantenuto il potere isolando il Paese dal resto del mondo, disconoscendo i diritti civili e sedando nel sangue le rivolte studentesche nel 1988 (quando si valuta che morirono più di tremila persone).

Nel 1989 le dimissioni del dittatore portarono alle libere elezioni che riconobbero come vincitrice Aung San Suu Kyi, leader della NLD (Lega Nazionale per la Democrazia), contro lo SLORC (Consiglio di Restaurazione della Legge e dell’Ordine di Stato), di matrice militare. Quest’ultimo però non riconobbe i risultati democratici, arrestò Aung San Suu Kyi e ripristinò la dittatura. Da allora, la donna ha vissuto in carcere e negli ultimi undici anni agli arresti domiciliari. Nel 1991 le fu conferito il Premio Nobel per la Pace.
Da ieri, di lei non si sa più nulla: potrebbe essere stata riportata in carcere dai militari. Chiunque può firmare l’appello internazionale per la sua liberazione, al quale si può accedere cliccando qui.

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